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Full text of "Le opere maccheroniche di Merlin Cocai [pseud.] .."

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THE  SURPLUS  INCOMB  OF  THIS  FUND 
GIVIN  BY  WALDO  HIGGINSON  (CLASS 
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BRIMMUl  SOHIBR  (CLASS  OF  1852) 
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ATTILIO  PORTIGLI 


LE 


OPERE  MACCHERONICHE 


DI 


MERLIN  COCA.I 


VOLUME  TERZO. 


MANTOVA 

DITTA   EDITRICB   O.   HONDOVI 

1889. 


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^ L  l    ì  L^^L. 


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DEL  mZO  fOllE 

DELLE  OPERE  MACCHERONICHE 

DEL 

FOLENGO 


DELL'  ORLANDINO. 


I. 


1.  La  pubblicazione  AeW  Orlandino  e  del  Caos.  ^  2.  Ragione  ed  im- 
portanza della  pubblicazione. 

1.  Sino  dal  1882,  allorché  si  pubblicarono  i  due 
primi  volumi  delle  Opere  Maccheroniche  del  Folengo,  *) 
ho  accennato  alla  probabilità  della  stampa  deìVOrlandino 
e  del  Caos  —  pag.  cui  della  Prefazione,  —  ed  ora  gli 
egregi  editori  vengono  a  mantenere  questa  mia  e  loro 
mezza  promessa. 

Queste  due  Opere  quindi  sono  ora  stampate  cogli 
stessi  tipi  delle  altre  e  compongono  il  terzo  volume  delle 
Opere  Maccheroniche  del  nostro  grande  poeta. 

2.  Comprendo  anche  V  Orlandino  ed  il  Caos  fra  le 
Opere  Maccheroniche  del  Folengo,  perchè  se  non  lo  sono 

1)  Le  opere  Maccheroniche  di  Merlin  Cocai.  —  Mantova,  tip.  Mon- 
dovi  1882-83. 


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—  IV  — 

in  quanto  alla  forma,  lo  sono  però  nel  concetto,  VOrlan- 
dina  in  modo  particolare. 

Non  è  possibile  il  fare  un  confronto  tra  le  Opere 
Maccheroniche  propriamente  dette  e  queste  due,  perchè 
oltrecchè  per  la  forma  non  hanno  tra  loro  alcun  rapporto 
negli  intenti.  H  Folengo  nello  scrivere  le  ultime  due 
fu  mosso  da  cagioni  e  ragioni  affatto  diverse,  le  quali 
scaturivano  direttamente  dalle  condizioni  speciali  in  cui 
si  trova  nel  terzo  de€iennio  del  secolo  XVI. 

E  nemmeno  T  importanza  loro  è  in  egual  grado, 
poiché  le  prime  sono  un  vero  monumento  letterario  sui 
generisj  avente  uno  scopo  ed  un  concetto  generale,  che 
fanno  del  loro  autore  una  individualità  specialissima,  in- 
nimitabile  ed  insuperabile  e  dirò  anche  imperitura,  mentre 
le  seconde  hanno  uno  scopo  e  concetto  affatto  ristretti 
ed  individuali,  e  la  loro  importanza  letteraria  è  del  tutto 
mediocre,  in  maniera  che  da  esse,  il  Folengo,  e  per  esse 
non  avrebbe  avuta  alcuna  buona  reputazione  di  poeta 
e  di  letterato. 

La  importanza  loro  sta  esclusivamente  in  ciò,  che 
ci  rappresentano,  nel  loro  complesso,  un  periodo  impor- 
taute,  l'avventuroso,  della  vita  del  Folengo,  e  separata- 
mente, due  momenti  diversi  di  questo  stesso  periodo, 
èioè  l'aberrazione  e  la  resipiscenza.  E  come  tali  ci  sono 
grandemente  utili  allo  studio  psicologico,  dirò  così,  del 
poeta,  il  quale,  non  tanto  per  le  vicende  della  sua  vita, 
quanto  per  le  evoluzioni  sue  filosofiche  e  religiose  ci  ap- 
pare un  vero  e  genuino  tipo  di  quella  pleiade  di  igegni 
e  di  dotti  italiani  del  rinascimento,  i  quali  erano  un  misto 
di  cristiano  e  di  pagano,  di  religiosità  e  di  ateismo,  di 
fede  e  di  indipendenza  intellettuale  ^). 

1)  Per  r  Italia  e  per  gii  Italiani  del  Rinascimento  il  principio  del 
libero  esame,  non  è  una  invenzione  di  Lutero,  al  pari  che  noi  non  ave- 
vamo, punto  bisogno,  nel  secolo  scorso  della  importazione  francese  dei 
così  detti  principi  dell'  89. 


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—  T  — 

h^  Orlandino  quindi  venne  composto,  e  di  conse- 
guanza  anche  stampato,  prima  del  Caos.  Ed  io  nel  ri-: 
produrre  queste  due  operette,  che  si  ponno  dire  le  opera 
miinori  del  Folengo,  mantengo  la  loro  successione  cro- 
nologica e  morale,  e  quindi  VOrlandino  precede  il  C(mos^ 
ed  assieme  compongono  il  volume. 


II. 
L' ORLANDINO. 

1.  n  soggetto   del   poemetto.  —  2.    E  quando  perchè   il   Folengo   lo 
compose.  ^  3.  Dell'  invenzione,  dello  stile  e  della  lingua. 

1.  Quanto  sono  per  dire^  in  questa  prefazione,  e 
che  non  concorda  esattamente  con  ciò  che  dissi  in  quella 
premessa  ai  primi  due  volumi,  è  il  frutto  di  studi  ed 
inds^i  fatti  posteriormente  sul  Folengo.  E  di  ciò  non 
è  da  farsi  alcun  caso,  perchè  il  concetto  che  mi  dono 
fatto  intomo  alla  vita  del  Folengo,  allorché  dettai  il 
primo  studio,  si  fu  quello  che  non  se  ne  sapesse  nulla, 
e  che  tutto  fosse  incei*to,  persino  quelle  vicende  che  si 
davano  per  le  più  sicure  '). 

U  Orlandino^  poemetto  eroicomico,  in  ottava  rima, 
diviso  in  otto  canti,  o  capitoli,  narra  le  vicende  della 
nascita  e  della  giovinezza  di  Orlando. 

Il  tema,  non  era  stato,  e  non  lo  fu  poi,  trattato  da 
alcun  altro.  E  sehbene  egli  dica  di  avere  preso  il  rac- 
conto dal  libro  di  Turpino,  però  esso  è  totalmente  di  sua 
invenzione. 

2.  Ci  manca  qualunque  notizia  positiva  per  deter- 
minare r  anno   in    cui  fu   scritto  il   poemetto  ;   conviene 

i 

1)  Vedi  quaHto  scriasi  a  pag.  XXXV,  XLUl  e  altrove  della  prima 
prefti^lone. 


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—   VI    — 

quindi  anche  su  di  questo  punto  andare  a  tentoni  ;  ma, 
ciononstante,  siamo  sicuri  che  non  fa  fatto  né  prima 
del  1525  né  dopo  il  1526. 

Se  badiamo  al  testo  preciso  di  due  versi  che  si  leg- 
gono nel  capitolo  2*,  nella  stanza  III  dell'  edizione  di 
Rimini  del  1527,  che  riguardano  la  battaglia  di  Pavia, 
parerebbe  che  si  dovesse  attribuirlo  al  1525;  poco  dopo 
la  battaglia,  poiché  dicono  *). 

Gode  7  Spagnolo,  che  sotto  Pavia 
Fatt'  ha  pfHgion  di  Pranza  sì  aito  roy. 

Mentre  una  leggera  ma  significante  modificazione, 
introdotta  nella  edizione  veneta  del  Sabbio,  ci  lascia  in- 
tendere che  spetti  ad  una  data  lontana  alquanto  dal  me- 
morando fatto.  Si  leggono  infatti  cosi  : 

Godea  7  Spagnolo,  che  sotto  Paria 
Atea  fatto  prigion  di  Pranza  et  voy. 

Ma  la  data  della  dimanda  del  Garanta  e  del  privi- 
legio,* 3  Novembre  1526  ci  indica  che  non  si  varca  que- 
sto anno  1526,  perchè  in  questa  epoca  il  libro  doveva 
essere  composto,  perchè  si  principiasse  a  stampare. 

2.  Un'  altra  questione  da  risolvere  è  quella  delle  ca- 
gioni che  indussero  il  Folengo  a  scrivere  un  poemetto 
in  versi  italiani,  dopo  di  avere  scritto,  e  con  molta  for- 
tuna, i  suoi  lavori  maccheronici. 

Un  cenno  ce  lo  dà  lui  stesso  nel  primo  esametro 
dei  due  distici  latini  che  ha  esposti  sul  frontespizio  della 


1)  Non  mi  è  stato  possibile  di  avere  la  edizione  Sonciiiiana  di  Ri- 
mini. Devo  questa,  notizia  alla  cortesia  del  eh.  sig.  prof.  Vittorio  Rossi, 
da  lettera  cha  scrisse  al  prof.  A.  Lazio  il  23  dciru.  s.  Dicembre.  Ringrazio 
Tuno  e  Taltro, 


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—   VII   — 

edizione  Garanta,  che  si  leggono  anche  sulle  Bindoniane, 
Il  verso  dice: 

ji  Mensibus  istud  opus  trìbus  indignatio  fedU 

.  Quale  indignazione  e  da  che  prodotta?  Credo  che 
se  ne  abbia  la  spiegazione  nelle  stanze  VI  -  XTT  del 
primo  Capitolo,  nelle  quali  sfoga  un  violentissimo  sdegno 
contro  alcuni;  fra  i  quali,  tiene  il  primo  posto  un  tosco 
chiacchiarone^  rei  di  avergli  fatte  delle  censure.  E  coteste 
censure  non  potevano  avere  di  mira  che  le  Opere  Mac- 
cheroniche. 

Ei  naturale  che  esse  non  avessero  incontrato  il  fa- 
vore di  tutti  i  dotti  e  specialmente  dei  puristi,  fra  i  cul- 
tori della  letteratura  classica,  i  quali  le  avranno  considerate 
uno  scempio  indegno  della  lingua  di  Virgilio.  E  proba- 
bilmente costoro  avranno  anche  asserito  che  egli  non 
fosse  capace  che  di  fare  versi  maccheronici. 

Di  qui  le  ire,  e  le  invettive  succitate  e  le  altre  che 
si  trovano  nel  Caos^  ed  il  proposito  di  fare,  come  fece, 
un  poema  in  versi  eroici  italiani  per  smentire  le  calunnie. 

NeirOWandmo  però  tace  i  nomi  dei  suoi  dettrattori, 
ma  li  nomina  nel  Caos^  e  costoro  sarebbero,  un  Seba- 
stiano fiorentino,  che  sarebbe  il  tosco  chiacchiarone^  ed 
Alberto  da  Carpi,  non  si  sa  bene  se  il  medico  e  filosofo 
celebre:  parerebbe  di  no,  poiché,  la  lettera  che  si  legge 
in  fine  del  Caos  è  diretta  —  Ad  un  altro  Alberto  da 
Carpi  di  tal  nome  indegno. 

Nella  seconda  terzina  del  sonetto  premesso  all'  Or- 
landino vi  è  un'invettiva,  contro  Pietro  Durante  da  Gualdo, 
autore  del  romanzo,  La  Leandra^  invettiva  acerba,  che 
ben  due  volte  espresse  anche  nel  Baldo^  ma  specialmente 
nella  Maccheronica  XXV,  p.  207  e  seg.  dove  ci  fa  co- 
noscere anche  le  cagioni  dello  sdegno  suo 


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1 


—  vni  — 

qui  dum  cecinisse  Leandram 

Se  jactat,  doctis  sheffatur  ubigtie  poetis, 

fra  1  quali  poeti  sbefFati  sarà,  non  v'  ha  dubbio,  anche 
i\  Fol^ngp. 

Ma  le  critiche  del  Durante  non  poxmo  avere  avuto 
di  mira  che  le  Maccheroniche  del  1517,  non  le  edizioni 
posteriori,  e  nemmeno  V Orlandino  ed  il  Cao^^  essendo  di 
queste  e  quelle  opere,  anteriori, 

ISi  lo  sdegno  del  Folengo  contro  i  suoi  detrattori 
fu  così  potente  che  gli  fece  comporre  il  poemetto  in  tre 
mesi,  dice  neiresametro  suriportato,  o  ih  due  mesi,  come  fa 
dire  alla  madre  Paola  nel  Dialogo  ddh  tre  etadi  pag.  5. 

Intorno  al  quesito  della  stampa  ^éXOrlandÌ7io  le  in- 
certezze noli  sono  minori. 

Kel  Dialogo^  pag,  5^  pone  in  bocca  alla  nipote  Co- 
rona che  nel  tempo  eh^  lo  componeva  eragli  rubato  dagli 
Ì79hjpressQri. 

Di  ciò,  come  so^un^o  nella  nota  2^,  pag.  5,  non  si 
ha  prova  di  sorta.  Non  potrebbero  darcela  che  numerose 
edizioni  del  1526,  che  sono  le  più  antiche,  ma  queste 
noh  ce  la  danno,  poiché  di  queir  anno  non  vi  è  che 
quella  di  Sabbio  e  quella  del  de  Gregori. 

Quella  di  Rimini  porta  la  data  del  Dicembre  1527, 
che  però  potrebbesi  considerare  contemporanea  alle  pre- 
cedenti, ma  anche  così,  il  numero  degli  stampatori  si 
riduce  a  tre,  e  difficilmente  giustifica  la  frase  pomposa 
anzidetta. 

Dopo  queste  edizioni  si  hanno  quelle  del  Da  Sessa 
del  1530  e  del  1535  etc.  che  non  entrano  nel  novero 
delle  prime.  E  qui  si  presenta  un'  altra  quistione,  cioè 
quale  delle  due  edizioni,  non  ostante  la  loro  data,  sia 
da  considerarsi  la  prima,  la  Sabbio,  la  Soncini, 


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—  K  — 

Due  forti  ai^omenti  ci  inducono  a  ritenere  la  Son- 
GUdi  la  prima  edizione. 

Il  primo  lo  si  trae  dal  fatto  che  la  edizione  Soncini 
manca  dell'  episodio  delV  abate  Grìfarosto,  e  delF  ottavo 
capitolo,  ed  il  7*^  è  composto  delle  prime  66  ottave  del  7^ 
cap.  e  delle  ultime  otto,  86-93  delF  ottavo  dell' edizione 
veneta,  mancando  cosi  anche  delle  ultime  quattro  del  7^  ca- 
pitolo di  questa  edizione. 

Non  contiene  del  pari  V Apologia  delFautore,  posta  in 
fine  deir  edizione  Sabbio.  Manca  ancora  della  stanza  31 
del  1^  Capitolo,  della  65  del  terzo,  le  due  ultime  del 
quarto,  Ia  60  del  quinto  ^). 

H  secondo  argomento,  lo  si  ha  nella  dimanda  di 
privilegio  del  Goranta,  là  dove  dice  che  YOrlandifw  che 
egli  vuole  stampare  è  con  la  giunta. 

Se  ciò  non  ci  fa  intendere  che  ce  ne  fosse  uno  già 
finito  di  stampare  privo  della  giunta^  intendiamo  che  ne 
esisteva  uno  non  compiuto  e  già  ceduto  e  consegnato  ad 
altro  tipografo,  in  confronto  del  quale  metteva  il  suo. 

\!Orlandm/(f  incompleto  non  può  essere  che  il  Son- 
cimano,  il  quale  per  ciò  è  da  ritenersi  precedente  all'altro 
del  Sabbio. 

Se  lo  si  vuole,  un  altro  argomento  di  cotesta  prcT 
cedenza  ci  è  fornito  dal  diverso  tenore  dei  due  versi  su 
riportati,  riguardanti  la  battaglia  di  Pavia. 

3.  Se  nella  scelta  del  soggetto,  andando  a  pescai*lo 
fra  le  leggende  della  Tavola  rotonda  francese,  non  ha 
fatto  altro  che  seguire  Y  esempio  dei  poeti  che  X  hanno 
preceduto,  dal  Boiardo  all'Ariosto,  non  è  per  nulla  am- 
missibile che  siasi  inteso  di  emularli  in  qualsiasi  maniera, 
in  quella  guisa  che  nessuna  ambizione  di  emulare  Vii*- 
gilio  gli  fece    scrivere   in  lingua   e    stile    maccheronico. 


1)  Le  notizie  precise  che  ne  ho  date  le  trassi  dalla  lettera  precitata 
del  prof.  Rossi. 


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S^'- 


—  X   — 

,  Come  ho  detto,  se  ciò  egli  non  ebbe  di  mira  che  di  ri- 

spondere alle  censure,  più  o  meno  ragionevoli,  delle  sue 
composizioni  maccheroniche,  e  di  provare  che,  come  in 
quelle,  cosi  nella  versificazione  italiana  era  egualmente 
potente,  i  propositi  del  Folengo  fiirono  assai  modesti  e 
come  li  abbia  raggiunti  deve  dirlo  la  critica  ragionevole 
e  spassionata. 

Tutto  il  racconto,  e   le   circostanze   e  i  fatti  che  lo 
intrecciano   e   lo   compongono   non  escono  dalla  comune 

f^  .  dei  racconti  favolosi,  delle  fiabe  popolari.  Talune  circostanze 

|ion  sono  nuove,  ed  alcuni  fatti  sono  contrari  alla  storia. 
Il  poemetto  è  diviso  in  otto  canti  o  capitoli,  con  un 
nonetto  di  prefazione,  il  di  .cui  senso  è  un  enigma,  ed 
una  dedica  al  Federico  II  Gonzaga,  marchese  di  Mantova. 
Nel  primo  capitolo,  premessa  una  invocazione  bur- 
lesca, 0  meglio  dirò  maccheronica,  trattandosi  del  Fo- 
lengo, al  principe  di  Mantova,  esce  coli' invettiva  contro 
i  suoi  detrattori.  Ci  dice  poscia  la  fonte  dalla  quale  trasse 
il  soggetto  e  la  materia  del  poema,  segue  la  descrizione 
della  corte  di  Carlo  Magno,  dopo  di  che  entra  in  materia 

^  -  .  col  narrarci  come  Berta,  sorella   di   Carlo   Magno,  siasi 

innamorata  di  Milone,  e  la  dimanda  di  costei  al  fratello 
che  sia  fatta  una  giostra,  sperando  che  il  suo  paladino 
ne  resti  vincitore. 

^ —  Nel  secondo  capitolo  è  narrata  una  giostra  burlesca 

j  fra  i   paladini   stranamente   camuffati,   degna   det  genio 

à^l  Folengo,  mentre  nel  terzo  segue  la  giostra  vera, 
quale  ce  la  danno  tutti  i  poeti  che  descrissero  sifatti 
spettacoli,  della  quale  Milone  rimane  il  trionfatore. 

Nel  quarto,  si  ha  un  pranzo   ed  un  ballo  imperiali, 
ed  ili  ^^^  incontrandosi  Milona  con-^Béi-ta,  si  innamora 

.  di  lei,  eoQViv  pmm  la  era  di  lui.  Ma  durante  il  ballo  Berta 

riesce  ad  aveice  Biella  propria  stanza  Milone,  onde  poi  ne 

k  viene  Orlandino. 


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—      XI   

Nel  quinto  capitolo  dòpo  di  avere  narrati  alcuni 
episodi  prodotti  dalle  gare  e  dalle  discordie  dei  baroni, 
racconta  la  fuga  dei  due  amanti,  le  loro  avventure  alla 
spiaggia  del  mare,  fra  le  quali  vi  è  un  graziosissimo 
idillio  con  un  povero  pescatore. 

Nel  sesto  i  due  fuggiaschi  si  imbarcano  su  di  un 
legno  in  un  porto  della  Francia,  e  sul  mare  incontrano 
avventure  tali  che  ne  vengono  separati,  ed  in  fine  chi 
da  una  parte  chi  dair  altra  sono  gettati  sulle  coste 
d'Italia,  e  Berta  dopo  di  avere  peregrinato  per  la  Lom- 
bardia e  per  la  Toscana  giugno  a  Sutri,  dove  un  pastoie 
r  accoglie  nella  propria  capanna,  e  Milone  transitando 
l'Appennino,  vi  raccoglie  gran  gente  che  trova  rifugiata 
nelle  grotte, 

E  come  qui  Milone  capitando 

Trovò  sotto  Appennino  entro  le  grotte 

Un  popol  infinito 

Stanza  LUI. 

se  lo  trae  seco  e  giunto  —  In  un  vallone  cTlsuhria  — 
St  LIV,  vi  si  ferma  e  fabbrica  una  grande  città,  che 
dal  suo  nome  è  chiamata  Milano. 

Cotesta  origine  di  Milano,  è  chiaro,  che  è  macche- 
ronica, ma  non  è  maccheronica  l'asserzione  che  ai  tempi 
di  re  Desiderio,  un  popolo  infinito,  T  italiano  oppresso 
dai  Longobardi,  se  ne  vivesse  miseramente  in  grotte  e 
capanne.  Lo  disse  anche  il  Manzoni  in  quei  versi  che 
tutti  sanno  a  memoria  : 

Dagli  atrii  muscosi  dai  fori  cadenti^ 
Dai  boschi^  dall'arse  officine  stridenti^ 
Dai  solchi  bagnati  da  servo  sitdor^ 
Un  vulgo  disperso '  ecc. 


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—   XII  — 

Io  non  80  bene  se  il  Folengo,  conscio  del  vero,  abbia 
-i  saputo  e   voluto   dire   una   grande  verità  storica,  oppure 

f  abbia  creduto  invece,  di  dire  una  grande  stramberia  atta 

a  far  ridere.  Io  sto  per  la  seconda  ipotesi*  Se  il  Folengo 
avesse  saputo  che  quello  che  asseriva  da  burla  non  era 
che  una  verità  storica,  il  fatto  che  ora  noi  tutti  cono- 
sciamo, non  r  avrebbe  detto.  Nella  sua  mente  il  popolo 
infinito  che  se  ne  viveva  nella  caverna  delP  Appennino 
era  né  più  né  meno  che  una  panzana,  quanto  lo  era,  e  lo 
sapeva  che  lo  era,  la  fondazione  e  Torigine  del  nome  della 
capitale  lombarda. 

Nel  settimo  capitolo,  dimorando  Berta  nella  capanna 
W  '  del  pastore  sutrino,  dà  alla  luce  VOrlandino^  il  quale  sino 

dai  primi  anni  fa  un  mondo  di  diavolerie  coi  ragazzi  del 
contado,  ritornandosene  spesso,  alla  sera,  presso  la  madre 
colla  testa  rotta,  il  corpo  ammaccato,  che  cagionano  tanti 
affanni  alla  madre  infelice. 

Chiudesi  il  capitolo  colla  narrazione  dell'  avventura 
di  Orlandino  con  Oliviero,  il  futuro  paladino,  figlio  di 
Ranieri,  un  barone  di  Francia,  governatore  di  Sutri,  per 
la  quale  il  Ranieri  viene  a  sapere  di  chi  era  figlio  Or- 
landino. 

E  r  avventura  con  Oliviero  è  la  parte  che  il  Fo- 
lengo aggiunse  nella  edizione  veneziana  sopra  la  ri- 
i'  minese. 

L'ultimo  capitolo  contiene  l'episodio  dall'abate  Gri- 
.  farosto   e   si   chiude   coU'anivo  di  Milone  alla  grotta  di 

Berta  e  colla  partenza  di  tutte  e  tre  per  il  Mar  Nero, 
dove  combatteva  Amone,  col  giovinetto  suo  figlio  Ri- 
naldo, e  dove  i  due  cugini  fanno  le  loro  prime  prove 
nelle  armi. 

A  II  fatto  che  è  di  fondamento  al  poema  è  la  nascita 

di  Orlando   da  Milone  e  da  Berta,  la  sorella  ben  amata 
(  di  Carlo  Magno. 


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'  F-BBr>i?T«J».jp^"'-. 


—  xra  — 

Ora  tutte  cotesto  narraaione,  dal  suo  principio^ sino 
all'arrivo  di  Berte  a  Sutri  ed  al  suo  parto  non  è  nuova, 
n  Folengo  con  pochissime  variazioni  Tha  narrate  per 
intero  nel  poema  maccheronico,  Baldo.  Baldo  è  figlio 
di  Baldovina  figha  del  re  ed  ha  per  padre  Guidpne^  al- 
tro barone  di  Fx-ancia. 

Vi  è  lo  stesso  innamoramento,  colle  stesse  circo- 
stanze, che  lo  fanno  sorgere,  di  incontri  fortuiti  e  procu- 
rati,* giostre,  etc.,  la  fuga  in  Itelia  degli  amanti,  e  con- 
seguentemente la  nascita  dei  due  bambini,  i  futuri  croi. 
Soltento  nel  primo  caso  Guidone  e  Baldovina  viaggiano  per 
terra,  e  pedestri  vengono  in  Lombardia,  indi  a  Mantova, 
in  fine  a  Cipada,  dove  nasce  Baldo,  mentre  neir  altro, 
caso  Milone  e  Berte  viaggiano  per  mare.  Berte  dopo 
fortunose  vicenàe  ripara  nella  grotte  del  pastore  di  Sutri, 
nella  ^uale  dà  alla  luce  Orlando. 

Al  fatto  principale,  oltre  agli  incidenti  che  da  es»o 
direttemente  scaturiscono,  si  aggiungono  anche  di  estranei 
affatto,  quali  sono  le  giostre,  la  burlesca  e  la  seria,  poi 
le  conteae  dei  baroni  e  i  sanguinosi  conflitti  che  accadono 
in  Parigi  fra  gli  uni  e  gli  altri,  e  il  bando  di  Milone. 

in  tutto  ciò,  che  arieggia  lo  stile  eroico  dell'Ariosto, 
dal  quale  però  resta  molto  al  disotto,  non  vi  è  nulla  che 
sia  straordinario  e  nuovo,  tolte  la  giostra  burlesca,  che 
come  accennai  la  è  una  felicissima  trovate  del  genio  del 
Folengo.  Tutti  i  nostri  poemi  eroici  sono  pieni  di  fatti 
simili. 

I  fatti  posteriori  alla  nascita  non  meritano  più  dei 
precedenti  che  se  ne  tenga  conto.  Anzi,  facendo  un  con- 
fronto fra  la  descrizione  della  fanciullezza  di  Baldo  e 
quella  di  Orlando,  si  capisce  tosto  che  tra  Funa  e  Taltra 
avvi  una  grande  differenza. 

Quella  di  Baldo  è  più  bella,  più  alta,  più  poetica. 
Orlandino  non  è  che  un  volgare  birricchino   da   strada^ 


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—  XIV   — 

senza  che  appalesi  alcun  nobile  sentimento,  tolto  quello 
verso  la  madre^  del  che  non  si  può  fargli  grande  merito* 
Mentre  Baldo,  anche  lui  animoso,  ardito,  batte  spietata- 
mente Zambello,  il  suo  fratello  di  latte,  combatte  solo 
contro  tutta  la  ciui^ma  dei  ragazzi  di  S.  Leonardo,  di- 
mostra una  grande  passione  di  istruirsi.  Va  quindi  alla 
scuola,  e  vi  impara  a  leggere  ben  presto,  e  con  avidità 
irrefrenabile,  entusiastica,  si  mette,  a  leggere  i  Reali  di 
Francia,  e  tutti  i  libri  dei  paladini  di  Francia,  dai  quali 
si  inspira  ai  grandi  fatti  della. sua  vita  virile. 

Soltanto  quando  Orlando  trovasi  alla  presenza  di  Rai- 
neri, trova  i  sentimenti  sdegnosi  e  degni  del  futuro  eroe  ; 
ma  sino  a  questo  punto  non  si  distingue  in  nulla  dai 
ragazzi  suoi  coetanei,  e  resta  molto  inferiore  a  Baldo. 

L'episodio  di  Raineri,  padre  di  Oliviero,  governatore 
di  Sutri,  è  grazioso,  ma  il  Folengo  non  sa  trapie  il 
profitto  che  doveva,  quale  si  è  quello  di  farlo  strumento 
della  ricongiunzione  di  Milone  con  Berta. 

Separati  per  le  vicende  patite  in  mare,  vivevano  da 
ben  dieci  anni  senza  sapere  nulla  Tuno  e  dell'altro. 

Ora  ammesso  pure,  il  che  però  è  strano,  che  le  gesta 
di  Milone  in  Lombardia  non  sieno  mai  giunte  airorecchio 
di  Berta,  era  impossibile  che  rimanessero  ignorate  a  Rai- 
neri, il  quale  appena  saputo  dal  giovinetto  Y  essere  suo 
e  quello  della  madre,  nientemeno  che  la  sorella  del  suo 
imperatore,  doveva  correre  ad  ossequiarla,  trarla  dal  tu- 
gurio nel  quale  viveva,  da  tanti  anni  e  sì  poveramente, 
ospitarla  in  casa  sua,  ed  avvisarne  Milone.  Ma  nulla 
succede  di  tutto  ciò.  Milone  invece  capita  a  Sutri  di 
notte,  per  caso,  e  senza  che  se  ne  sappia  la  spiegazione, 
va  difilato  alla  c^ipanna  di  Berta.  Raineri  non  e'  entra 
per  nulla.  Una  così  strana  conclusione  fa  vedere  che  il 
Folengo  stanco  del  soggetto,  lo  strozza  in  così  fatta  ma- 
niera. Era  ben   meglio  che  lasciasse  da  parte  Y  episodio 


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—  XV  — 

dell'abate  Grifarosto,  e  che  compisse  il  racconto,  con  (^^ 
costanze  uscenti  direttamente  dai  fatti,  che  egli  i^lmo 
pone  in  scena,  inerenti  al  tema. 

Vi  ha  poi  mia  circostanza,  che  sopVà  tutte  pcu^rita 
di  essere  notata,  quella  della  nascita  illeggittima  sì  di 
Baldo,  che  di  Orlando,  e  per  incidenza  noto  anche  quella 
di  Guidon  Selvaggio. 

Con  ciò  il  Folengo  non  si  intese  di  esprimere  un 
concetto  maccheronico,  o  ridicolo;  egli  ebbe  un  intento 
più  altOi  e  ben  determinati^  nel  suo  animo.  Egli  odiava 
cordialmente  i   francesi,   e  nel  Baldo  qua  e  là  ce  ne  ha  ]  | 

date,  le  prove,  ma  specialmente   in   due  luoghi  nei  quali  J 

lancia  due  insulti   atroci   ai   baroni  di  Francia.  Nell'uno  '!  | 

dice  che   i  bastardi   che   nascono  dai  preti  di  Eoma  di-  ;i  ' 

ventano  tutti  baroni  di  Francia;   nelF  altro,  parlando   di  -f  I 

Zambello  che  al  sole   di  Luglio   si  liberava  da  certi  in-  *?,  | 

quilini  molto  molesti,  esce  a  dire  :  .4 


Non  ne  magv>  quisquam  contentai  habere  pidocchios 
Quam  fieri  baro  Francice  ì  *) 

Che  poi  il  Folengo  mirasse  ad  esprimere  un  con- 
cettò serio  di  infliggere  un  marchio  degradante,  infamante 
ai  francesi  non  vi  è  dubbio  alcuno  e  lo  si  riconosce  da 
più  parti  ed  in  più.  luoghi,  come,  a  modo  d'esempio,  nei 
due  primi  versi  dell'ultima  stanza  del  cap.  5^  : 

La  causa  dir  non  voglio^  anzi  m*  incresse 
Che  tutti  ornai  sian  figli  di  putana. 

E  una  tirata  d' orecchio,  per  le  loro  velleità  di  ori- 
gine bastarda  Mancese,  la  dà  anche  ai  Gonzaga,  nel 
cap.  60  St.  XXVin: 

1)  A.  Portigli.  Le  Opere  Macc.  voi.  I  pag.  219. 


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—  xn  — 

Ma  il  mio  Guidone  infonderà  Qmizaga^ 
Per  cui  sol  nacque  la  tebana  maga  *). 

E  il  Giudone,  ouppocfto  stipite  dei  Gonzaga,  sa- 
rebbe il  Guidon  Selvaggio  che  il  Folengo  fa  nascere 
illegittimo   dalla  regina  Costanza  e  da  Amone.  Cap.  8 

st.  Lxxxvm. 

Che  se  da  un  lato  li  fa,  la  più  parte  bastardi,  dal* 
Taltro  tutta  la  baronia  generosa  e  valorosa  la  fa  discen-* 
dere  da  sangue  italiano,  dalle^  antiche  case  di  Roma. 

Nel  Baldo^  mette  in  bocca  al  barone  Leonardo,  Feroe 
di  porta  S.  Giorgio,  che  egli  discenda  dalla  fEuniglia 
Pompeja: 

Cui  Leonardus:  Ego  veruni^  mi  Balde,  fatèbor  ; 
De  Pompejanis  Romae,  sum  genttbus  ortus  *). 

Lo  fa  dire  anche  ad  Orlandino,  allorché  trovasi  alla 
presenza  di  Raineri,  al  cap.  V  st.  LXI  : 

^lo  san  d'itaiian  sangue  nato. 

Dì  tntti  i  baroni  poi,  eccetto  la  casa  fella  di  Ma- 
ganza,  lo  dichiara  nel  cap.  2**  st.  liVlI; 

Se  noi  boghe  di  vino  e  bottagUoni 
Chiamano^  dican  questo  a  quei  di  Pranza. 
Perchè  di  Carlo  e'  dodeci  baroni 
Son,  far  che  la  sth^pe  di  Maganza, 
Scesi  da  Ronia^  da  quei  Scipioni, 
Coìmelliy  Fabiij  e  d'altra  nominanza. 

1)  Nell'Archivio  Gonzaga  vi  sono  parecchi  documenti  in  pergamena, 
contrafatti,  che  dovrebbero  provare  la  discendenza  dei  Gonzaga  da  un  ba* 
stardo  di  Ugo  di  Provenza  re  d' Italia. 

2)  A.  Portioli.  Le  Opere  Ed,  Voi  L  pag.  252. 


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—  XVII   — 

6  nella  stanza  seguente: 

Non  siamo  ispani,  franchi^  ne  aìematmi 
Non  arabeschi^  nby  ma  taltani. 

Che  se  in  queste  dichiarazioni  d' italianità  si  volesse 
vedere  piuttosto  un  concetto  maccheronico,  sebbene  sotto 
aitilo  aspetto,  la  satira  vi  sarebbe  egualmente,  poiché  in 
allora  la  sarebbe  una  millanteria  tutta  francese,  di  volere 
discendere  dai  grandi  casati  romani,  nonostante  la  certa 
proveniensMi  barbarica.  Io  ritengo  però  che  il  concetto  sia 
sèrio,  e  lo  persuade,  fra  alti'o,  la  figura  bella,  eroica  di 
I^onardo,  la  dichiai'azione  collettiva  di  tutti  i  baroni,  e 
quindi  del  fiore  della  nazione  francese,  che  siano  italiani 
di  origine,  per  concludere  poi  con  quei  due  versi. 

Se  noi  boghe  di  vino  e  battaglioni 
Chiamano,  dican  questo  a  quei  di  Pranza. 

Le  alusioni  poi,  le  frasi  di  scherno,  e  persino  le  in- 
tere stanze,  la  II  e  III,  del  cap.  2Ì^,  la  XX  del  cap.  3^, 
non  sono  poche.  Le  parole  e  i  detti  francesi,  dei  quali 
è  infiorato  il  testo  italiano,  sono  tutti  in  senso  di  ironia 
e  di  sprezzo. 

Non  ne  cito  alcun  esempio^  per  non  andare  troppo 
per  le  lunghe,  ma  i  casi  sono  molto  frequenti.  E  in 
questi  il  Folengo  mirava  anche  a  canzonare  quegli  ita- 
liani che,  scimiottando  gli  stranieri,  inti'oducevano,  nei 
loro  discorsi,  come  fioritura  di  lingua,  voci  e  frasi  fran- 
cesi. E  di  cotah,  a  dire  il  vero,  non  ne  mancano  anche 
oggi. 

Del  resto  il  vitupero  dei  francesi  è  la  nota  caratte- 
ristica che  domina  nelF  Orlandino^  in  maniera  che  pare-, 
rebbe  doversi  pensare   averlo  il   Folengo  composto  non 


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—    XVIII    

per  altro  che  per  sfogare  il  suo  malanimo  contro  cotesti 
invasori  tracotanti  dell'  Italia. 

L'episodio  dell'abate  Grrifarosto,  non  è  che  una  gof- 
fagine. 

Egli  che  non  lo  mise  nella  edizione  di  Rimini, 
perchè  forse  non  lo  avea  ancora  composto,  lo  mette  nella 
prima  veneta  del  Garanta,  e  figura  poscia  in  tntte  le 
altre  che  vennero  dopo,  compresa  la  presente,  ma  vi 
figura  male. 

Non  è  necessario  al  racconto,  né  in  nessuna  ma- 
niera ad  esso  legato,  o  dipendente.  E  un  vero  fiiori  d'o- 
pera, e  nel  medesimo  tempo  una  stonatura. 

Il  Folengo  non  aveva  nessuna  ragione  di  introdurlo, 
e  lo  introdusse  seguendo  l' impulso  del  suo  genio  mac- 
cheronico, e  maccheronico  è  infatti  lo  strano  episodio. 

Il  Folengo  stesso  ne  aveva  indovinata  la  sconve- 
nienza, le  interpretazioni  e  i  commenti  che  se  ne  sareb- 
bero fatti,  volendosi  vedere  in  esso  non  altro  che  una 
satira  contro  qualche  prelato,  e  con  ciò  aveva  anche 
capito  che,  sebbene  ricoverato  in  caso  Orsini,  all'ombra 
della  grande  Orsa,  dice  lui,  le  molestie  personali  non 
gli  sarebbero  mancate,  percui  detta  quella  Apologia,  che 
si  vede  per  la  prima  volta  sulla  edizione  sabbiana,  e  che 
io  riproduco  piti  avanti. 

Senza  dell'  episodio,  l'apologia  era  inutile,  ma  Y  una 
ha  generata  Taltra,  la  quale  d'altronde,  a  quanto  pare,  fu 
anche  creduta  poco  sincera. 

Come  appendice  dell'episodio  figura  la  diatriba  teo- 
logico-giundica  tra  il  Vescovo  e  Raineri. 

Allorché  Raineri  pronunciò  la  sentenza  contro  il 
corpulento  abate,  trovavasi  presente  un  vescovo,  il  quale 
sentendo  Raineri,  un  laico,  pronunciare  sentenza  in  ma- 
teria canonica,  esce  in  una  violente  invettiva  contro  il 
barone,  il  quale  deve  giustificarsi  con  una  professione  di 


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—  XIX   

fede  che  puzza  di  luteranesimo,  la  quale  fa  scappare,  per 
rabbia  e  furore,  il  vescovo. 

Ma  le  teorie  espresse  da  Raineri,  hanno  un  legame, 
con  quanto  dice  il  Folengo  in  altri  luoghi  del  poema,  e 
specialmente  che,  mette  in  bocca  a  Berta.  Gap.  6,  St.  XL, 
XLVI  e  questo  merita  un  esame  particolare  perchè  costi- 
tuisce un  punto  dei  più  importanti  del  poema,  come  quello 
che  riguarda  le  condizioni  morali,  e  di  credenza,  in  cui 
si  trovava  il  Folengo,  durante  il  periodo  di  dimora  in 
casa  Orsini. 

Nella  preghiera  di  Berta  trovansi  un'  invettiva  contro 
il  mercimonio  che  i  frati  facevano  delle  cose  sacre  e 
l'abuso  della  pietà  dei  fedeli.  Fin  qui  nulla  di  strano  e 
di  nuovo.  Le  medesime  invettive  si  leggono  nella  Mac- 
cheronica VII  a  pag.  191  e  seg.  le  quali  costituiscono 
una  delle  pii\  belle  e  splendide  e  caratteristiche  disgres- 
sioni.  Di  nuovo  vi  è  la  tirata  contro  la  corruzione,  al 
suo  dire,  della  teologia,  la  quale  dice  che  —  era  fatta 
romana  e  fìandresca  —  alludendo  evidentemente  a  papa 
Adriano  VI;  contro  il  mercimonio  delle  indulgenze,  la 
grande  accusa  di  Lutero  contro  Leone  X,  in  quei  due 
versi  : 

Vi  faccio  noto  non  prestar  mai  fede 

A  chi  indulgenze  per  danar  concede. 

Cajx  0.  St.  XLV. 

e   contro  la  intercessione  dei  santi,  in  quegli  altri  versi  : 

Da  te  ricorro^  non  a  Pietro,  o  Andrea, 
Che  altrui  inez20  non  mi  fa  mistero  ; 
Ben  tengo  a  mente  che  la  Cananea 
Non  supplicò  né  a  Giacomo,  ne  a  Piero,  ecc. 

Cap.  6.  St.  XLI. 

esprimendo  così  una  teoria  prettamente  luterana. 


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XX 


Non  ha  nessun  valore,  e  non  costituisce  alcuna  scusa, 
r  avere  messo  tali  asserzioni  in  bocca  a  Berta,  ed  il  ri- 
conoscere che  erano  cariche  (Teresie^  e  che  essa  le  diceva 
mercè  che  era  tedesca.  È  il  caso  di  Bertoldo  ohe  scher- 
zando si  confessava. 

I  contemporanei  del  Folengo,  che  lessero  nella  prima 
edizione  dell'  Orlandino  le  proposizioni  luterane,  non  ne 
portarono  un  giudizio  diverso  del  mio,  contro  il  quale 
egli  si  difese  nelF  Apologia  con  sdegnose  parole,  facendo 
un'  ampia  professione  di  fede  cattolica,  dichiarando  che 
non  erano  che  uno  scherzo,  e  che  perciò  le  aveva  messe 
in  bocca  a  gente  oltramontana,  dalla  quale  erano  ve- 
nute, mentre  conferma  la  serietà-  delle  invettive  contro  i 
vizii  dei  prelati  maggiori. 

La  difesa  ha  tutta  l'apparenza  di  non  essere  sincera, 
perchè  le  invettive  e  le  proposizioni  non  appartengono  a 
due  situazioni  diverse,  e  non  provengono  da  circostanze 
differenti,  ma  trovandosi  espresse  nella  orazione  di  Berta, 
spettano  ad  un  momento  solo,  e  sono  dipendenti  da 
unica  circostanza.  Esse  sono  parti  eguali  ed  integranti 
di  un  tutto.  Se  la  fosse  come  vuole  il  Folengo  come 
si  farebbe  allora  a  distinguere  il  serio  dal  comico?  In 
questo  caso,  o  è  tutto  serio,  o  è  tutto  comico,  ma  dal 
momento  che  non  è  tutto  comico,  e  lo  dice  lui  stesso, 
noi  abbiamo  il  diritto  di  ritenere  che  tutto  sia  serio, 

Dall'  altra  parte,  tre  sono  i  punti:  V  invettive  contro 
i  prelati  e  queste  le  mantiene  ;  il  mercimonio  delle  in- 
dulgenze, che  gli  ripugnava  di  sicuro,  egli  che  non  solo 
neir  Orlandino^  ma  anche  nel  Baldo^  combatte  così  fie- 
ramente il  mercimonio  del  culto  ;  e  la  intercessione  dei 
santi.  Contro  di  essa  vi  era  già  una  opinione  molto  dif- 
fusa in  Italia,  che  meraviglia  adunque  se  il  Folengo  la 
condivideva,  egli  cotanto  infatuato  a  combattere  ciò  che 
chiama  la  superstizia  ? 


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—     XXI   

Io  credo  che  il  Folengo  abbia  scritta  l'Apologia,  non 
per  difendersi  da  accuse  false,  ma  piuttosto  perchè  spa- 
ventato dal  fracasso  che  aveva  suscitato,  il  quale  proba- 
bilmente doveva  avere  un  eco  anche  in  casa  Orsini. 

La  parlata  di  Raineri  al  vescovo  riguarda  il  tema 
prediletto  del  Folengo,  la  superbia  e  la  scostumatezza 
dei  chierici.  Anche  se  la  professione  di  fede  fosse  orto- 
dossa, gli  era  vietato  stigmatizzare  i  vizii  e  la  corruttela 
dei  frati  e  dei  prelati. 

Ciò  che  vi  ha  di  grave  in  tale  incidente  non  sta 
nelle  cose  dette,  ma  nell'averle  messe  in  bocca  ad  un  laico, 
e  prima  ancora,  averlo  fatto  parlare  di  diritto  canonico, 
e  di  cose  attinenti  la  disciplina  ecclesiastica,  nelFavergli 
fatto  pronunciare  sentenza  per  la  quale  il  cuoco  del  con- 
vento doveva  prenderq  il  posto  dell'  abate,  e  questi  del 
cuoco.  Questo  intervento  dei  laici  in  faccende  ecclesiastiche 
era  severamente  vietato  dal  diritto  canonico,  e  noi  cono- 
sciamo già  le  grandi  contese  che  ci  sono  sempre  state  fra 
la  potestà  laica  e  l'ecclesiastica,  E  il  Folengo  stesso,  dotto 
e  scaltro,  come  era,  ne  espone  la  dotti-ina  nelle  stanze 
XXXTTT  e  XXXIV.  Ma  ciò  nonostante  fa  -  agire  e  par- 
lare Raineri,  come  abbiamo  veduto,  ed  il  vescovo  pre- 
sente, scandalizzato  dalla  temerità  del  laico,  se  ne  scappa, 
fortemente  sdegnato. 

Con  ciò  il  Folengo  fa  intendere  che  egli  propendeva 
per  la  teoria  anticanonica  dell'  intervento .  dell'  autorità 
laica  nelle  cose  ecclesiastiche,  il  che  era  peggio  che 
un'eresia. 

Nel  Baldo  non  vi  è  nulla  di  simile. 

Il  Folengo  poi  eccede  anche  in  altra  parte,  scjbbene 
per  due  volte  soltanto.  Sia  che  fosse  invidioso  degli  al- 
lori dall'Ariosto,  sia  che  si  lasciasse  vincere  dall'  ardente 
suo  carattere,  non  più  frenato  da  alcuna  legge,  di  certo 
assecondando  le  tendenze  licenziose  de'  tempi  suoi,  nelle 


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XXII    

stanze  XXXIX,  XL  del  cap.  2^  e  nella  XXXIX  del 
cap.  6*^,  con  due  descrizioni  scurili  esce  da  quel  confine 
di  licenziosità  che  nel  Baldo  non  aveva  mai  varcato.  E 
forse  sono  stati  questi  due  casi  che  hanno  fatta  sorgere 
l'opinione  erronea  che  le  sue  opere  siano  immorali. 

4.  Questo  argomento  non  lo  si  può  trattare,  riguardo 
all'Orlandino,  che  con  un  metodo  affatto  speciale,  che  non 
occorre  in  alcun'altro  lavoro,  sia  in  prosa,  che  in  poesia. 

Esso  ha  un  carattere  e  forme,  dirò  così,  proprie, 
e  quindi  per  giudicarlo  convenientemente  è  necessario 
tenere  conto  del  suo  carattere  e  considerarlo  dal  punto  di 
vista  di  ciascuna  forma. 

Il  concetto  e  le  forme  si  connettano  perfettamente, 
e  queste  ci  rappresentano  quello  con  tutta  fedeltà.  E  sic- 
come il  concetto  è  triplo  così  tripla  è  la  forma. 

Si  ha  il  concetto  serio,  il  satirico,  ed  il  macche- 
ronico. 

Questo  dipende  dal  genio  del  Folengo,  gli  altri  due 
dalle  circostanze  speciali  in  cui  sì  trovava  allorché  lo 
scrisse. 

Una  tale  divisione  toglie  al  poema  la  unità  lette- 
raiia,  lo  priva  di  conseguenza  di  quella  dote  che  ogni 
lavoro  deir  ingegno  umano  deve  avere,  Y  unità  del  con- 
cetto e  quella  della  forma,  ma  nel  medesimo  tempo 
gliene  dà  un'altra  tutta  sua  e  caratteristica,  che  scatu- 
risce da  una  tale  varietà,  che  essa  solo  possiede  fra  tanti 
lavori  letterarii  in  prosa  ed  in  verso,  che  per  ciò  resta 
unico  nel  suo  genere,  un  tipo,  non  immitabile  di  certo, 
ma  un  tipo. 

E  queste  diverse  forme  legate  e  strette  dallo  svol- 
gimento del  fatto  principale,  non  rendono  difficile  la  let- 
tm-a  del  poema,  che  anzi  la  fanno  piii  facile,  e  diver- 
tente, appai'endo  tanti  episodii  ameni  della  leggenda, 
amena    pur  essa. 


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XXIII    — 

Di  ciò  il  Folengo  stesso  ne  dk  avviso  al  lettore 
nella  stanza  XVI  del  cap.  1, 

Sol  cTOrlandin  io  canto ^  e  non  di  meno 
Quando  Turpino  divertisce  altrove^ 
De  V  ordinario  suo  non  in^  alieno. 

Nel  Gao8  si  riscontra  la  stessa  tripartizione  di  stile, 
con  questa  differenza  che  la  parte  maccheronica  è  tal- 
volta vestita  della  splendida  veste  del  Baldo. 

Nel  numero  precedente  ho  accennato  sommariamente 
a  coieste  tre  parti  nei  riguardi  del  concetto,  e  ne  esa- 
minai anche  i  brani  principali,  e  l'esame  non  fu  dif- 
ficile. 

Ma  ancora  pi  fi  facile  si  è  quello  dello  stile  e  della 
lingua.  11  Folengo  sa  dare  a  ciascuna  parte  una  im- 
pronta cosi  spiccata,  per  la  quale  non  si  può  esitar  nel 
giudizio. 

Come  ho  accennato,  principia  il  poema  con  una  in- 
vocazione, schiettamente  maccheronica  in  tutto  degna  del 
trippifero  poeta,  non  alla  musa,  ma  al  signore  di  Man- 
tova. Federico  II  Gonzaga,  la  quale  fa  suppon-e,  che  tale 
debba  essere  anche  tutto  il  poema,  il  che  non  è,  e  che 
conclude  dicendo  al  principe  : 

Dà  fiato  alla  piva^  o  poco^  o  assai^ . 
Fiato  di  ciance  nò: /ma  intendi  bene^ 
Mangion  e  bevon  anco  la  Camene, 
Cap.  1  st.  HI. 

In  due  versi  della  stessa  stanza  vi  è  uno  scherzo 
poco  felice  sul  nome  di  Boezio,  e  Tho  di  già  rilevato 
nella  nota  2  dell'Orlandino. 


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XXIV   — 

;  Boezio  da  trentanni  sul  tagliet^e 

Mi  dà  sempre  instor  ....*) 

ì^  Questa  invocazione  è  la  pai-te  più  maccheronica  di 

:  tutte  le  altre  che  sono  nel  poemetto,  ma  anche  la  meno 

bella,  la  meno  opportuna,  sia  per  il  personaggio  al  quale 

è    diretta,    sia   perchè   disforme    dal   tenore    del    poema 

stesso. 
?'  Di  questa  dissonanza  di  stile  il  Folengo  ne  fece  di 

altre,  come,   in   molti   luoghi    dei  rifacimenti   del  Baldo, 
\::  che  ci    danno  V  edizione    Cipadense   del    1530,  la  Vari- 

sco  1561,  l'anonima  del  1552,  nei  quali  indamo  si  cerca 

la  freschezza,  la  leggerezza,  e  l'armonia  dell'assieme  che 

si  hanno  nella  toscolana  del  1521. 

L' episodio   di  Grifarosto   così  pieno    di  lardo  e    di 

grassume  e  di  vino,  tanto  da   fare  apparire    il   protago- 
•  nista,  da  una  parte  un  Sileno,  dall'altra  un  Bacco,  entra 

pur  esso  nel  novero. 

La  giostra  burlesca,  perfetta    in  tutte  le   sue    parti, 

non  patisce  che  l'eccezione  che  ho  di  già  rilevata. 

Perfettamente  aimQnica,  e  bella  anche,  è  Torigine  del 

nome  Orlando. 

Neir  istante  della   sua  nascita,  una  mandi-a   di   lupi 

esce  dalle  selve  vicine  a  Sutri,  i  quali  : 

andavano  dintorno  forte  urlando^ 

Onde  per  nome  poi  fu  detto  Orlando 

(Cad.  7.   Voi.  X 


1)  In  questo  scherzo  sul  nome  di  Boezio  vi  è  for^e  una  allusione 

t  alla  azione  che  Dante  nel   cap.  XVI  del  Corvitto,  attribuisce    a   Boezio 

(^  nella  sua  educazione  letteraria,  volendo  dire  il  Folengo,  nel  suo  concetto 

maccheronico,  a  Dante  sta  bene  il  Boezio  filosofo,  a  me  quel  Boezio,  che 

viene  da  bue,  il  quale  lautamente  mi  pasce  da  trent*anni 


Mi.- 


I 


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Go  jgle 


—  XXV  

Un  grazioso  idillio  maccheronico  è  nella  stanza  se- 
guente, nella  quale  è  descritta  la  commozione  di  tutta 
la  natura,  alla  nascita  di  Orlando. 

Non  dissimile  è  l'orìgine  di  Milano,  della  quale  dissi 
più  su,  che  principia  con  quel  verso,  piena  di  tanta 
ironia: 

E  come  qui  Milone  capitando^ 

Lascio,  per  amore  di  brevità,  tanti  altri  esempii  non 
meno  belli  di  questi  che  ho  citati. 

Le  altre  due  parti  invece,  la  satirica  e  la  seria, 
corrono  piane  ed  armoniche,  prive  quindi  della  disso- 
nanza^ che  si  verifica  nella  maccheronica. 

Neir  una  la  nota  del  sarcasmo,  nell'altra  quella  dello 
sdegno  si  fanno  sentire  alte,  sonore,  sempre  in  un  tono 
conveniente  e  giusto.  Egli  sa  mantenervi  un'  equilibrio 
inalterato,  del  quale  non  lo  si  crederebbe  capace,  giudi- 
candolo soltanto  dalla  prima,  p^rte. 

Uno  dei  più  acri  sarcasmi,  forse  il  più  acre  di  tutti, 
e  sempre  contro  i  francesi,  è  contenuto  nella  III  stanza 
del  2**  cap,  e  cito  questo  solo  esempio,  dove  è  detto 
della  battaglia  di  Pavia  e  della  prigionia  del  re  Francese. 
Il  Folengo  mescolando  l'italiano  al  francese  ed  allo  spa- 
gnolo ne  compone  una  satira  originale,  ma  straziante  per 
l'amor  proprio  francese,  colpito  di  tanta  sventura. 

Collo  stesso  intendimento  scrisse  la  giostra  burlesca 
la  quale  perfetta  in  se  non  ha  che  la  menda  che  ho  di 
già  avvertito. 

Nella  parte  seria  e  specialmente  nell'invettive,  dove 
lo  sdegno  lo  spinge,  l' ira  lo  commove,  il  verso  viene 
armonioso,  scon^evole,  spontaneo,  cosicché  è  proprio  il 
caso  di  ripetere  il  detto  di  Giovenale:  facit  indignatio 
versus. 


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XXVI 


e 


■i" 


In   prova  di  ciò  che  asserisco  cito  soUaato   quattro 
versi  della  preghiera  di  Berta. 


\{,  Per  ciò  che  di  pietà  sotto  la  scorza 

Fassi  grande  vendemmia  di  danari^ 
E  coWaltare  di  Maria  si  ammorza 
L'empia  ingordigia  \ie'  pisciati  avari.... 
Cap.  6  st.  XLIIL 

Se,  come  dissi,  la  invocazione  maccheronica  a  Fe- 
derico Gonzaga  è  un  preludio  fallace,  lo  è  del  pari  lo 
sdegno  che  addimostra  nella  stanza  VI,  VII,  VTII,  IX, 
per  le  censure  che  gli  ftu'ono  fatte  di  non  saper  scrivere 
in  pretto  italiano. 

Parerebbe  che  coli'  Orlandino  volesse  smentirle  e 
provare  il  contrario,  mentre  il  poemetto,  invece,  è  infar- 
cito di  parole,  frasi,  detti  schiettamente  lombardi  e  mes- 
sivi a  bella  posta,  tanto  da  costituirne  una  caratterisca, 
e  Tho  avvertito,  con  una  nota,  nel  Sonetto  di  prefazione 
air  Orlandino. 

Qualche   volta  satirizza  anche   il   toscano,  come  nel 

^ verso  della  stanza  Vili  cap.  1. 

» 

Non  odi  se  non  buio,  arreca  e  caccio 

adoperando  queste  ed  altre  parole  toscane  in  maniera 
che  si  intenda  che  lo  fa  per  cellia,  sebbene,  in  questa 
stessa  stanza,  ed  altri  luoghi  dell'  Orlandino^  e  nel  Caos 
riconosca  la  eccellenza  della  lingua  di  Dante,  Boccaccio 
e  Petrarca. 

Ai  toscanismi  ed  ai  lombardismi,  sparsi  questi  ultimi 
a  larga  mano,  quasi  che  non  bastassero  da  soli  a  com- 
porre un  ghiotto  pasticcio  si  aggiugne,  un  altro  peg- 
giore ingradiente,  quello  dei  francesismi^  comer:  lingìiaccio 
ciambra^  messi  specialmente  a  fare  rima. 


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—     XXVII   

E  di  rime  non  ve  ne  sono  solamente  di  questa  spe- 
cie. Spesso  egli  adopera  lo  sdrucciolo,  tanto  che  appare 
avere  egli  voluto  dare  prova  della  sua  valentia  in  simile 
torneo. 

Ma  egli  è  invece  cascato  in  una  vera  affettazione,  e 
più  spesso  non  ha  fatto  che  stramberie,  collo  storpiare 
il  verso,  alterare  la  parola. 

Non  si  può  negare  che  qualche  volta  gli  escono  na- 
turali, spontanee,  ma  questo  pregio  non  scema,  né  scusa, 
per  nulla  il  vizio  e  il  diffetto. 

Per  la  stessa  ragione  della  rima  ha  alterata  la  pa- 
rola anche  quando  non  andava  sdrucciola  ;  ha  usati  lati- 
nismi impossibili,  e  talvolta  anche  ha  raddoppiate  le  con- 
sonanti  dove  veramente  non  andavano. 

Più  tanti  che  nel  Baldo  poi  sono  i  motti  e  le  pa- 
role scurili,  percui  colla  aggiunta  della  st.  XI,  cap,  2 
r  Orlandino  riesce  peggiore  di  molto  dal  grande  poema 
maccheronico.  E  credo  che  l'opinione  ora  invalsa  che  il 
Folengo  sia  immorale  nei  suoi  scritti  provenga  non  dalle 
opere  maccheroniche,  propriamente  dette,  bensì  dall'  Or- 
landino. 

E  questo  strano  miscuglio  di  parole  di  lingua  stra- 
niera, latina,  perchè  vi  è  anche  il  latino,  di  dialetto 
nostro,  di  licenze  ultra  poetiche,  di  alterazioni  di  p£|.role  e 
di  regole  ortografiche,  si  devono  ritenere  imposte  ^1  Fo- 
lengo da  insufficenti  cognizioni  di  lingua  e  da  insuffi- 
cente  capacità  di  fare  versi  corretti,  da  mancanza  di  gu- 
sto, crederlo  un  prodotto  del  bizzaro  suo  ingegno? 

Io  propendo  per  quest'ultima  opinione.  Per  dare  un 
giudizio  esatto  dell'  Orlandino  conviene  considerarlo  non 
nelle  singole  sue  parti,  non  dai  singoli  suoi  difetti  lette- 
rarii  che  sono  gi-avissimi,  non  dai  suoi  eccessi  di  forma, 
bensì  dal  tutto  suo  assieme,  in  rapporto  ai  tempi,  ài  ge- 
nio, e  alle  circostanze  speciali  e   personali  del   Folengo. 


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—  xxvm  — 

Queste  circostanze  sono  rappresentate  nel  poemetto, 
il  quale  se  nel  suo  assieme  appare,  e  lo  è,  una  bizzarra 
composizione,  è  necessario  riconoscere  che  bizzarro  fu  il 
genio  dell'autore,  bizzarre  le  sue  vicende,  bizzarrì,  od  al- 
meno assai  diversi  dai  nostri,  furono  i  tempi  nei  qusdi 
condusse  la  sua  vita  avventurosa. 

Quei  tempi  ci  diedero  lavori  letterarii  più  strani^ 
pia  bizzan-i,  ed  anche  più  immorali  dell'  Orlandino^  che 
se  noi  dovessimo  giudicarli  all'  infuori  dell'  ambiente  nel 
quale  si  produssero,  non  vi  si  troverebbe  che  molto,  o 
tutto  da  biasimare,  e  ben  poco,  o  nulla  di  lodare. 

Nessuno  dei  nostri  poeti,  ora,  si  azzarderebbe  di  ve- 
nire fuori  con  un  Orlandino,  ma  nessuno  deve  giudicare 
il  lavoro  del  Folengo  coi  criterii  nostri,  e  alla  stregua 
dei  nostri  costumi  ^). 

III. 

L'  ORLANDINO. 

1.  Della  presente  edizione.  —  2,  L'Apologia  deirOrlandino  —  3.  Nota 

bibliografica. 

2.  Due  sono  le  edizioni  capo  dell'  Orlandino^  la  ri- 
minense  1527  del  Soncini,  e  la  veneziana  1526  dei  fra- 
telli Sabbio  per  conto  del  libraio  Nicolò  Garanta^  il  pri- 


1)  Nel  Oap.  1  st.  XX  si  leggono  questi  quattro  versi 

Poliziano  fu  quello  che  altamente 
Cantò  del  gran  gigante  del  battajo 
Ed  a  Luigi  Pulci  suo  cliente 
Uonor  die,  senza  sa^itto  di  notaio. 

Di  questa  assei^zione  del  Folengo  ho  richiesto  il-  parere  del  cb. 
prof.  A.  d*Aneona,  il  quale,  colla  competenza  tutta  sua,  mi  rispose,  che 
essa  era  di  già  conosciuta,  ma  che  non  aveva  alcun  fondamento,  anche 
a  parere  del  Carducci. 


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XXIX    

vilegio  del  quale  stampai  a  pag.   XLEE  della   Prefazione 
al  voi.  1"*  delle  Opere  Maccheroniche. 

La  riminense,  come  quella  che  contiene  il  poema 
incompleto  non  ebbe  alcuna  riproduzione,  scdtanto  il  Mo^ 
lini  nella  sua  edizione  —  Londra  1775  —  nell'atto  che 
stampa  il  poema  completo,  quale  celo  dk  lo  Sabbio,  ri- 
porta non  poche  lezioni  delle  riminense,  ed  in  ciò  è  se- 
guito, con  qualche  rara  eccezione,  dall'  Antonelli  nella 
edizione  del  1845. 

La  Sabbio,  al  contrario,  fu  più  volte  ristampata,  e 
si  può  dire,  sino  ai  giorni  nostri,  poiché  la  Molini  e 
l'Antonelli,  nonostante  la  suespressa  eccezione,  si  devono 
mettere  nel  novero  di  queste  riproduzioni. 

In  questo  fatto,  io  aveva  indicato  quale  dei  due 
modelli  doveva  prendere  nel  fare  la  ristampa  del  poe- 
metto folenghiano,  quello  cioè  che  mi  era  offerto  dalla 
prima  edizione  dei  fratelli  Sabbio  1526. 

Riprodussi  quindi  fedelmente  questa  edizione  mo- 
dello, gixardandomi  bene  dal  commettere  le  arbitrarie 
alterazioni  del  Molini,  le  quali  sono  condannabili,  seb- 
bene non  abbiano  la  gravità  dì  quelle  commesse  dal  Ter- 
ranza  nella  sua  edizione  del  Baldo  —  Amsterdam  1768-71, 
giovandomi  dell'esemplare  posseduto  dalla  Biblioteca  na- 
zionale di  Torino  ^)  L'unica  alterazione  che  vi  ho  fatta 
sta  nel  riportare  l'apologia  infine  di  cotesto  studio,  an- 
zicchè  in  fine  del  poema,  dove  l'hanno  la  Sabbio,  e  le 
edizioni  posteriori  fatte  su  essa.  Nella  ristampa  però 
delle  edizioni  antiche,  dalla  prima  metà  del  secolo  XVI 


1)  Ringrazio  il  prof.  R,  Putelli  bibliotecario  della  nostra  comunale 
ed  il  comu.  1.  Ghiron  prefetto  della  Braidense,  che  mi  ottennero  dalla 
biblioteca  nazionale  di  Torino,  a  prestito,  1*  esemplare  da  essa  posseduto 
dell*  Orlandino  1527  del  Sabbio,  di  cbe  ringrazio  anche  il  eh,  prefetto  di 
cotesta  insigne  biblioteca. 


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--   XXX    — 


in  dietro,  si  incontrano  due  non  lievi  difficoltà  da  supe- 
rare, nellortografia,  e  nella  trascrizione  di  alcune  parole. 

Per  Fortografia  io  non  so  bene  se  quei  nostri  mag- 
(  giori,  la  conoscessero  bene,  certo  è  che   l'usavano   male, 

^  così  non  poche    parole  le    scrivevano   alla  latina  coli'  A, 

allorché  la  parola  latina  esige  cotesta  lettera,  e  il  ^  in- 
vece della  z. 

Per  r  ortografia  ho  addottato  addirittura  le  regole 
nostre.  Più  cauto  sono  stato  nella  trascrizione,  per  la 
quale  se  ho  soppressa  Vh  e  messa  la  z  invece  del  f,  se- 
condo Fuso  nostro,  ho  rispettato,  di  molte  parole,  la  di- 
zione propria  dei  tempi  del  Folengo,  parendomi  cosi  di 
lasciare  il  carattere  speciale  della  lingua  nostra  in  quei 
tempi. 

Sono  stato  parco  nelle  note,  perchè  ho  supposto  che 
chi  vorrà  leggere  il  poemetto  abbia  una  coltura  più  che 
mediocre,  e  quindi  ho  intralasciata  quelle  che  me  lo 
consigliava  questa  supposizione. 

2.  Il  Folengo,  prevedendo  che  il  suo  episodio  dell'a- 
bate GrifFarosto,  avrebbe  dato  luogo  a  molti  commenti,  e 
supposizioni  poco  benevoli,  come  di  poco  benevoli  se  ne 
erano  fatti  sul  primo  Orlandino^  forse  quello  del  Soncini, 
apparso  al  pubblico  avanti  l'edizione  Sabbio,  volle  scri- 
verne una  Apologia  e  che  per  la  prima  volta  apparisce 
'  nella  edizione  veneziana  suddetta. 

Questa  apologia  non  persuase  i  malevoli  giudici  del 
poemetto,  e  credo  anche  gli  altri  che  non  gli  erano 
ostili,  ma  che  disapro vavano  o  la  forma,  o  la  sostanza 
del  poema. 

Pertanto  essendo  essa,  od  almeno  dovendosi  consi- 
derarla parte  integrale  àeW  Orlandino^  la  riproduco  qui, 
stimando  che  vi  trovi  posto  migliore  anzicchè  alla  fine 
del  poema. 


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—    XXXI   


Apologia  dell' Autoeb* 


Leggesi,  candidissimi  Lettori  miei,  fra  gli  altri  faceti  gesti  del  le- 
pidissimo Gonella  che,  volendo  egli  T  opinione  sua  sostentare  ai  Signor 
Illastrissimo  Duca  di  Ferrara,  eh'  assai  maggiore  ilisae  de'  Medici  lo 
numero  che  d' altri  professori  di  qualunque  arte  si  sia,  legatosi  un 
giorno  il  braccio  destro  in  guisa  di  stropiato  al  collo,  andava  quinci  e 
quindi  girando  per  le  piazze  come  se  per  doglia  di  spasmo  non  ritrovasse 
loco  dove  fermarsi  potesse.  Or  avenne  che  quanti  mai  così  angosciosa- 
mente quello  penare  vedeano  con  molta  lui  compassione  addimandava- 
nogli  qual  fhsse  del  suo  male  la  cagione:  e  egli  tutta  via  dissimulandosi 
addolorato  ritrovava  qual'  or  questa  qual'  or  queir  altra  inflrmitade,  tal 
che  da  tutti  loro  qualche  rimedio  ripportava,  la  onde  lo  proverbio  da  lui 
stesso  pensato  finalmente  con  gli  altri  meritò  d'essere  per  esperienzia  col- 
locato. Ma  veramente  poscia  che  questa  favoletta  mia  del  Orlandino,  since- 
rissimamente da  me  come  composta,  uscita  mi  è  da  le  mani  per  complacenzia 
di  chi  solo  commandar  mi  puote,  dirò  con  baldanza  non  manco  essere  io 
numero  de  commentatori  e  interprete,  che  di  medici  temerari,  delli  quali 
se  rarissimi  sono,  (risguardato  il  numero  loro  copiosissimo),  li  periti  cono- 
nitori  delli  occurrenti  morbi,  niuno  al  tutto  commentatore  dell'Orlandino 
mio  essere  verace  sin  qua  ho  isperimentato.  Ma  Dio  volesse  ahneno,  che 
lór'  interpretazioni  così  come  resultano  in  mio  danno,  e  vergogna,  mi  dis- 
sono per  contrario  ad  utilitade  insieme  con  qualche  onore,  come  sopra 
la  bella  canzone  del  Benevienni  lo  proAmdissimo  ingegno  di  Gian? 
aver  fatto  vedemo.  Certamente  ne  voglio,  ne  per  ninna  guisa  p  >, 

delli  evidenti  errori  alle  dotte  persone  iscusare,  dico  quanto  a  l'elegaazia 
toscana,  totalmente  di  Lombardia,  non  mediantevi  lo  studio  di  essa,  da 
natura  rimossa;  ma  del  soggetto  e  materia  di  essa  operetta:  immerita- 
mente  per  colpa  d'alcuni  sospettosi  ipocriti  son'  io  d' infamia  non  poca 
svei^gnato:  perchè  quantunque  alcune  cose  vi  siano  poste,  le  quali  in 
gravezza  della  fede  nostra,  o  sia  della  sacra  scrittura,  o  delli  religiosi 
appaiono  essere:  nulla  dimanco  la  mera  intenzione  dell' auttore  non  vien 
in  alquanti  accomodatamente  intesa,  la  qual  è  via  piìi  presto  inclinata  in 
biasmar  li  mordaci  di  essa  che  morder  universalmente  la  candidissima 
fede  nostra;  e  in  segno  manifesto  di  mia  sinciritade  quelle  pochette  be- 
stieme  pongo  sempre  in  bocca  d'alcuno  tramontano,  donde  li  errori  il  più 
delle  volte  sogliono  repullulare.  Vero  è  che  da  me  stesso  confermo  poi  li 


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—   XXXII   — 

religioni  Mi'oggi,  non  dico  tutti,  esserne  potentissima  cagione,  la  qaale 
non  mi  curo  testé  quivi  di  scrivere,  ove  solamente  alla  escusasione  e  dif- 
fensione  mia  io  sono  intenta  SMo  pongo  la  istoria  di  Monsignore  Grif* 
farosto,  la  intenzione  mia  non  fu  però  d'alcuna  particolaritade  conceputa, 
anzi  voglio,  che  sotto  Tombra  di  esso,  eccetuata  la  reverentia  sempre  de 
r  integerrimi  prelati,  stiano  tutti  quanti  li  simili  sol,  non  ha  vendevi  un 
minimo  riguardo  alle  minacele  d*alcuni  :  li  quali  per  sua  verso  me  coatra 
ragione  malevolenzia,  di  mie  calumnie  sono  seminatori.  Ma  di  molto  più 
momento  pot^iami  parere  la  sciocca  saviezza  d'alcuni  altri,  li  quali  di 
continuo  perfumandosi  di  muschio  e  ambracane,  così  a  noia  e  schifo  pi- 
gliano quella  piacevole  e  riseria  giostra  mia,  ne  la  quale,  si  come  anchora 
in  altri  passi  di  essa  operetta,  Tassi  menzione  di  sterco  e  puzzo,  non  at- 
tendendo loro  la  persona  lorda  e  vieta  e  stomacosa  d*un  furfante,  la  quale 
non  mi  sdegno  rappresentarvi,  accioche  per  mezzo  di  poter  dire  baldan- 
zosamente ogni  cosa,  porvegnasi  tinalmente  alla  veritade,  che  quando 
d*altra  materia  non  così  vile  io  parlassi,  lo  nome  mio  appropriato,  anzi 
ninno,  vi  antiponerei.  Pur  questa  lor  alterigia  di  mente  poco  mi  offende 
che  tal  opera  non  composi  a  simili  Sputasenni,  ma  veda  chiunque  di  loro 
quello,  che  sanno  in  mio  scorno  e  infiBimia  scrivere,  che  forse  udiranno  le 
colonne  profetizare  insieme  con  li  pareti  di  lor  vita,  che  dove  sentesi  la 
doglia,  ivi  corre  la  lingua.  Questo  simile  dico  de  le  parole  uscite  tal  ora 
de  la  penna  men  che  onestamente  publicate,  perchè  non  molto  discon- 
venevole mi  parve  in  simile  soggetto  tingermi  pitocco,  ne  la  qual  persona 
dovendosi  recitar  una  comedia,  ragionamenti  soluti  e  strabocchevoli  ac- 
cascharebbono.  Ben  verrovvi,  singularissimi  amici  miei,  esservi  alora 
odioso  e  reprobo,  quando  in  vita  e  costumi  alle  predette  immondide  cor- 
risponderanno. Ma  s'io  vi  paro  singularmente  tassar  alcuna  persona, 
non  è  però  eh*  uomo,  qualche  si  sia,  poscia  quella  imaginare  e  non  che 
sapere,  perchè  non  mi  reputo  lealmente  aver  nemico  al  mundo  tanto  da 
me  odiato,  quanto  Tanlma  mia  da  me  risguardata:  bastami  solamente  che 
ambi  noi  sapiamo  di  cui  si  parla.  Or  dunque  la  mera  veritade  via  più 
satisfacevole  vi  sia,  che  la  presente  apologia,  candidissimi  lettori  mei,  la 
quale  dal  seggio  suo  cqnstantissimo  giamai  non  si  parte.  Molto  ancora 
vi  si  potrebbe  dire  ma  lo  già  detto  a  gli  animi  generosi  e  leali  so  bene 
che  troppo  lungo  e  fastidioso  appare,  però  la  nobiltade  d'ogni  altro  spi- 
rito non  si  dignarà,  spero,  leggere  cotal  mia  satist'azione  in  una  nott^ 
impetuosamente  composta,  essendomi  da  non  son  cui  potente  tiranno  mi- 
nacciato, e  io  con  ogni  veritade,  la  quale  parturisce  odio,  mi  son  posto 
a  tentar  di  sodisfar  a  lui  con  gli  altri  di  simile  sentenzia. 


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ZXXIII   

3.  H  Caos,  con  sole  due  edizioni  veneziane,  è  raro. 
Poche  sono  le  biblioteche,  si  pubbliche  che  private,  che 
lo  poss^gano. 

L'Orlandino,  invece,  ha  edizioni  rare  ed  edizioni 
abbastanza  comuni  Sono  comuni  la  Bindoni  1550,  la 
Molini  1773,  la  Le  Monier  1841-42,  la  Antonelli  1842. 

Rara  è  la  prima  Sabbio  1526,  irreperibile  la  seconda, 
rarissime  le  due  Sessa,  e  la  Soncini  1527;  irreperibile 
la  de  Gregori  1526. 

I  fortunati  possessori  di  coteste  rarità  bibliografiche 
sono: 

1.  La  Biblioteca  nazionale  di  Torino  possiede  il  Caos  1527 

id.  r  OrkmdinOj  Sabbio,  1526 

2.  La  Comunale  di  Siena .  .  il  Caos  1527 

3.  La  Queriniana  di  Brescia  il  Caos  1546 

4.  L'Ambrosiana  di  Milano  il  Ca^s  1546,  3  copie 

id  VOrland.,  Sab.,  1526, 2  cop. 

5.  L'imperiale  di  Vienna     .     il  Caos  1527 

6.  La  Nazionale  di  Firenze     1'  Orlandino  1526 

id  il  Caos  1527 

7.  La  Marciana  di  Venezia       Orlandino^  Soncini,  1527 

id.  Orlandino^  Sessa,  1539 

id  Caos  1546 

8.  Biblioteca  del  M.8e  Ippolito 

Cavriani  di  Mantova    .     .  Caos  1527  e  1546. 

9.  Biblioteca  Nazionale  di  Parigi  Orlandino^  Sabbio  1526 

Orlandino  Sessa  1530.  *) 
È  Apostolo  Zeno*)  che  ci  dk  nota  della  de  Gregori  1526, 
AelVOrlandino,  della  quale  non  ebbi  notizia  dell'esistenza 

1)  Ringrazio  il  cav.  E.  Muntz,  direttore  deUa  Scaola  nazionale  di 
Belle  Arti  di  Parigi,  e  il  cav.  I.  Havet  bibliotecario  della  Nazionale  di  Parigi, 
il  primo  per  ayermi  ottenuto  da  M.  Havet  le  note  bibliografiche  della 
nazionale  parigina,  il  secondo  per  avermele  concesse  e  fatte  di  sua  mano. 

2)  Fontanini.  Biblioteca  dell*  Eloquenza  italiana  Voi.  1  p.  324-25. 
KotaB. 


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XXXIV   

di  alcun  esemplare,  presso  le  molte  biblioteche,  sì  italiane 
..  che  straniere,  delle  quali   tengo  le  note. 

^  Spero  di  essere  in  grado,  fra  breve  tempo,  di  pub- 

blicare una  completa  bibliografia  folenghiana,  tanto  delle 
opere  maccheroniche  che  delle  sacre,  come  ho  fatto  qui 
per  il  Caos  e  per  Y  Orlandino^  la  quale,  ritengo,  riescirà 
interessante. 


1. 
DEL   CAOS 

!•  Cosa  è  il  Caos.  —  2.  Il  frontespizio  —  3.  Quando  fu  scritto  e  stam- 
pato. —  4.  Delle  due  edizioni. 

1.  Un  libro  che  si  chiama  Caos^  abbisogna  che,  avanti 
tutto,  si  dica  cosa  sia.  Ora  il  titolo  è  il  libro,  e  il  libro 
è  perfettaraeute  caratterizzato  dal  titolo,  che  gli  fu  dato 
dal  suo  autore.  Da  ciò  parerebbe  che  se  ne  fosse  detto 
abbastanza,  e  che  fosse  inutile  qualunque  commento.  Ma 
il  commento  lo  farò  egualmente  perchè  mi  sono  assunto 
di  farlo. 

Si  compone  di  quattro  parti;  cioè:  di  un  prologo,  od 
argomento,  detto  —  Dialogo  delle  tre  etadi  —  e  di  tre  altre 
parti  dette  —  Selve^  —  il  quale  nome  serve,  oltre  al 
titolo  del  libro,  a  persuadere  ancora  meglio  chi  vorrà  leg- 
gerlo, essere  oscura  ed  intricata  la  materia  che  vi  è  con- 
i  tenuta. 

^— ^'  '  Il  dialogo  è  in  prosa  italiana  ;  la  Selva  prima   è  in 

poesia  italiana  di  metro  diverso  ;  la  Selva  seconda  è  un 
misto  di  poesia  italiana  di  vario  metro,  di  prosa  pure 
italiana  a  dialogo,  ed  in  forma  espositiva,  di  poesie  la- 
tine di  esametri,  e  di  una    ode  saffica.  La   Selva   terza, 


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XXXV   

come  la  prima,  è  in  poesia  italiana  di  metro  vario.  Ha 
una  aggiunta  di  quattro  epigrammi  latini,  un  sonetto  in 
lode  di  Alberto  da  Carpi,  più  una  lettera  invettiva  di 
Limerno  ad  un  altro  Alberto  da  Carpi  di  tal  nome  in- 
degno. 

2.  Una  cura  speciale  tipografica  fu  usata  tanto  nella 
prima  che  nella  seconda  edizione,  della  quale  cura  è 
necessario  prendere  nota,  come  quella  che  ci  fa  intendere 
tutto  l'interesse  e  tutto  l'affetto  che  l'autore  pose  al  suo 
libro. 

Esso  ha  tre  fi'ontespizii,  il  primo,  lo  speciale  del  li- 
bro, un  altro  alla  seconda  Selva,  un  terzo  alla  Selva 
teraa. 

Ognuno  dei  tre  frontespizii  ha  uno  scudo  recante  lo 
stemma  dei  Folengo,  tre  folaghe,  disposte  a  triangolo, 
fra  le  quali  stanno  le  quattro  lettere  'M.  L.  T.  F.  che 
sono  le  iniziali  di  Merlino,  Limerno,  Triperuno,  Fulica, 
i  protagonisti  del  Caos. 

Al  disopra  dei  tre  stemmi  vi  è  un  distico,  che  dice 
che  egli,  come  Dio,  che  è  unico  e  trino,  per  il  mondo  è 
conosciuto  sotto  tre  nomi.  y 

Al  disotto  dei  due  primi  vi  è  un  exastico  diverso. 
Sotto  il  terzo  invece  vi  sono  nove  versi  con  bizzarro  ana- 
gramma che  compone  il  nome  di  Francesco  Grrifalcone. 

A  destila  ed  a  sinistra  dei  tre  scudi  vi  sono  le  ini- 
ziali di  tre  nomi  di  tre  differenti  personaggi,  ad  ognuno 
'  dei  quali  resta  in  questa  maniera  dedicata  una  parte  del 
Caos. 

Nel  primo  vi  è  FÉ.  GO.  cioè  Federico  II  Gonzaga, 
il  signore  di  Mantova,  al  quale  restano,  così,  dedicati  il 
Dialogo  delle  tre  età  e  la  Selva  prima. 

Nel  secondo  vi  è  CA.  VR.,  cioè  Camillo  Orsino,  in 
casa  del  quale  stava  il  Folengo,  quale  precettore  del  gio- 
vinetto Paolo,  di  lui  figlio. 


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XXXVI      - 

A  Camillo  Orsini  è  quindi  dedicata  la  seconda  Selva, 

Nel  terzo  scudo  si  trova  FR.  GR.  Francesco  Grifal- 
cone,  al  quale  è  dedicata  la  terza  Selva, 

Se  vi  è  libro  il  quale  abbia  un  frontespizio  appro- 
priato e  conveniente  è  il  Caos^  poiché  ne  è  un  simbolo 
ed  una  sintesi  insieme. 

3.  Il  Caos  fu  scritto  dopo  VOrlandino^  di  quanto  poi 
non  lo  si  sa. 

Come  si  ignora  il  tempo  preciso  in  cui  fu  scritto  il 
poemetto  eroicomico,  così  si  ignora  quando  fu  principiato 
e  finito  di  scrivere  il  Caos.  Dal  tenore  della  dimanda  di 
privilegio  del  Garanta  si  dovrebbe  ritenere  che  alla  fine 
del  1526  fosse  di  già  compiuto,  ma  potrebbe  anche  darsi 
che  il  Garanta  si  facesse  a  chiedere  un  privilegio  di  un'o- 
pera incominciata  soltanto  e  non  finita,  e  se  l'ipotesi, 
come  è  probabile,  fosse  vera,  il  Caos  avrebbe  avuto  il  suo 
termine  nel  seguente  anno. 

Tutto  ciò  stando  alla  data  posta  in  fine  delle  due 
opere. 

Che  se  noi  prescindiamo  da  ogni  congettura  su  di 
questi  due  particolari  e  consideriamo  l'indole  ed  il  ca- 
rattere cosi  opposti  dei  due  scritti  e  gli  intenti  specia- 
lissimi che  il  Folengo  si  è  prefisso  nel  Gaos^  convien 
dire  che  tra  Tuno  e  l'altro  lavoro  coitc  tutto  il  tempo  ne- 
cessario, perchè  nell'animo  del  Folengo  succeda  un  pro- 
fondo mutamento  di  idee,  di  propositi  morali,  filosofici  e 
religiosi,  da  quelli  che  aveva  allorché  dettò  Y  Orlandino 
e  li  espresse  nel  poemetto. 

Quello  che  è  certo  si  è  che  almeno  le  prime  due 
Selve  le  scrisse  allorché  era  ancora  in  casa  Orsini,  di 
che  se  né  ha  non  poche  prove,  forse  anche  la  terza,  ma 
non  ne  siamo  accertati  da  nessuna  parte,  mentre  l'assieme 
e  lo  spirito  della  Selva  lo  farebbe  dubitare. 


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—     XXXVII   

Del  resto  la  è  cotesta  una  quistione  di  poco  mo- 
mento. 

Forse  ha  maggiore  importanza  l'altra  dell'epoca  in 
cui  fu  stampato. 

11  Garanta  chiede  il  privilegio  di  stampare  Y  Orlan- 
dino e  il  Caos  il  3  Novembre  del  1526,  et  volendo  quelle^ 
cioè  V  Orlandino  e  il  Caos^  fare  istampare^  dice  espressa- 
mente ;  dal  che  si  intende  che  non  solo  non  erano  stam- 
pate, ma  nemmeno' ne  era  principiata  la  stampa. 

U  Orlandino  fu  stampato  avanti  del  Caos^  ora  esso 
può  essere  stato  stampato  in  parte  verso  il  terminare 
del  1526  e  in  parte  all'anno  seguente,  nonostante  la 
data  che  porta  del  1526,  la  quale,  come  dissi  nella 
prefazione  al  l''  voi.  p.  lxxxix  e  cui  indica  tutt'  al  più  il 
principio  non  la  fine  della  stampa  del  libi'O.  Il  Caos 
quindi  deve  essere  stato  stampato  non  prima  del  1528, 
o  almeno  finito  di  stampare  in  questo  anno,  quantunque 
porti  la  dichiarazione,  infine,  che  fu  stampato  adi  primo 
Zener  1527. 

4.  Le  due  edizioni  del  Caos^  1526,  e  1546  sono  iden- 
tiche fra  loro,  il  che  vuol  dire  che  la  seconda  non  è  che 
la  materiale  riproduzione  della  prima,  senza  che  vi  sia 
stata  fatta  alcuna  aggiunta,  o  modificazione,  od  anche 
soltanto  qualche  mutamento  di  parola,  ad  eccezione  del 
sonetto  contio  il  papato  p.  130,  131,  che  nella  prima 
edizione  ha  molte  lacune,  per  le  quali  non  se  ne  ha  al- 
cun senso  ;  nella  seconda  edizione,  invece,  l'abbiamo  tutto 
intero..  Ed  io  nel  testo  riporto  il  primo,  ed  in  nota  il 
secondo. 

La  seconda  edizione  poi  e  più  scorretta  della  prima, 
e  in  questo  riguardo  non  hajiemmeno  il  merito  di  cor- 
reggere una  errata  intestazione  della  prima  ad  una  can- 
zonetta di  quattro  terzine  ed  un  verso,  che  è  intestata  a 


,.-  •     :  Digitized  by 


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—    XXXVIII    

Triperuno,  mentre  la  dovrebbe  essere  a  Cristo;  giaccchè 
ripetè  Terrore. 

Sono  identiche  di  caratteri:  il  formato,  è.  alquanto 
più  piccolo  nella  prima,  la  quale  conta  di  conseguenza 
più  carta  della  seconda;  111  in  questa  e  120  nell'altra. 


if. 


DEL    CAOS 


1.  L'intento,  il  concetto  ed  il  carattere  del  libro.  —  2.  I  Personaggi. 
—  3.  Dell'interpretazione  del  Caos.  —  4.  Dello  stile  e  della 
lingua.  —  5.  Della  presente  edizione. 


1.  Allorché  il  Folengo  scrisse  il  Caos  e  Y Orlandino^ 
che  fu  durante  la  sua  dimora  in  casa  Orsini,  contraria- 
mente a  quanto  ebbi  ad  asserire,  ^)  era  nel  suo  periodo 
avventuroso  dell'uscita  del  chiostro.  E  la  prova  di  ciò  la 
esibisco  più  avanti. 

Sciisse  VOrlandino  durante  il  periodo  della  sua  aber- 
razione, morale,  filosofica  e  religiosa. 

Il  Caos  invece  lo  scrisse,  allorché  nella  coscienza  gli 
era  entrata  la  resipiscenza,  e  con  essa  il  desiderio  di 
tornare  nell'abbandonato  chiostro. 

Nel  suo  intento  il  libro  doveva  servirgli  di  prova 
essere  egli  tornato  a  quei  principii  morali  e  religiosi  che 
doveva  avere  come  frate  e  che  mai  avrebbe  dovuto  ab- 
bandonare. 

Le  ragioni   die  lo    spinsero   al  ravvedimento   né    si 

1)  Portioli  op,  cit.  voi  l**  Prefazione  p.  Lxxxix. 


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XXXIX    — 

conoscono  né  si  possono  congetturare,  né  vi  è  modo  di 
di  sapere  se  al  mutamento  egli  sia  giunto  a  poco  a  poco, 
oppure,  come  Saul,  tutto  ad  un  tratto. 

Un'altra  circostanza  sarebbe  utile  capire,  ma  che 
probabilmente  resterà  sempre  ignorata,  il  tempo,  cioè,  nel 
quale  si  è  formato  nel  suo  animo  il  proposito  di  ritor- 
nare al  cliiostro  abbandonato. 

E  strano  però  il  fatto,  che  mentre  è  certo  che  il 
Caos  doveva  riabilitarlo  nell'animo  della  famiglia  religiosa 
benedettina,  mostrarlo  non  solo  pentito  delle  aberrazioni 
sue,  ma  perfettamente  e  saldamente  ravveduto,  e  che 
specialmente  ripudiava  il  poema  dell'  Orlandino  e  tutto  il 
contomo  delle  circostanze  che  lo  produssero,  che  gli  re- 
carono tante  censure  e  tante  accuse,  presenti  nello  stesso 
momento  ed  al  medesimo  tipografo,  perchè  siano  stam- 
pati, e  l'uno  e  l'alti-o  lavoro,  Y  Orlandino  e  il  Caos  as- 
sieme. 

Come  si  spiega  1'  enigma,  la  palese  contraddizione  ? 
In  questo  caso  non  è  il  Caos  che  distinigge  YOrlandino^ 
ma  VOrlandtno^  che  distrugge  il  Caos^  per  essere  stato 
ad  esso  associato;  e  allora  restando  sempre  indistruttibile 
il  carattere  e  lo  scopo  del  Caos^  resterebbe  distrutta  quella 
sincerità  di  propositi  che,  per  esso,  il  Folengo  voleva  che 
si  appalesasse,  e  che  tutti  reputassero  vera  ? 

Il  Caos  sarebbe  forse  una  parodia?  Non  lo  credo,  e 
non  lo  è;  ma  la  contradizione  esiste. 

Ed  è  questo  uno  dei  non  pochi  misteri  che  circon- 
dano la  vita  di  questo  uomo,  più  grande  assai  di  quanto 
oggi  lo  si  ritiene. 

Il  Caos  contiene  T  esposizione  delle  fasi  morali,  intel- 
lettuali, e  dirò  anche  delle  vicende  personali  per  le  quali 
è  passato  sino  alla  età  raggiunta  allorché  lo  scrisse.  E 
queste  vicende  e  queste  fasi  egli  le  fa  narrare  a  parec- 
chi personaggi,  ma  specialmente  ai  quattro  che    lo    per- 


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—  XL   — 

Bonificano,  Merlino,  Limemo,  Triperuno,  e  Fulica.  Ogni 
personaggio  rappresenta  ed  espone  una  parte,  e  parla 
secondo  il  carattere  che  gli  viene  dalla  parte  sua,  in 
prosa  e  poesia,  in  italiano,  ed  in  latino,  serio  e  macche- 
ronico. 

Il  concetto  di  un  libro  sifatto,  ed  il  modo  di  nar- 
rare la  vita  di  un  individuo  non  furon  trovati  dal  Fo- 
lengo, che  egli  li  ha  presi  dalla  Vita  Nuova  e  dal  Con- 
vitto di  Dante.  Di  suo  ha  tutto  ciò  che  il  Caos  ha 
di  diverso,  nella  forma  e  nello  stile  dai  due  libri  di 
Dante.  ^)  E  siccome  ognuno  di  cotesti  libri,  narrandone 
gli  accidenti,  rappresentano  il  carattere  ed  il  genio  del- 
l' autore,  sono  quindi  tanto  fra  loro  diversi  quanto  lo 
sono  le  vicende  della  vita  ed  il  genio  dell'  uno  e  del- 
l'altro. 

Il  carattere  del  Caos  non  è  perfettamente  allegorico, 
né  perfettamente  mistico.  Ma  è  V  uno  e  1'  altro  assieme, 
forse  più  mistico  che  allegorico.  Non  è  perfettamente  al- 
legorico, perchè  il  fatto  allegorico  che  adombra  il  fatto 
positivo  non  vi  è;  non  è  perfettamente  mistico,  perchè 
qua  e  Ik  esiste  una  forma  allegorica,  se  non  una  perfetta 
allegoria. 

2.  Uesame  dei  personaggi  riguarda  quelli  delle  tre 
Selve,  non  quelli  del  Dialogo  delle  tre  etadi,  che  non  ne 
abbisognano. 

Nelle  tre  Selve,  oltre  ai  quattro  principali  più  su 
nominati,  Merlino,  Limemo,  Triperuno  e  Fulica,  altri  e 
parecchi  personaggi  agiscono  nella  scena,  quali  sono  Ge- 
nio, Urania,  Melpomene,  Talia,  Tecnilla,  Anchinia,  Euterpe, 


1)  L'indole  di  questo  scritto  mi  costringe  ad  eiccennare  ai  quesiti,  e 
a  toccarne  i  punti  principali.  Questo  tema  dei  rapporti  e  delle  dirorgenze 
tra  il  Caos  e  la  Yita  Nuova  ed  il  Convitto  di  Dante,  occorre  che  sia 
diffusamente  trattato  da  qualcuno  competente,  che  ritengo  riuscirà  un 
lavoro  interessante. 


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—  xu  — 

Terricore,  Furore,  Clio  etc,  una  pervalenza  quindi  di 
nomi  mitologiei,  in  un'opera  di  carattere  schiettamente 
cristiano. 

La  è  una  anomalia,  quantunque  strana  in  se,  ma 
spiegabile  colla  coltura  di  quei  tempi,  tutta  pagana,  per 
la  quale  i  letterati  d'allora  vestivano  a  preferenza  di 
forme  pagane,  o  mitologiche,  i  concetti,  ed  anche  talvolta 
i  personaggi  cristiani. 

Dei  quattro  principali  prenominati,  due  personificano 
i  caratteri  sotto  i  quali  appare  nelle  sue  opere  e  nelle 
sue  vicende  personali.  Merlino  l'autore  delle  Maccheroni- 
che propriamente  dette,  Limemo,  l'autore  dell'Orfan^mo, 

Triperuno  è  il  prodotto  della  unione  delle  due  in- 
dividualità di  Merlino  e  Limemo,  una  trinità  sui  generis, 
maccheronica. 

Fulica  è  il  personaggio  mistico,  indefinibile  che  na- 
sce dalla  personificazione  degli  altri  tre.  Egli  è  frate  at- 
tempato, con  lungo  cuculio  e  lunga  barba,  detto  dai  com- 
pagni Santo  Fulica. 

La  trinità  folenghiana  è  oggetto  del  distico  dei  tre 
frontespizii 

Unus  adest  triplici  mihi  nomine  vultus  in  orbe^ 
Tres  dixere  Chaos  ,  ,  .  .  . 

I  quattro  personaggi  che  rappresentano  e  riassu- 
mono il  Folengo  hanno  le  loro  iniziali  raccolte  e  rac- 
chiuse nello  stemma,  per  indicare  cotesto  loro  particolare 
significato  individuale  e  complessivo. 

Ogni  personaggio  ha  il  suo  carattere  ben  determi- 
nato cioè  quello  che  loro  imprime,  per  i  primi  due,  le 
opere  che  vanno  sotto  il  loro  nome,  mentre  Triperuno, 
che  li  riassume  e  costituisce  una  terza  personalità,  riesce 
innappuntabile  e  corretto  saggio  morale,  volendo  signifi- 


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—  xLir  — 

care  che  quantunque  possa  sembrare  altrimenti  per  i 
primi  due  dalle  loro  opere,  restano  nuUameno  virtuosi  e 
morali. 

Fulica  il  quarto  personaggio,  vecchio  saggio,  come  è 
di  dovere  per  Fetà  e  per  l'abito  che  veste,  instrutto  e 
virtuoso,  ribadisce  e  conferma  il  concetto  ed  il  carattere 
rappresentato  da  Triperuno. 

Pieno  dei  ricordi  geniali  della  sua  gioventù,  cono- 
scendo ora  che  non  approdano  a  nulla  di  bene  e  di 
buono,  moralizza  con  Limerno  e  con  Merlino,  per  pro- 
vare la  vanità  delle  loro  opere.  Ed  è  per  questo  intento 
che  il  Folengo  lo  finge  vecchio,  mettendogli  quindi  in 
bocca  quei  giudizii,  che  lui  stesso  avi'ebbe  pronunciato 
di  se  stesso,  giovane,  ima  volta  che  avesse  raggiunta  la 
età  senile. 

La  purezza  dei  sentimenti,  Y  integrità  della  vita  il 
candore  della  fede,  la  sincerità  dei  propositi,  sono  ripe- 
tutamente dichiarati  da  Ti-iperuno  e  da  Fulica. 

A  tanto  essi  mirano,  affinchè  se  ne  persuadano  co- 
loro i  quali  devono  sentenziare  della  sorte  del  poeta. 

Gli  altri  personaggi  hanno  una  parte  più  o  meno 
importante,  ma  secondaria  a  quella  dei  quattro  perso- 
naggi principali. 

Chi  rappresenta  le  virtù,  chi  le  basse  tendenze,  se 
non  i  vizii  addirittura,  chi  le  scienze  e  le  lettere. 

Ma  coteste  virtù  e  coteste  passioni  sono  talvolta  rap- 
presentate anche  da  simboli,  come  il  Fuoco,  FAmore,  la 
Fortezza^  la  Temperanza  ecc.  U  azione  ed  il  carattere 
«peciale  di  ogni  personaggio  secondario  verranno  spiegati 
nell'esposizione  del  concetto  di  ogni  Selva, 

La  finzione  è  bella,  nuova,  ingegnosa,  e  condotta 
anche  con  arte  finissima  tanto  che  in  alcuni  punti  della 
Selva  seconda,  in  particolare,  assume  persino  un  carat- 
tere drammatico. 


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XLIII    — 

3.  E  sempre  difficile  l'interpretare  esattamente  U. 
pensiero  altrui  e  ne  abbiamo  nn  esempio  grs^nde.  nei 
molti  e  svariatissimi  commenti  àeìlsi  Divina  Commedia  di 
Dante..  Veramente  nel  Caos  non  abbiamo  la  astrusità  del 
concetto  e  del  pensiero  dantesco,  né  le  non  poche  alte- 
razioni, che  si  fecero  dagli  amanuensi  al  testo  della  Di- 
vina Commedia^  poiché  la  prima  edizione  del  Caos  fu 
fatta  sotto  gli  occhi  dello  stesso  autore,  e  molto  proba- 
bilmente ne  fu  da  lui  stesso  riveduta  la  stampa,  e  la  se- 
conda edizione,  tolti  gli  errori  tipografici,  riproduce  nel 
resto  esattamente,  e  con  fedeltà  materiale,  la  prima.  Ma 
in  quella  vece  abbiamo  altre  difficoltà,  due  specialmente 
capitalissime. 

La  prima  la  si  ha  nella  completa  ignoranza  delle 
vicende  personali  del  Folengo,  nel  modo  scorretto,  od 
alterate  con  cui  sono  naiTati  i  pochi  fatti  veri  di  lui, 
per  cui  si  é  sempre  in  dubbio  se  lo  sieno,  oppure  quanto 
lo  sian.0  ;  la  seconda,  resa  piti  grande  della  piìma,  con- 
siste nel  modo  vago,  ed  indeterminato,  ora  allegorico, 
ora  mistico,  con  cui  accenna  od  espone  nel  Caos  ì  suoi 
personali  accidenti,  Taverli  diffusi  e  distemprati  in  mezzo 
a  moltissimi  incisi,  tanto  che  riesce  difficilissimo,  per  non 
dire  impossibile  a  sviscerarli  dall' involucro  che  li  av- 
volge e  trarli  fuori  determinati  e  concreti. 

Nell'esame,  più  che  commento,  che  ne  farò,  mi  guar- 
derò bene  dalle  sottigliezze  letterarie  per  sorprendere  ii- 
pensiero  folenghiano,  e  mi  gioverò  soltanto  di  due  sus- 
sidii,  cioè:  delle  dichiarazioni  che  il  Folengo  fece  del 
significato  delle  tre  Selve,  nel  dialogo  delle  tre  età,  di- 
chiarazioni che  pone  in  bocca  alla  madre  Paola,  alla 
sorella  Corona  ed  alla  nipote  Livia,  poscia  del  concetto 
che  io  mi  sono  fatto  -dell'argomento  collo  studio  delle 
opere  del  Folengo. 

Un  importantissimo  documento  trovato  dal  Prof.  A. 

Luzio    e  da  lui    pubblicato    in  un  suo   pregevole    studio 


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5-rc*?^*^^^- 


—   XLIV    — 

« 

sul   Folengo   mi  ha  confermato   il  giudizio   che  mi   era 
%  fatto  sì  delY  Orlandino  che  del  Caos. 

l  E  questo  documento  togliendo  ogni  incertezza,  ren- 

K  dendo   ceiio  questo  giudizio,  che,  per  quanto   sembrasse 

'-,  giusto,  mancando  di  una  prova  indubbia,  restava  sempre 

;.  discutibile,  mi  concede  T  instimabile  vantaggio  di   proce- 

'*  dere  con  passo  sicuro  nel  mio  esame. 

Più  avanti,  nel  capitolo  —  Degli  studii  sul  Folengo 
e  sulla  mia  edizione  —  parlo  del  lavoro  importante  del 
Luzio,  e  riferisco  anche  l'interessante  documento, 
?.;  5.  Lo  stile  del  Caos  è  triplice,  come  lo  è  dell'  Oìdan- 

dino^  con  questa  differenza,  che  mentre  neìV  Orlandino  è 
^  usato  o  l'uno  o  l'altro  a  seconda  della  materia  che  viene 

esposta,  nel  Caos  lo  è  invece  a  seconda  del  personaggi(» 
che  parla,  ma  non  soltanto  per  i  personaggi  principali, 
Merlino,  Limemo,  Triperuno  e  Fulica,  ma  altresì  per  i 
secondarli,  sia  mitologici,  od  allegorici  ;  per  di  più  il 
Maccheronico  compare  vestito  della  veste  splendida  del 
Baldo. 

Il  Maccheronico  è  parlato  da  Merlino  ;  il  burlesco, 
misto  di  im  decente  licenzioso  e  di  gentile  è  messo  in 
bocca  a  Limemo,  gli  altri  due  hanno  il  serio,  partico- 
larmente Triperuno. 

Negli  altri  personaggi.  Furore  è  maccheronico  ;  il  ri- 
manente è  serio,  talvolta  con  tono  satirico,  e  burlesco, 
ma  corretto  ed  innappuntabile. 

Da  tutto  ciò  ne  viene,  che  i  singoli  personaggi  con- 
servando quel  loro  carattere  pecuUare  che  hanno  e  dagli 
scritti  loro,  e  dalla  storia,  la  classificazione  dei  diversi 
stili  riesce  facilissima, 

A  tutta  prima  si  potrebbe  dubitare  della  Selva  terza, 
in  taluni  punti  della  quale  il  Folengo  si  distempera  in  un 
ascetismo  cosi  sdolcinato  che  impressiona,  che  ci  fa  chiedere 
se  sia  la  espressione  di  un   sincero  sentimento  religioso. 


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XLV   

0  piuttosto  un  dileggio  finissimo,  e  l'esitazione  del  giu- 
dizio si  fa  maggiore  mettendo  ciò  a  confronto,  ma  dirò 
coW Orlandiiìo^  l'antagonismo  del  quale  col  Caos,  l'ho  già 
rilevato,  ma  con  quanto  fa  dire  a  Limemo  e  ad  altri 
personaggi  nella  Selva  seconda* 

H  passaggio  appare  troppo  rapido,  il  salto  troppo 
grande.  Però  non  è  che  un  gioco  di  apparenza. 

Non  conviene  dimenticare  che  ogni  personaggio  parla 
a  seconda  del  proprio  carattere,  il  quale  linguaggio,  e  le 
cose  dette,  mirano  a  raggiugnere  F intento  dell'opera,  a 
provare  la  moralità  del  suo  autore.  E  la  Selva  terza 
appunto,  anche  nelle  più  ardenti  manifestazioni  ascetiche, 
è  la  prova  di  quello  che  sia  il  Folengo,  nonostante  le 
sue  opere  poetiche  e  le  vicende  sue  personali,  pio  re- 
ligiosa, morale.  Esce  dalla  triplice  classificazione  il  Dia- 
logo delle  tre  etadi^  il  quale  fa  parte  da  se.  Smtto  in 
stile  serio,  non  però  in  quello  di  Triperuno  e  di  Fulica, 
è  un  misto  di  trecentismo  e  di  un  bizzarro  affettato, 
grave  pesante,  col  quale  invece  il  Folengo  si  intese  di 
riescire  maestoso,  e  di  costruire  un  ingresso  splendido 
alle  tre  Selve. 

Mi  fa  la  figura  di  uno  di  quei  guarda-porte  delle 
grandi  case  patrizie,  duri,  impettiti,  vestiti  di  lunga  zi- 
marra, gallonati  di  oro,  con  un'aria  di  dignità,  più  im- 
pertinente di  quella  dei  loro  padroni. 

Non  vi  è  del  resto  nulla  che  stoni,  non  uno  scherzo, 
non  una  allusione  non  seria.  Il  Folengo  vi  ha  messo  tutta 
quella  gravità  di  cui  era  capace. 

In  punto  alla  lingua,  al  pari  à^Ylì  Orlandino^  poco  vi 
è  da  lodare  molto  da  biasimare. 

Il  Folengo,  come  non  fu  un  grande  vesseggiatore, 
cosi  non  fu  un  grande  prosatore,  e  credo  che  le  sue 
opere  volgari,  sacre   e  profane,  gli  abbiano    distratta  la 


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XLVI    — 

fama  di  gi-ande  poeta,  che  ebbe  e  dovi-ebbe  avere,  come 
poeta  maccheronico.  ^) 

Il  Folengo  vi  ha  messo  poi  gli  anagrammi  nella 
parte  poetica,  la  più  parte  allusivi  alle  vicende  dei  bene- 
dettini, qualcimo  dei  quaU  sono  un  vero  giuoco  di  forza 
poetica  verseggiativa,  come  il  NECAT,  a  pag.  139,  e 
quello  del  frontespizio  della  Selva  terza,  per  Francesco 
Orifalcone. 

Come  opera  letteraria  il  Caos  è  di  valore  non  grande, 
inferiore  di  certo  a  quello  dell'  invenzione  e  dello  svol- 
gimento del  tema,  che  è  finissimo  e  in  ogni  sua  parte  mi- 
rabile. 

6.  Prima  di  entrare  nell'argomento  dell'esame  del 
Caos  dirò  poche  parole  della  presente  edizione. 

Avendo  a  mia  disposizione  un  esemplai'e  di  ognuna 
delle  due  edizioni,  io  potei  condurlo  con  tutta  sicurezza. 

Siccome  non  vi  era  luogo  a  scegliere,  così  non  credo 
di  avere  alcun  merito  nell'avere  condotta  cotesta  edizione 
sulla  prima  dei  Sabbio,  segnata  colla  data  1527. 

Fra  la  prima  e  la  seconda  edizione  dei  Sabbio  non 
vi  sono  varianti,  ma  soltanto  ripetizioni  di  errori,  che  io 


1)  Se  il  Folengo  ha  in  Italia  una  fama  inferiore  di  quella  che  Ra- 
belais ha  in  Francia,  credo  che  dipenda  massimamente  dalle  passate  con- 
dizioni politiche  dell'  Italia,  e  dai  giudizii  poco  favorevoli  che  raccolse  per 
i  suoi  scritti  in  italiano,  ed  anche  dalle  grandi  difficoltà  che  vi  sono  per 
intendere  il  Baldo.  Io  miro  a  largii  acquistare  nella  estimazione  àeg\v  ita- 
liani, quel  posto  che  si  merita  di  grande  poeta,  unico,  non  inimitabile 
nel  suo  genere. 

Dopo  la  pubblicazione  dei  due  primi  volumi,  e  il  giudizio  favorevole 
che  ne  ebbi,  specialmente  fuori  d'Italia,  avvenne  un  risveglio,  tra  noi 
degli  studii  dell'  epopea  maccheronica  in  genere,  ed  in  ispecie  della  Fo* 
lenghiana,  e  non  pochi  sono  coloro  che  vi  applicarono  egregiamente  il 
loro  ingegno  e  la  loro  coltura.  Mi  auguro,  e  spero  anche  che  avversa 
fra  non  molto,  che  in  Italia  non  saranno  più  ritenuti  una  stranezza  i  giu- 
dizii del  Settembrini  e  del  Desantis,  e  che  il  Folengo  otterrà  quella  stima 
e  quella  popolarità,  che  meritamente  ha  il  Rabelais  in  Francia. 


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XLVII    

per  la  massima  paite  lasciai,  quelli,  cioè,  che  consistono 
in  corruzioni  di  parole  e  li  corressi  in  note  ;  solo  qualche 
rara  volta  li  corressi  nel  testo  specialmente  quando  erano 
evidentissimi. 

Ho  corretto  la  punteggiatura  anche  qui,  pia  che  potei, 
poiché  certi  periodi  non  si  prestavano  proprio  ^  alcuna 
.correzione,  così  pure  rispettai  più  che  ho  potuto  Torto- 
grafia,  come  feci  neirOr/ancKno,  volendo  che  il  Cuqb  si 
presentasse  nella  sua  veste  originale,  più  che  era  possi- 
bile, intera  e  intatta. 

Di  note  non  misi  che  le  necessarie,  pensando  che 
il  libro,  dovendo  andare  fra  le  mani  di  persone  colte, 
queste  non  abbisognavano  di  lezioni  troppo  facili  di  eru- 
dizione, o  di  critica  letteraria. 

E  perchè  la  ristampa  sia  materialmente  fedele,  e  per 
l'importanza  che  hanno,  circa  il  senso  del  libro,  ho  fatti 
riproduiTe  anche  i  tre  frontespizii,  tali  quali  figurano 
nelle  due  edizioni  originali,  collo  stemma  ed  i  versi  latini. 

La  nuova  edizione  avrk  sopra  le  prime  due  il  me- 
rito principale,  se  non  l'upico,  di  essere  di  lettura  assai 
più  facile,  perchè  fatta  in  caratteri  larghi,  e  moderni  e  di 
potere  andare  nelle  mani  di  qualunque  studioso,  per  la 
modicità  del  suo  prezzo. 

HI. 

•      DEL    CAOS. 

1.  Il  Dialogo  delle  tre  etadi. 

1.  Il  dialogo  delle  tre  etadi  è  una  breve  composi- 
zione, in  prosa  premessa  alle  tre  Selve,  delle  quali  ci 
fornisce  l'argomento  o  la  spiegazione  della  loro  allegorìa, 


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—   XLVIII    — 

che  è  la  esposizione  delle  tre  età,  o  meglio  dei  tre  periodi 
di  quella  età  che  il  Folengo  aveva  raggiunto  allorché  si 
era  accinto  a  scrivere  il  Caos^  e  quindi  la  fimciullesusa, 
la  giovinezza,  e  la  prima  virilità.  Ed  è  da  questo  che  la 
breve  composizione  fii  detta  dal  Folengo  —  Dialogo 
delle  tre  etadi. 

Gli  interlocutori  sono  Paola,  la  madre  del  poeta, 
Corona,  la  di  lui  sorella,  e  Livia,  la  nipote.  La  Corona 
era  monaca. 

Nel  dialogo,  propriamente  detto,  le  tre  interlocutrici 
deplorano  le  aberrazioni  del  Teofilo,  tanto  morali,  che 
letterarie;  morali  perchè  si  era  secolarizzato,  letterarie, 
perchè  non  soltanto  egli  aveva  scritto  quelle  pazzie  del 
Baldo,  ma  perchè  vi  ha  aggiunto  quella  ancora  assai  peg- 
giore àélV  Orlandino,  e  di  averlo  mandato  fuori,  per  la 
stampa  col  pseudomino  di  Pitocco,  che  gli  accresceva  il 
disonore  e  la  vergogna. 

La  Madre  Paola  è  tutta  mite  verso  il  figlio,  lo  scusa 
lo  compatisce,  e  nelle  azioni  sue  e  nei  suoi  intendimenti 
non  vede  che  bene,  e  nelYOrlemdino  stesso  non  sa  trovare 
quel  gran  male,  mentre  Corona  è  severa,  inesorabile  col 
fratello,  e  punto  si  lascia  persuadere  dalle  rs^oni  della 
madre.  Livia  vi  ha  una  parte  secondaria. 

Da  ciò  si  intende  che  il  Folengo,  in  questo  suo  dia- 
logo, che  pone  in  bocca  alle  tre  persone  che  tanto  lo 
amano,  che  altrettanto  lo  vorrebbero  stimare,  non  fa  altro 
che  esporre  quei  giudizii  che  si  facevano  sul  di  lui  conto, 
e  le  ragioni  che  egli  aveva  di  difesa  e  di  scusa,  Tidtima 
delle  quali  ragioni  si  è  l'avere  messo  fuori  il  Caos 
dopo  r  Orlandino^  dal  quale  ognuna  delle  tre  donne 
aveva  cavata  una  bellissima  allegoria,  che  mitiga  il  do- 
lore di  Corona  e  alquanto  la  consola,  prevedendo  nel 
fratello  un  pentimento  ed  il  ritorno  a  migliori  senti- 
menti. 


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~  XLIX   — 

I  tre  commenti  sono  tra  loro  diversi.  Ognuna  delle 
tre  interlocutrici  ravvisa  nelle  tre  Selve  un  suo  partico- 
lare concetto,  e  quindi  di  ogni  Selva  triplo  è  il  con- 
cetto, o  significato  allegorico,  e  tutti  e  tre  riguardono 
un  momento,  od  un  aspetto  della  vita  del  poeta,  E  il 
Folengo  stesso  vuole  che  il  triplo  concetto  sia  evidente 
al  lettore,  poiché  lui  stesso  lo  fa  espon-e  alla  fine  del 
Dialogo  da  Fulica,  il  quale  triplo  concetto  egli  dice  di 
averlo  posto  non  soltanto  nel  libro,  ma  nella  divisione 
sua  in  ti'e  parti,  nel  numero  tre  delle  donne  interlo- 
cutrici, nelle  loro  tre  età,  nei  loro  tre  gradi  di  pa- 
rentela, nelle  ti'e  Folaghe  dello  stemma,  e  persino  nel 
titolo  del  libro  composto  di  tre  parole:  Caos  del  Tripe- 
runa.  Le  tre  donne  poi  parlano  nell'ordine  naturale  delle 
loro  età,  e  quindi  prima  la  giovinetta  Livia,  poi  la  gio- 
vane Corona,  poi  l'attempata  Paola. 

Livia  riconosce  nelle  ti-e  Selve  essere  esposti  i  tre 
periodi  di  vita  raggiunti  da  Teofilo,  e  quindi  dice  essere 
figm^ate,  nella  prima  Selva  la  nascita  e  la  fanciullezza, 
nella  quale  pregusta  le  dolcezze  delle  cure  materne,  che 
lo  soccorrono  in  ciò  che  la  natura  non  gli  avea  dato  ; 
nella  seconda  Selva;  la  giovinezza,  e  quindi  il  periodo 
più  lungo  ed  importante,  poiché  abbraccia  gli  studi,  la 
monacazione,  l'uscita  dal  chiostro,  la  composizione  delle 
Opere  maccheroniche.  E  queste  vicende  sono  esposte  da 
Livia,  meno  qualche  parte,  assai  velatamente,  special- 
mente le  ragioni  della  uscita  dal  chiostro. 

La  terza  Selva  dice  rappresentare  la  conversione 
sua  dalla  vita,  o  dagli  errori  esposti  nella  Selva  seconda, 
la  quale  conversione  è  operata  da  una  appai*izione  di 
Cristo  che  lo  toglie  dalla  mala  via  e  lo  riconduce  alla 
buona,  dalla  quale  non  dovrebbe  più  dipartisi,  che  altri- 
menti commetterebbe  la  terza  sciocchezza. 

II  commento  della  Livia  é  quindi  tutto  individuale 
0  positivo,  biografico  del  Folengo. 


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La  Corona  invece  dice  che  il  fratello  suo  non  si 
intese  di  esporre  nelle  tre  Selve  le  sue  vicende,  la  sua 
vita,  bensì  un  concetto  più  generale,  le  vicende  cioè 
alle  quali  va  soggetto  l'uomo  nelle  diverse  età,  della 
fanciullezza,  della  giovinezza,  e  della  virilità,  specialmente 
quei  mali  e  quei  dolori  ai  quali  va  soggetto  in  conse- 
guenza del  fallo  di  Adamo. 

Soflfre  nella  prima  gli  affanni  ed  i  travagli  della  nu- 
dità, del  bisogno  della  nutrizione,  e  della  sua  fisica  im- 
potenza. 

Nella  età  della  giovinezza,  e  seconda  Selva,  si  ri- 
desta in  lui  la  brama  del  sapere,  ma  con  essa  anche  la 
forza  delle  passioni,  dalle  quali  due  forze  condotto  al 
varco  di  due  strade,  lascia  quella  che  mena  alla  verità, 
e  va  per  quella  che  conduce  al  vizio,  dove  passa  per 
tutta  le  bizzarie  della  vita,  sogni,  chimere,  amorose  fa- 
vole, che  da  Merlino  sono  chiamate  finzioni  macchero- 
nesche, e  vi  dura  finché  un  qualche  ti^avaglio  non  lo  fa 
ravvedere  del  suo  errore,.  E  allora,  ricorre  per  aiuto  a 
Cristo  che  lo  cava  da  quel  labirinto,  come  è  narrato 
nella  terza  Selva,  gli  dà  in  godimento  il  paradiso  ter- 
restre e  il  legno  della  vita  per  cibo. 

La  madre  generalizza  ancora  di  più.  Non  è  il  figlio 
suo,  né  Tuomo  in  genere  che  si  adombra  nelle  tre  Selve 
bensì,  Vuomo  studioso  ed  avido  di  imparare^  il  quale  nella 
prima  Selva,  mettesi  a  considerare  la  natura  umana  bra- 
mosa del  bene  e  della  scienza;  trascende  su  tutta  la  mi- 
seria della  vita,  e  quelle  sole,  cioè  il  bene,  la  virtù  e 
la  scienza  stima  degne  dell'umanità;  e  che  di  gran  lunga 
ne  compensano  le  infermità  ed  i  bisogni. 

Nella  Selva  seconda  ;  accrescendosi  ancora  più  la 
brama  del  sapere  si  fa  a  studiare  colle  scienze  divine,  an- 
che le  naturali,  e  la  filosofia,  nelle  quali  tanto  si  ingolfa 
e   si    entusiasma    che    gli   si   smarisce  il   sopranaturale  ; 


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—   LI   — 

rafEgurando  la  corrotta  scienza  dei  modeiiii  teologi  in 
Merlin  Cocaio^  sicché  in  ultimo  egli  trovasi  perduto  in  un 
labirinto  senza  uscita  di  dubbi,  errori  ed  eresie,  finché 
Cristo  mosso  a  pietà  di  lui,  lo  richiama  a  migliore  vita 
ed  a  migliori  sentimenti. 

La  terza  Selva  é  interpretata  in  modo  eguale  dalle 
tre  donne.  È  sempre  Cristo  che  cava  il  Folengo  dal  suo 
traviamento  e  lo  riduce  a  vita  vii'tuosa  e  principii  reli- 
giosamente cristiani. 

La  divergenza  sta  nella  interpretazione  delle  prime 
due  Selve,  la  quale  divergenza  però  mi  sembra  che  sia 
più  apparente  che  reale. 

Alla  fine  della  dichiarazione  di  Fulica  a  pag.  13  egli 
dice  che  il  givdicio  del  ingenioso  lettore  sark  il  pih  au-^ 
tenticato  sui  tre  che  le  tre  donne  hanno  dato  intomo 
alle  tre  Selve  del  Caos,  Ed  io  valendomi  di  questa  li- 
cenza del  Folengo,  vengo  a  dire,  che  nessuna  delle  tre 
interpretatrici  dice  il  vero,  ma  solo  parte  di  esso,  poiché 
il  vero  senso  del  Caos  sta  nell'assieme  dei  tre  sentimenti^ 
per  usare  la  stessa  parola  dell'autore. 

Nella  piìma  Selva  quindi  narra  la  nascita  e  la  fan- 
ciullezza sua,  descrive  le  cure  della  madre  nel  provve- 
derlo di  ciò  che  la  natura  non  concede  all'uomo,  di  abito, 
poiché  lo  fa  nascere  nudo,  di  cibo,  perchè  al  bambino 
mancano  le  forze  fisiche  ed  intellettuali  per  procurarsene. 

Ma  nel  medesimo  tempo  egli  facendo  un  confronto 
fra  r  uomo  e  l' animale,  e  ravvisando  come  a  questo  la 
natura  conceda,  fino  dal  suo  primo  venire  alla  luce,  tutto 
quanto  manca  all'uomo,  l'abito  nel  pelo,  la  svegliatezza, 
la  intelligenza  e  le  forze  per  procurarsi  il  cibo,  ne  con- 
clude che  essa  fu  matregna  crudele  all'uomo  e  madre 
pietosa  all'animale;  e  questo  diverso  stato  é  tale  uno  sco- 
glio nella  mente  del  Folengo,  che  lo  fa  traviare  in- 
tellettualmente  d^lV  umanità  di   Jeju^  come  fa   dire   alla 


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:^/»^ 


—   LII   — 

madre  cioè  dalla  considerazione  che  anche  Cristo  volendo 
ricondurre  la  umanità  traviata  dal  peccato  di  Adamo  al 
seno  di  Dio,  veste  forma  umana  e  soggiace  a  tutte  le 
leggi  e  a  tutte  le  infermità  dell'uomo. 

Nella  Selva  seconda,  è  vero  quello  che  dice  Livia 
die  a  sedici  anni  coWahito  cangiò  la  vita^  avendogli  pia- 
ciuto il  vivere  tranquillo  e  virtuoso  di  una  famiglia  di 
paston,  cioè  mosso  dal  naturale  candore  del  suo  animo, 
dalla  sua  ingenua  natura,  entusiasta  del  bello  e  del  vero, 
entra  in  una  famiglia  religiosa,  confidando  che  il  suo  spi- 
rito, la  sua  mente  vi  troveranno  il  posto  ed  il  nutrimento 
che,  con  aureo  sogno,  ideava  nella  sua  giovanile  fanta- 
sia; ma  poi  gli  anni  allargandogli  ben  presto  l'immagi- 
nazione  ed   i    sentimenti  ;  e  gli  studi,  le  cognizioni,  per 

ragione  di dice  Livia,  e  qui  vi  è  un  mistero,  le 

passioni  lo  agitano,  dice  Corona,  la  mente  sua,  ardente 
e  vivacissima,  dice  Paola,  non  si  accontenta  più  della 
cerchia  scientifica  nella  quale  è  tenuto  in  seno  al  chio- 
stro, desidera  un  campo  più  vasto,  se  non  più  libero, 
sente  il  bisogno  prepotente  di  gettarsi  ad  altra  vita.  E 
allora  in  lui  succede  una  grande  lotta  ;  da  una  parte  è 
trattenuto  dai  sentimenti  pii,  e  della  bontà  e  rettitudine 
naturale  deiranimo,  dall'altra  è  spinto  dalle  passioni  della 
sua  età  giovanile,  dal  suo  carattere  immaginoso  e  ardente, 
dal  suo  ingegno  avido  di  apprendere.  Infine  la  vittoria 
resta  alla  gioventù,  e  alle  sue  brame,  che  egli  dipinge 
come  donna  che  su  cavallo  sfrenato  gli  passa  avanti 
correndo  a  precipizio,  e  lo  attira  con  forza  irresistibile 
dietro  se.  Abbandona  quindi  il  chiostro,  si  ingolfa  in  una 
vita  nuova,  che  non  si  può  definire,  ma  intellettualmente 
e  religiosamente  traviata,  e  come  dice  ripetutamente  nel 
Caos  lo  attrae  specialmente  lo  studio  della  filosofia  e  delle 
scienze  naturali.  E  sono  queste,  più  dell'altra,  che  eser- 
citano su   lui  una   grande  influenza,    poiché    egli  voleva 


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—   LUI    — 

trovare  la  ragione  dì  tanti  fatti,  impossibili,  a  spiegarsi 
col  corredo  scientifico,  in  parte  sbagliato,  in  parte  ti'oppo 
scarso,  che  si  possedeva  allora. 

Mentre  Corona  e  Paola  assegnano  cagioni  chiare  ed 
attendibilissime  alle  aberrazioni  del  Folengo,  la  Livia 
invece  non  ha  che  la  reticenza  che  riferii:  per  cagione 
e^e  .  .  .  .  la  quale  costringe  ad  entrare  nel  campo  delle 
ipotesi,  di  quella  specialmente,  che  è  gik  ammessa  che 
anche  una  donna  sia  entrata  a  spingere  il  Folengo  nella 
via  nuova.  Ma  la  è  una  ipotesi  e  non  più,  forse  anche 
vera,  perchè  nel  Caos  non  ci  porge  alcuna  prova  od 
argomento,  atto  a  confermarla,  o  a  distruggerla.  Soltanto 
due  frasi,  che  pone  in  bocca  a  Corona,  sembrano  che  la 
abbiano  a  confermarla.  Ma  poi  levatasi  la  consueta  tem- 
pestada  di  nostra  carne^  ecco  la  voluptade.  .... 

n  ravvedimento,  esposto  nella  terza  Selva,  è  pro- 
dotto da  una  visione  di  Cristo.  Lo  prende  per  mano  e 
lo  conduce  in  un  edificio  fatto  di  mure  preziosissime, 
e  dove  splende  perpetuamente  il  sole. 

Alla  esposizione  delle  tre  donne  fa  seguire  un  esa- 
stico di  Merlino,  un  sonetto  di  Limerno,  ed  una  dichia- 
razione al  lettore  di  Fulica,  nei  quali  ribadisce  il  con- 
cetto uno  e  trino  del  libro,  dichiarato  dall'esametro  del 
firontespizio. 

Più  importante  è  la  dichiarazione  di  Fulica,  nella 
quale  dopo  le  spiegazioni  del  concetto  uno  e  trino,  an- 
che nelle  sue  parti  secondarie  del  Caos^  richiama  T  at- 
tenzione del  lettore  sopra  i  capiversi  sparsi  nel  libro, 
dai  quali,  dice,  che  chiaro  e  limpido  apparisce  Y  intricato 
soggetto. 


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LIV 


IV. 


DEL     CAOS. 


1.  Della  Selva  prima. 

I  personaggi  che  agiscono  nella  Selva  prima  sono 
sette  :  Triperuno,  Genio,  Melpomene,  Tecnilla,  Ancliinia, 
Urania,  Euterpe. 

Entra  per  primo  in  scena  Triperuno  con  un  prologo 
in  terza  rima,  quale  l'hanno  i  più  grandi  poeti  da  Omero 
a  Tasso,  nel  quale  espone  le  difficoltà  grandi  che  ha  da 
vincere  '  per  compiere  Y  ideato  lavoro,  e  il  fermo  propo- 
sito di  superarle. 

Al  terzo  verso  egli  asserisce  erroneamente  che  la 
via  per  la  quale  si  mosse  non  fu  forse  da  niun  altra 
intesa,  perchè  come  dissi,  Dante  fra  altri,  la  percorse 
prima  di  lui.  Conchiude  poi  col  dire,  clie  i  suoi  versi 
sono 

D'  amor  almanco  e  carilade  in  cima, 
Se  non  toscani,  ben  sonori  e  tersi. 

e  quindi,  da  una  parte  inspirandosi  al  concetto  dantesco 
espresso  in  quel  verso  :  vogliamo  il  lungo  studio  e  il 
grande  amore^  e  dall'altra  caratterizzando  giustamente  i 
suoi  versi. 

Al  prologo  tiene  dietro  un  lungo  capitolo  pure  in 
terza  rima,  dello  stesso  Triperuno,  nel  quale  il  Folengo 
esposto  il  suo  nascimento,  narra  la  grande  brama  di  co- 
noscere  le   verità  recondite  e  come  lo  studio   di  esse  lo 


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LV   

attrasse  tanto  che  gli  fece  perdere  la  serenità  della  fede, 
gli  nacque  nell'animo  il  dubbio  e  lo  sconforto 

Ofìde  fui  d'oìTibra  pieno  e  di  sol  voto. 

E  in  questo  stato  non  bada  più  che  tanto  al  saggio 
ammonimento  che  Genio  gli  fa  di  frenare  l'orgoglio  della 
mente,  nella  seguente  canzonetta;  né  miglior  fortuna  ha 
l'avviso  che  saggia  donna  gli  dà  e  il  tentativo  che  fa  di 
ricacciarlo  dal  mal  passo,  come  narra  nel  capitolo  in 
terza  rima  di  Triperuno,  che  egli  vi  si  ostina  ancora  più 
fortemente. 

Il  primo  scoglio  contro  il  quale  venne  ad  urtarsi  il 
suo  intelletto,  e  che  gli  scosse  la  fede  fu  il  peccato  di 
Adamo,  e  tutte  le  sue  conseguenze,  pag.  )  9  :  il  secondo 
furono  le  condizioni  meno  buone  in  cui  nasce  l'uomo  in 
confronto  degli  animali,  e  lo  fa  dire  a  Melpomene  nella 
canzone,  pag.  23,  24. 

Per  verità,  quanto  è  seria  la  prima  altrettanto  è 
leggera  la  seconda. 

Nel  lungo  capitolo  di  Triperuno,  pag.  25,  gli  ap- 
pare la  madre  natura,  Almafisa,  per  toglierli  i  dubbi  dalla 
mente,  mostrargli,  come  tutto  compensi  nell'uomo  il  suo 
etemo  destino,  l' intelletto  industrioso,  Anchinia,  che  Dio 
gli  ha  dato,  la  scienza,  Tecnilla  che  tutto  gli  spiega  il 
naturale  e  lo  persuade  del  sovra  naturale,  quella  scienza 
che  un  dì  lo  ricovererà  in  casa  Orsini. 

Viene  poscia  un  lungo  dibattito,  che  degenera  an- 
che in  diatriba,  fra  Anchinia  e  Tecnilla,  sulla  educa- 
zione e  istruzione  del  fanciullo  in  genere,  ed  in  specie 
del  Folengo,  volendo  questa  andare  a  passi  celeri,  quella 
lenta  e  misurata,  onde  la  scienza  entri  nella  mente  del 
fanciullo  di  pari  passo  dello  sviluppo  fisico. 


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—   LVI  — 

Nel  capìtolo  che  viene  dopo  di  Triperuno  fa  a;^* 
lire  Almafisa,  la  Natui-a,  clie  acquieta,  col  suo  canto, 
Anclnnia  e  Tecnilla  e  le  costringe  a  fare  una  danza  as- 
sieme. Ed  egli  che  ascolta  quella  dolce  e  soave  armonia, 
baml)ino  ancora  avvolto  nelle  fascie,  con  grande  sforzo 
se  ne  libera,  ma  volendo  reggersi  in  piedi  e  camminare, 
le  forze  non  gli  bastano  per  cui  cade,  e  allora  Anchinia 
lo  soccorre  e  lo  raccoglie  su  di  un  carro  a  ti*e  ruote  e 
lo  medica  delle  ferite  riportate  al  viso. 

Qui  il  Folengo  include  un  doppio  senso,  il  letterale, 
che  riguarda  le  sorti  e  le  condizioni  del  bambino  in  fa- 
scie,  e  poi  anche  rallegorico,  vale  a  dire  lo  stato  della 
sua  mente,  che  nella  fanciullezza  essendo  ancora  bam- 
bina, e  predominando  in  lui  la  presunzione,  lo  fa  cadere 
negli  errori,  che  gli  guastano  il  viso,  cioè  la  riputazione, 
onde  abbisogna  di  Anchinia,  che  lo  rileva,  lo  corregge, 
lo  risana  delle  sue  aberrazioni  e  gli  infonde  tanta  forza, 

In  fin  che  da  nie  stesso^  a  poco,  a  poco 
Ir  poscia^  senza  il  carro  ed  altro  duce. 

Nella  canzone,  che  segue  di  Urania,  è  celebrata 
r  armonia  delle  tre  dee,  Almafisa,  Anchinia  e  Tecnilla, 
che  mantengono  V  ordine  nelF  universo,  e  che  prese  per 
guida  dall'uomo,  avido  di  sapere,  lo  tengono  nei  limiti 
dovuti,  e  da  esse  guidato  lo  conducono  ai  suoi  alti  de- 
stini in  cielo. 

E  questo  concetto  ,è  espresso  anche  dai  capiversi 
della  stessa  canzone,  i  quali  dicono: 

Concordantia  durant  cuncla  naturai  Federa. 

Nel  breve  capitolo  di  Triperuno,  dice  che  cresciuto  di 
etji,  di  forze  e  di  sapere,  la  madre  Natura  amorosamente 
la  raccoglie  e  riconduce 

D*  innumerabil  figli  dentro  il  stola 


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—  LVTI   — 

cioè  nella  famiglia  religiosa,  dove  passa  felici  ì  begli 
anni  della  giovinezza  e  dell'innocenza,  dove  nelF 

....  aurea  stagione  di  accada 
Vissi  gran  tempo  sempUce  bambino 

cioè  bambino  di  aiiimo  e  di  sentimento,  tranquiliis^atÀ 
dai  primi  dubbi,  ed  aqaietato  dagli  assalti  delle  prime 
passioni. 

Chiude  la  Selva  con  una  cannone  di  Eutoi^pe  la 
quale  non  è  che  un  bellissimo  e  freschissimo  Idillio  di 
questo  suo  stato  di  innocenza  e  di  felicità  che  passa  nel 
paradiso  terrestre. 

La  canzone  ha  per  titolo  :  De  la  ptierizia  e  aurea 
stagione^  e  questo  titolo,  col  verso  della  canzonetta  dì 
Triperuno  che  ho  riportato,  ci  indica  il  doppio  senso 
e  del  capitolo  e  della  canzone,  il  letterale,  e  Tallegorico, 
ma  l'assieme  delle  due  composizioni  ci  persuade  che  Tal- 
legorico  è  il  prevalente. 

Cosi  si  chiude  la  Selva  prima,  il  di  cui  commento 
non  riesci  per  nulla  difficile,  il  che  forse  non  sarà  della 
Selva  seconda. 

E  riassumendo:  in  questa  Selva  egli  narra  la  na- 
scita sua,  colle  sue  infelicità  ed  infermità,  che  abbisogna 
delle  cure  alti-ui  per  essere  riparato;  le  prime  passioni 
che  vengono  a  sconvolgere  gli  animi  dei  giovinetti,  e 
sconvolgono  anche  il  suo,  i  dubbi  di  fede  e  di  credenza 
che  sopraggiunsero  a  turbargli  la  serenità  della,  mente, 
finché,  per  ognuno  di  queste  tie  infelicità,  cadendo  e 
sconciandosi  il  viso,  e  non  valendo  a  rilevarsi  da  se,  sop- 
pragiugne  Anchinia  industi*e,  come  egli  la  chiama,  che  lo 
risolleva,  lo  risana  e  lo  fa  robusto,  onde  la  natura  poi, 
Almafisa,  vedendolo  forte  di  animo,  di  mente  e  di  corpo 
lo  conduce  a  parte  di  numerosissima  famiglia,  la  religiosa. 


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—  Lvm  — 

V. 

DEL   CAOS. 

!•  Della  Selva  seconda.  —  2.  D^e  tre  regioni  allegoriche,  la  Malotta, 
la  Carossa,  la  Perissa*  —  3.  Del  Centro  e  della  fine  del  Caos. 

V  !•  I  personaggi  che  agiscono  in   questa   Selva  sono 

\  poco    più  di  quelli  che  figurano  nelle  altre  due,    e    sono 

'  i  seguenti,  che  segno  nell'ordine  stesso  con  cui  fanno  la 

loro  comparsa  sulla  scena:  Tripeinino,  Tersicore,    Genio, 

Merlin   Cocai,  Furore^  Limerno,  Bellezza,    Clio,   Galauta, 

Fulica, 

Questa  Selva  la  si  può  dire  aspra  e  forte  sì  per 
l'autore  che  per  il  commentatore.  Il  Folengo  stesso,  nella 
breve  prefazione,  che  vi  ha  posta,  la  chiama  centro  con- 
fusissimo  del  Caos,  e  perchè  di  questa  confusione  se  ne 
avesse  una  adeguata  immagine,  la  compose  di  prosa,  versi 
senza  rime  e  con  rime  latine,  maccheroneschi^  dialoghi^  e 
d altra  diversitade  confusa  ;  però  egli  soggiugne  :  ma  non 
anco  sé  confusa  e  rammeschiata^  che  dovendosi  questo  Caos 
con  Tintelletto  nostro  disciogliere^  tutti  gli  elementi  non  su- 
hitamente  sapessero  al  proprio  lor  seggio  ritoimare. 

Questo  ordinamento  di  elementi  confusi  ed  incerti 

poteva   farlo  il  Folengo  con  tutta  facilità,  e  forse  anche 

i  suoi  intimi,  e  qualche  contemporaneo,  che  conoscevano 

sufficentemente  bene  gli  accidenti  della  sua  vita,  ma  non 

si  può  dire  altrettanto  dei. suoi  tardi  nepoti  in  genere,  ed 

'  in  ispecie  di  colui  che  ripubblicando  le  sue  opere,  e  scri- 

..  vendo  coteste  pagine  si  è  proposto  di  farlo  conoscere  ed 

fe  apprezzare   quanto  si  merita,    poiché   dell'  autore  poco  o 

|.  nulla  se  ne  sa  di  accertato. 


1L_ 


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lilX   

Per  il  Folengo  quindi  la  seconda  Selva  h  confusa 
per  tutto  ciò  che  di  bizzarro  gli  accadde  in  questo  se- 
condo periodo  della  vita  sua,  che  in  tale  guisa  ci  ha  vo- 
luto descrivere,  per  noi  invece  è  €on&isa  per  tutto  quello 
che  ignoriamo  di  lui. 

Una  nota  melanconica,  triste  assai,  egli  ha  posto  nel 
primo  esametro  dell'esastico  del  frontespizio,  la  quale  ci 
fa  conoscere  quanto  gli  tornasse  amaro  il  ricordo  dei 
giorni  lieti  e  felici  passati  nella  sua  Mantova,  nel  pe- 
riodo della  fanciullezza,  ora  che  sbalestrato  dalle  sue  è 
dalle  altrui  passioni  viveva  di  una  vita  agitata  e  con- 
vulsa. La  mia  barchetta,  dice,  solita  a .  scorrere  placida  e 
tranquilla  fra  le  folaghe  del  Mincio,  ora  è  sul  mare,  in 
balia  di  acque  furiose,  facendo  così  eco  a  Dante  che 
disse  : 

Nessun  maggior  dolore 

Che  ricordarsi  del  tempo  felice 
Nella  miseria.  .  .  • 

E  soltanto,  come  soggiugne  nei  due  esametri  se- 
guenti, ha  conforto  il  trovarsi,  in  casa  Orsini,  all'ombra 
della  grande  Orsa,  guida  sicura  al  navigante. 

Dà  principio  alla  Selva  una  canzone,  alquanto  oscura, 
in  ottava  rima,  di  Triperuno,  nella  quale  si  propone  di 
narrare  tutte  le  sue  peripezie,  intellettuali,  morali,  ed  in- 
dividuali, ai  popoli  della  teira,  e  che  poscia  il  libro,  qual 
tavola  votiva  sia  appesa  in  qualche  tempio,  o  scolpito  in 
duro  e  polito  sasso,  af&nchè  sia  di  ammaestramento  a 
chiunque  per  scegliere  la  via  buona,  allorché  sarà  posto 
al  bivio  delle  due,  la  buona  e  la  cattiva.  E  nell'  ultima 
stanza  si  augura  che  altri  abbiano  una  volontà  diversa 
dalla  sua,  che  lo  travolse  in  tanti  affanni,  e  che  lo  fece 
cadere  da  tanta  altezza  in  così  basso  luogo. .  ...... 


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—   LX    — 


E^li  dice  che  a  tanta  jattara  pervenne  mosso  dal 
desiOj  che  sebbene  non  dica  quale  sia,  pure  fu  complesso, 
ma  che  la  maggior  parte  ve  la  ebbe  la  vivacità  del  suo 
carattere  e  del  suo  ingegno,  ed  un'  immensa  brama  di 
apprendere  i  misteri  delle  scienze  naturali  e  fisiche,  che 
gli  hanno  così  tanto  torturato  la  mente  e  T  intelletto. 

Nel  capitolo  che  segue  espone  come  egli. al  finire 
della  aurea  età  della  fanciullezza,  entri  a  far  pai-te  della 
famiglia  religiosa  dei  benedettini,  e  lo  conferma  anche  la 
prima  parte  dell'anagramma,  fatto  dai  capiversi  del  ca- 
pitolo: Divi  Benedicti  regtda^  sub  qunm  ipse  militaUittis^ 
jam  ingrediar  .... 

niella  quale  famiglia  trova  la  quiete,  la  pace,  T  ordine,  la 
earitk,  cosi  che  egli  è  felicissimo  di  appartenervi.  Ed  è 
confortato  anche  ad  entrarvi  da  donna  che  gli  appare 
dal  cielo.  Altea. 

Tersicore  poi,  nel  sonetto  che  segue,  lo  avvisa  di  stare 
saldo  nel  proposito,  ad  armarsi  di  fermezza,  poiché  veri^ 
un  lupo,  e  in  esso  adombra  lo  Squarcialupi,  il  quale 
introdurrà  leggi  nuove,  in  pregiudizio  delle  antiche,  e 
con  esse  porterà  discordia  grande,  e  rovina  somma  nei 
benedettini. 

Sopraviene  di  nuovo  Tripenmo  il  quale,  in  una 
lunga  canzone  in  ottava  rima,  espone  come  egli  non  sia 
stato  saldo  agli  ammonimenti  di  Altea  e  Tersicore,  e 
come  e  perchè  ciò  sia  accaduto,  ed  ora  che  è  al  sicm'o  da 
ogni  molestia,  in  casa  Orsini  si  proponga  di  dir  chiaro 
senza  alcun  riguardo.  Poscia  si  fa  a  narrare  come  gli  sia 
accaduto  di  vedere  la  nascita  di  Gesù  e  i  presagi  della 
Bì»  futura  passione. 

Genio  quindi  fa  una  lunga  parlata  in  prosa  per 
esporre  i  misteri  della  redenzione  umana  fatta  da  Cristo 
per  mezzo  della  sua  incarnazione,  e  i  benefici  che  ruomo 
ne  raccolse. 


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—     LXI  

Un  sonetto,  oscuro  assai  è  cantato  da  quattro  Ange£, 
che  addimostra  la  forza  irresistibile  della  inclinazione,  in 
noi,  la  quale  non  può  essere  vinta  dall'uomo  ma  sol- 
tanto da  Dio. 

Triperuno,  quindi,  nel  capitolo  che  viene  dopo,  narra 
le  grandi  discordie  sorte  nella  famiglia  di  quei  pastori, 
1  Benedettini,  nei  quali  egli  si  era  ricoverato, .  in  ma- 
niera che: 

Non  più  dramme  d^amor^  non  più  pace 
Tra  quelli  oi^mai  si  trova 

percui  Genio  invita  la  mistica  famiglia  di  Giuseppe  e 
Maria,  col  pargoletto  Cristo  a  fuggirsi  in  Egitto,  ed  il 
Folengo  che  stava  contemplando  una  scena  cosi  straziante, 
non  visto,  in  luogo  appartato,  si  scopre  e  chiesta  la  ca- 
gione di  tanto  scempio,  un  vecchio  gli  risponde 

non  m*  accorsi 

Avvolto  in  un  agnèllo  esser  un  lupo 

e  il  lupo  non  era  altro  che  quello  preconizzato  gik  da 
Tersicore,  e  quindi  lo  Squarcialupi,  e  questo  senso  è  con* 
fermato  dall'anagramma  che  incomincia  coi  capiversi  di 
qaesta  canzone  di  Triperuno,  il  quale  anagramma  dice  : 
Verun  Ignatii  Fiorentini  tanta  ambitio  ut  illa  puritas  ani" 
morum  penitus  corrupta  deciderit. 

n  vecchio,  che  svela  al  Folengo  la  cagione  della 
discordia  dei  Benedettini,  è  l'abate  Cornagianni,  vene- 
rando per  età  e  virtù,  il  quale  prorompe  in  un  ango- 
scioso lamento,  dopo  del  quale,  come  narra  Triperuno, 
vinto  dall'ambascia  muore  di  crepacuore. 

Sovra  la  tomba  poi,  del  frate  santo  vengono  deposti 
Carmi  leggiadn  e  nme  di  gran  9ono,  fra  i  quaU  àwi  un- 


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—   LXII   

che  quello   stranissimo  del   Folengo    a  pag.    64,   che    in 
nota  credo  di  avere  spiegato. 

Del  Cornagianni  ne  abbiamo  un  cenno  in  un  verso 
deir  Egloga  sesta  della  Zanitonella  v.  I  p.  45,  col  quale 
allude  alla  sua  morte  repentina  : 

CoDieus  Ime  animam  profvdit  sorte  lohamies. 

Il  Folengo  quindi  esce  dal  chiestilo  e  non  per  al- 
cuna sua  cagione,  che  anzi  lui  non  prende  parte  alle 
discordie  dei  frati,  poiché  se  ne  sta  timido  spettatore  in 
disparte,  ma  come  vittima  innocente  delle  male  arti  dello 
Squarcialupi. 

Almeno  questo  è  qwello  che  egli  ci  fa  intendere,  e 
vuole  che  sia  inteso. 

Di  qui  ha  principio  la  vita  avventiu^osa,  della  quale 
se  ne  sa  cosi  poco,  e  cosi  poco  ce  ne  dice  lui  in  questa 
Selva,  per  giunta  avvolta  in  si  nebulosa  metafora. 

Uscito  dal  chiostro,  nella  piena  balia  di  sé  stesso, 
vago  di  avventure,  in  quella  età  nella  quale  F  ignoto  ed 
il  nuovo  sono  una  vera  necessità  all'animo,  trovasi  com- 
battuto da  due  opposte  tendenze.  Le  quali  tendenze,  e 
la  lotta  che  fra  loro  in  lui  combattono,  le  descrive  nel 
lungo  capitolo,  in  ottava  rima,  Triperuno. 

Tm  donna  pallida  in  volto  magra  e  macilente 

che  gli  appare,  rappresenta  le  tendenze  tutte  umane,  la 
quale  poi  subendo  diverse  strane  metamorfosi,  tutte  allego- 
riche, gli  si  presenta  in  ultimo  colle  apparenze  di  bel- 
lissima e  montata  su  bianco  palafreno,  che  passandogU, 
a  gran  corsa,  davanti,  preso  da  forza  arcana,  se  lo  tra- 
scina   dietro,  finché  giugne,  dopo  lunga  corsa  al  tempio 


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—   LXIII  — 

delle  voluttà.  Ma  qui  ha  altra  apparizione  di  donna  che 
nelle  sue  mani  tiene  ed  agita  un  cribro 

D'acqua  ripieno  e  goscia  non  si  versa 

la  quale  gli  impedisce  d'entrare  nel  tempio  fatale,  e  gli 
indica  la  via  che  egli  deve  percori'ere,  la  destra,  nella 
quale,  essa  gli  dice 

di  grado  in  grado 

Montando^  e  non  col  volo  di  fortuna^ 
Vedrai  quel  ben  che  'n  se  virtù  raguna. 

Di  qui  nasce  in  lui  un  fiero  contrasto,  raffigurato  dalla 
lotta  che  s' impegna  fra  le  due  donne,  che  è  fatta  cessare 
da  Eleuterìa,  la  quale  consiglia  essa  pure  a  scegliere  la 
via  buona,  e  la  sceglie,  seguendo. 


di  Nursia  il  saggio  spirto. 


Ma,  tuttavia,  altre  seduzioni  non  gli  mancano,  ed  altri 
contrasti  egli  deve  sostenere,  finché  la  vittoria  rimane 
definitivamente  al  bene,  e  alla  virtù. 

E  a   raddorcirgli  l'animo    ed  a  consolarlo   alquanto, 
gli  appare 


uomo  lietOy  grasso  e  bello 


Merlin  Cocai,  che  lo  abbraccia  e  bacia  come  fratello, 
e  gli  canta  un  lungo  capitolo  maccaronico,  non  nuovo  nel 
concetto,  poiché  non  ripete  se  non  ciò  che  disse  della 
nascita  di  Baldo,  dei  suoi  compagni  e  delle  loro  prodezze. 
L'esposizione  soltanto  è  diversa,  ma  esilerante. 

Qui  si  apre  un  intermezzo  allegorico  dei  tre  carat- 
teri da  lui  rappresentati  nei  tre  personaggi.  Merlino,  Li- 
memo  e  Fulica,,  che  li  fa  raffigurare  da  tre  regioni  diverse 


^^.J^Bii&  ' 


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—  LXIV   — 

tra  loro   di   nome  e   di  natara,   in   ognuna  delle    quali 
[  vive   uno   dei   tre    personaggi,  cioè   la   regione   Carosaa, 

I  dove  regna  Merlin  Gocai  con  Triperuno,  la  Matotta  nella 

j>.*  quale  sta  Limerno,  e  la  Perissa  di  Fulica. 

r  II   carattere  di  ciascuna  regione  ed  il  suo   abitatore 

r  *  ci  sono  indicati  da  Triperuno,  nella  sua  dichiarazione,  a 

pag.  89.  La  Carossa  è  piena  di  lardo,  butirro,  maccheroni, 
brode   grasse;    la  Matotta  è   piena  di  fontane  di  acqua, 
lauri,  mirti,  faggi,  un   vero    parnaso  apollineo;  la  terza, 
y.  '  è  come  F Arabia  peti*ea,  sassosa,  squallida,  rigida,  sterile, 

degna  dell'eremita  Fulica, 

Nella   Carossa  agiscono   soltanto  Furore,   Triperuno 
(  e  Merlino,  il  quale  esordisce  col  suo  lungo  capitolo  mac- 

cheronico nella  forma  e  nel  concetto  suaccennati. 

Ma  finalmante,  Triperuno  tronca  il  dire  di  Merlino, 
•  e   s'avvia  da  lui  seguito,   per  ricercare  la  vaga  ninfa,    e 

giugne  ad  un  luogo  nel  quale  trova  il  paradiso  macche- 
ronico, fiumi  di  latte,  laghi  di  falerno,  valli  di  maccheroni 
e  di  lasagne  ecc.  e  gente  che  vi  stava  bevendo,  man- 
giando, cantando,  pag.  82  e  seguenti.  Viene  quindi  in 
ecena,  pag.  84,  il  Furore  bacchico,  il  quale  in  una  can- 
zone maccheronica  felicita  Triperuno,  tenero  e  galante,  di 
esssere  giunto  al  regno  beato,  e  Triperuno,  eccitato  da 
Furore,  canta  una  canzonetta  di  sette  versi  atea  e  mate- 
rialista. 

Segue  poi  una  gara  tra  Merlino  e  Triperuno,  quello 
di  maccheronico,  questi  di  materialismo,  finché  Triperuno 
stesso  finisce  col  cantare  concetti  maccheronici,  esprimendo 
il  fermo  proposito  di  starsene  sempre  con  Merlino  suo 
maestro  e  guida. 

Ma  tutta  cotesta  scena  maccheronica  ha  una  parte 
seria,  gravemente  seria,  nel  lungo  anagramma  e  violen- 
tissimo contro  lo  Squarcialupi,  autore  delle  discordie  be- 
nedettine :   Unica  qm  fuerat  Benedicii  regula  sacri^  mo- 


15 


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^PFWi'^ 


—    LXV    — 


ribus  Ignatii  stercore  feda  pufret  Virtutes  abiere  omnes; 
dii  veì^ite  soriem  Nursintj  ìit  redeat  pristina  norma  Pafris. 

La  regione  di  Matotta  si  apre  con  una  parlata,  tutta 
maccheronica,  di  prosa  italiana,  di  Triperuno,  la  quale 
parlata  è  interrotta  dalFapparire  di  un  damigello,  daspetto 
molto  gentile  e  saputo^  Linierno,  il  quale  suonando  una 
cetra  canta  un  sonetto  in  lode  di  una  dama  ignota,  bel- 
lissimo, degno  del  Petrarca. 

Limerno  canta  altri  due  sonetti,  intramezzati  da  brevi 
parlate  ai  Triperuno. 

Nel  dialogo  tra  Merlino  e  Limerno  ò  discusso  il 
pregio  della  lingua  toscana,  e  della  latina.  Merlino  esalta 
questa,  Limerno  Taltm,  il  che  vuole  dire  che  il  Folengo 
faceva  un  giudizio  eguale  delle  due  lingue,  quella  di  Vir- 
gilio e  Cicerone  e  quella  di  Dante,  Boccaccio  e  Petrarca. 
•  K  singolare  la  dichiarazione  di  Merlino  che  egli  non 
ha  nulla  da  invidiare  a  Vij-gilio,  perdio  nel  suo  idioma 
ritiene  di  non  aver  superiore  alcuno  ;  la  quale  dichiara- 
zione sbugiarda  la  leggenda  avere  egli  scritto  in  lingua 
maccheronica  per  una  gara  virgiliana  non  vinta. 

Dedica  poi  due  sonetti  ad  Andrea  Gritti,  doge  di 
Venezia,  magnificandone  le  virtfi,  e  ringraziandolo  di 
avergli  accordata  una  udienza. 

Nel  Dialogo,  che  viene  dopo,  tra  Limerno  e  Merlino 
disputasi  della  inanità  e  -poca  convenienza  dei  loro  pseu- 
donimi, della  tendenza  di  Merlino  per  la  crapula.  Merlino 
non  solo  dichiara  che  in  essa  sta  lunico  bene  deiruomo, 
ma,  come  necessaria  conseguenza,  ripete  anche  un'ampia 
professione  di  materialismo.  jMentre  Limerno  lo  eccita  a 
nobili  passioni,  prima  delle  quali,  e  che  genera  tutte  le 
altre,  quella  dell' amoro. 

Viene  poi  una  gara  poetica  tra  T  uno  e  T  altro  per- 
sonaggio, di  poco  valore  nella  quale,  Limerno  pnrla  della 
sua  prima  istruzione,  su  quel  di  Ferrara,  e    Merlino   del 


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n^puf^w  'L«tJ,fi' 


LXVl    — 

SUO  poco  grato  soggiorno  in  questa  città.  Del  resto  non 
vi  ha  nulla  di  notevole,  né  nel  capitolo  in  terza  rima  di 
Limemo,  pag,  104,  né  in  quello  maccheronico  di  Merlino, 
che  lo  segue,  è  nemmeno  nei  loro  dialoghi,  nei  quali  i 
due  personaggi  non  fanno  che  ripetere  i  sentimenti 
espressi  precedentemente. 

Dopo  ciò,  Limerno  fa  un  lungo  soliloquio  in  prosa 
ed  in  versi,  la  più  parte  sonetti  petrarcheschi,  tutti  in 
lode  di  bellissima  donna,  che  dai  capiversi  del  Madri- 
gale, a  pag.  110,  si  intende  avere  nome  Giustina-  Grivr 
stina  Diva. 

Che  sia  una  donna  vera,  od  immaginaria,  che  si 
adombri  in  essa  Tordi  ne  dei  benedettini,  essendo  il  grande 
chiostro  di  Padova  dedicato  a  santa  Giustina,  non  vi  è 
modo  di  intendere;  credo  però  che  la  terza  ipotesi  sia 
meno  probabile  delle  altre  due.  E  la  canzone  -  Laménto 
di  Bellezza  -  a  pag.  114,  pare  che  escluda  affatto  la 
terza  ipotesi,  lasciando  intere  ed  eguali  le  altre  due  :  Dice 
infatti  Bellezza  fra  altro: 

Io  son,  perchè  ti  miro  star  sospeso, 
Vana  beltà,  che  orna  di  gigli  e  rose 
Sol  de  le  doline  i  volti 

il  che  non  direbbe  se,  non  una  donna  vera  od  immagi- 
naria, ma  la  famiglia  benedettina  simboleggiasse. 

Nei  capiversi  delle  sette  stanze,  delle  quali  è  com- 
posta la  canzone,  ripete  sette  volte  il   nome  di  Jtbstina. 

Si  ha  poi  un  breve  capitolo  di  Clio,  che  porta  il 
titolo  •  Centro  di  questo  Caos^  detto  Labirinto.  E  il  Caos 
o  Labirinto  di  Clio  non  è  altro  che  la  vita  umana,  o 
meglio  la  follia  grande  di  coloro  che 

.  .  .  m  terra  stando,  V  animo  da  terra 
Non  leva  al  del 


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LXVII    — 

ma  nelle  cose  terrestri,  e  nel  godimento  loro  vie  più  si 
ingolfa,  nel  quale  poi  trova  la  sua  punizione. 

Enti-a  poi  in  scena  Triperuno  con  due  capitoli  in 
ottava  rima.  Egli,  vinto  del  canto  di  Limemo,  si  per- 
suade di  abbandonare  il  maestro  Merlino  e  la  sua  vita 
epicurea  e  di  darsi  tutto  alla  poesia  ed  allo  spiritualismo 
di  Limerno,  e  questi  di  buon  grado  accogliendolo,  gli 
ordina  di  gettarsi  nel  rivo  che  bagna  la  regione,  di  la- 
varvisi  bene,  dopo  di  che  è  presentato  da  Limemo  alla 
regina  di  Matotta,  Venere,  la  quale  dallo  stuolo  delle  sue 
Ninfe,  ne  sceglie  una  di  sedici  anni,  bellissima,  Galanta, 
e  gliela  dà  per  amante,  o  dea,  ordinandogli  di  amarla  e 
di  cantarne  i  pregi. 

Ma  questo  amore  gli  cagiona  poi  infiniti  affanni,  e 
tormenti 

Tal  die  U  mio  dolce  al  fin  divenne  amaro. 

per  opera  di  una  Laura,  che  dice  poi  non  essere  che 
una  Larva,  invidiosa  del  loro  amore,  la  quale  tanto  fa 
che  Triperuno  ne  diviene  infelicissimo,  e  contro  di  co- 
testa  Laura  e  delle  sue  male  arti,  detta  il  sonetto  che 
è  dopo  il  capitolo. 

I  due  capitoli  di  Triperuno  hanno  nei  loro  capiversi 
questo  altro  anagramma  in  due  distici, 

Sueverat,  obstricto  lauro  cellisque  remotiSy 

Occultata  urbis  litibus  esse  procul 
At  nunCy  inflato  incedit  Justina  cuculio^ 

Atque  gateratis  optai  inesse  Tognis, 

il  quale,  anagramma  alludendo  ai  disordini  dei  bene- 
dettini e  forse  a  quelli  del  chiostro  di  Padova,  e  al  tra- 
viamento  dei  boni  costumi,  galeratis  optai  inesse  Tognis^ 


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LXVIII    

ci  fa  credere  che  in  Galanta  si  adombri  Tordine  dei  be- 
nedettini, e  nella  Laura  che  corrompe  la  felicità  di  Tri- 
peruno  per  Galanta,  lo  Squarcialupi. 

Dopo  ciò  è  lodata  e  cantata  un  altra  donna,  e  que- 
sta una  donna  vera,  Gironima  Dieda,  poi  Caterina  moglie 
di  Roberto  Delle  Rovere,  uccisa  dal  marito,  alla  quale 
Tripenino  aveva  mandato  un  sonetto,  che  accompagnava 
il  dono  di  un  paia  di  guanti. 

Nel  Dialogo,  a  pag.  127,  Triperuno  e  Limemo  parhmo 
ancora  delle  male  arti  di  Laura,  però  Triperuno  è  con- 
fortato da  Limerno  che  non  perderà  mai  l'amore  di  Ga- 
lanta. Limerno  ammonisce  Triperuno  di  essere  stato  im- 
prudente a  scrivere  quello  che  ha  scritto,  e  d' ora  in  poi 
di  non  fare  nulla  senza  il  di  lui  consiglio,  infine  Limerno 
invita  Triperuno  a  sentire  quattro  sonetti  da  lui  com- 
►^^  posti  sulle  carte  da  giuoco. 

''  Il  terzo  sonetto  contiene  una  acerba  invettiva    con- 

tro il  Papa,  che  forse  è  Clemente  VII  e  V  imperatore 
Carlo  V,  perchè  invece  che  contro  il  turco,  V  imperiale 
furore  è  rivolto  contro  Francia,  e  la  chiesa  è  governata 
da  una  donna,  Marcin. 

Questo  sonetto  come  dissi,  nella  prima  edizione  ha 
molte  lacune,  che  ne  tolgono  il  senso,  ma  è  completo 
nella  seconda. 

Dopo  ciò  i  due  personaggi,  mettendosi  a  confabu- 
lare tra  loro,  con  lieta  sorpresa,  pag.  133,  veggono  Ta- 
nacoreta   Fulica,  che  lasciata  Perissa,  veniva  in  Matotta. 

Nella  fine  del  dialogo,  pag.  134,  Fulica  dichiara 
che  le  tre  regioni  Carossa,  Matotta  e  Perissa  non  sono 
che  un  labirinto  di  errori,  e  che  lui  stesso  per  conto 
suo  ha  riconosciuto  essere  una  vera  sciocchezza  e  super- 
stizia  il  radersi  il  capo,  portare  cilicio. 

L' entrata  di  Fulica  in  Matotta.  è  cagione  di  un 
nuovo  capitolo  detto  \  Asinaria^  perchè  vi  introduce  un 
asino  a  parlare. 


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—     LXIX    

Precede  un  Dialogo  fra  i  tre  personaggi,  Fulica, 
Limerno,  Triperunq. 

Fulica  in  una  sua  parlata  dice  che  dopo  di  essersi 
dato  allo  studio  della  filosofia  naturale,  e  a  cercare  le 
proprietà  delle  cose  non  ebbe  pii\  l'animo  tranquillo  e 
quieto,  ma  conturbato  da  incertezze  e  dubbi.  Vede  una 
contradizione  tra  il  risultato  dei  suoi  studii  e  i  decreti 
pontificii,  gli  insegnamenti  dei  moderni  dottori  in  teolo- 
gia, nemici  della  vera  fede  e  della  dottrina  dei  padri 
della  chiesa.  E  ciò  è  V  origine  sì  delle  sette  che  del- 
l' incredulità. 

Parla  poscia  il  mistico  asino,  il  quale  si  scaglia 
contro  coloro  che  prestano  troppo  facile  fede  a  visioni, 
e  racconti,  poiché  generano  Terrore  e  la  superstizione, 
in  quella  guisa  che  la  credulità  grande  di  Adamo  nel 
sei-pente  portò  la  rovina  morale  nel  genere  umano. 

Dopo  una  breve  interruzione,  lasino  ripiglia  a  par- 
lare e  si  propone  di  dimostrare  ai  compagni  che  il  mondo 
esteriore  non  è  iena  vana  specie j  ma  una  realtà.  Am- 
mette il  libero  arbitrio  umano,  lordinamento  ad  un  dato 
fine  delle  cose  e  delle  esistenze,  e  questo  ordinamento 
lo  confonde  colla  proprietà  dei  corpi,  alcune  delle  quali 
egli  le  ritiene  assolute,  contro  la  giusta  opinione  di  altri 
che  le  dicevano  relative,  o  non  esistenti,  come  il  colore, 
il  sapore,  il  calorico,  Ammette  esattamente  il  peso  dei  • 
corpi. 

Così  pure  è  nel  vero  soltanto  in  parte  quando  as- 
serisce che  la  proprietà  dei  corpi  sono  indipendenti  dalle 
nostre  opinioni,  vale  a  dire  quando  si  tratta  della  pro- 
prietà assoluta,  come  il  peso,  il  volume  eco,  ma  non  delle 
altre  che  ho  enumerate  che  egli  metteva  a  pari  di 
queste. 

Dal    libero    arbitrio    umano    cava   il   libero    arbitrio  ^'^ 

assoluto  di  Dio,  e  da  questo  l'onnipotenza  e  Tonniscienza. 


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—   LXX   

Finisce  la  sua  disertazione  eoli' ammettere  possibile 
che  si  ripeta  un  fatto  già  accaduto  neir  ordine  fisico  e 
morale. 

Le  cognizioni  delle  scienze  fisiche  e  naturali,  o  come 
si  diceva  allora,  e  lo  dice  il  Folengo  stesso,  della  filo- 
sofia naturale,  non  erano  molte,  ma  i  concetti  suoi  erano 
esatti  per  la  massima  parte.  Di  ciò  conviene  fargli  un 
merito  non  piccolo,  mentre  della  sua  scarsa  scienza  non 
si  può  fargli  alcun  biasimo,  poiché  egli  se  non  ne  sa- 
peva di  più,  non  ne  sapeva  neanche  di  meno  di  quello 
che  allora  se  ne  conoscesse  generalmente  dai  dotti  d'al- 
lora intorno  a  cotesta  materia.  E  dico  dotti,  perchè  di 
scienziati  veri  non  se  ne  avevano.  Quegli  ingegni  che 
non  si  erano  dati  alle  lettere,  od  alla  filosofia,  propria- 
mente detta,  e  che  si  applicavano  allo  studio  della  natura 
e  delle  sue  leggi,  vagavano  nell'incerto  e  nell'indeter- 
minato. Non  vi  era  principio  matematicamente  determi- 
nato. Si  professavano  le  più  opposte  ipotesi  sull'esistenza 
dei  corpi  e  sulle  loro  proprietà,  confondendo  spesso 
queste  coi  loro  effetti,  od  ammettendo  come  proprietà 
ciò  che  non  era  che  l' effetto  di  una  nostra  particolare 
sensazione,  come  è  a  dirsi  dei  sapori.  E  sebbene  il  Fo- 
lengo nel  Baldo  e  nel  Caos  faccia  conoscere  di  avere 
seriamente  studiato  le  scienze  naturali  ed  astronomiche, 
percui  si  intende  avere  egli  appreso  quanto  allora  se  ne 
sapeva,  non. solo,  ma  di  avere  anche  rifiutati  non  pochi 
errori,  ammessi  come  verità  e  di  essersi  appalesato  con 
ciò  ingegno  robusto  ed  indagatore,  di  avere  le  qualità 
necessarie  di  divenire  un  distinto  scienziato,  se  fosse  vis- 
suto in  altri  tempi,  nei  nosti'i,  a  modo  di  esempio,  cio- 
nonostante paga  il  suo  tributo  ai  tempi  suoi  che  in  ta- 
lune cose  non  distinguevano  il  puerile  dal  serio,  e  lo 
paga  specialmente  nel  capitolo  a  pag,  188,  di  Triperuno 
solOj  nel  quale  parla  delle  api  e  delle  formiche. 


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"^Sf" 


—    LXXI   

È  un  vero  idillio  georgico  grazioso  assai,  ma  scien- 
tificamente non  è  molto  serio,  mentile  il  Folengo  lo  cre- 
dette, e  allora  lo  era  di  sicm'o,  scientificamente  impor- 
tante. 

Fulica,  nel  viaggio  da  Perissa  a  Matotta,  secondo  le 
regole  monastiche,  era  accompagnato  da  altro  frate,  il 
nome  del  quale,  Liberato,  era  simbolo  di  quella  riabili- 
tazione morale,  che  lo  doveva  restituire  al  chiostro.  E  di 
questa  riabilitazione  ne  era  altresì  un  simbolo,  T  abban- 
dono di  Carossa  per  parte  di  Merlino  e  Triperuno,  la 
loro  venuta,  e  quella  anche  di  Fulica,  accompagnato  da 
Liberato,  in  Matotta.  Fulica,  poi,  lo  presagisce  aperta- 
mente a  Triperuno,   pag.  147 annuTizioti  che  in 

breve  cangerai  vita  e  costumi  in  assai  migliore  stato. 

Nel  capitolo  in  prosa  di  Fulica,  pag.  150,  l'asino  si 
fa  ad  inveire  acerbamente  contro  il  fasto,  la  superbia  ed 
i  corrotti  costumi  dei  grandi  prelati,  indamo  ammonito 
da  Liberato  ad  essere  prudente  e  guardingo  nel  parlare, 
poiché  potrebbe  essere  vittima  di  vendette  per  parte 
degli  oflfesi. 

Canta  Triperuno,  nell'ultimo  capitolo  della  Selva,  le 
vicende  fatali  della  sua  Galanta. 

Egli  era  per  accompagnare  il  vecchio  horu)^  Fulica, 
nell'  ascesa  di  un  poggio,  quando  il  suo  orecchio  è  cru- 
delmente colpito  da  grida  di  dolore  e  si  vede  passare 
avanti  correndo,  scarmigliata,  una  vaghissima  donzella,  la 
sua  Galanta,  inseguita  dalla  vecchia  Laura,  o  meglio 
Lai'va 

Rompea  la  meschina  Vaere  intorno. 
Con  alte  strida  e  son  di  petto  e  muni. 

Egli  la  vede  giugnere   nel   fondo  di  un   vallone,    e 


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LXXII    

quivi,    con   sua   dolorosissima   sorpresa,   la  scorge,   d'un 
tratto,  mutarsi 

^*  '  In  ima  plcciol  fonna  di  Mastella^ 

ed  indi 

Ramparsi  lungo  al  fusto  di  un  sambuco 

Lam-a  allora  abbandona  la  sua  preda,    e  Triperuno    che, 
^  non  visto  era  stato  presente  alla  scena  straziante    .... 

:  *  nel  folto  di  una  macchia^  ne  esce    e  va    appresso  a    Ga- 

^  lauta,  tramutata  in  Mustella,  la  chiama,  la  raccoglie    nel 

'i  suo  seno,  e  con  essa,  fugge  in  Perissa,  e  si  ricovera 

In  una  grolla  sol  per  fiere  usata, 

nella   quale   dice  di  vivere  molti  anni,  senza  mutarsi    di 
abito,  curare  la  nettezza  della  persona  e  di 

\ 

i  Nudrirsi  d'  erbe,  more,  fraghe  e  giande, 

--  Destarsi  a  mez-zanotte  e  macerarsi 

Il  corpo  già  omicida  di  se  slesso. 
Corcarsi  sulle  frondi,  o  in  len'a  nuda, 
Aì^ecarsi  a  gran  merlo  il  gire  scalzo, 
Vender  se  stesso  ad  allibi,  non  avere 

Il  proprio  arbitrio 

Alfin,  essendo  sotto  V  altrui  voglia 
Tolta  mi  fu  la  mia  dolce  Galania. 

Il  quadro  è  tetro  ed  il  senso  non  meno  oscuro;  ad 

ogni  modo    avendo    precedentemente    creduto    di    ricono- 

V^^  scere  in  Galanta  lordine  dei  Benedettini,  morale,    santo, 

panni,  che  qui  l'ipotesi  resti  confermata, 
j  Galanta  è  data,  dalla   grande    regina  del   bello,  per 

]  amante  al  Folengo,  nell'età  di  sedici  anni,  e  sedici    anni 


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LXXIII    

dice  egli  che  aveva  allorché  si  fece  frate.  Galanta  è  l'ideale 
del  suo  amore  ed  a  questo  amore  egli  consacra  se  stesso. 
Ma  la  bellissima  giovane  è  spietatamente  perseguitata  e 
crudelmente  flagellata  da  una  Laura,  o  Larva,  finché  sotto 
l'impero  di  una  tale  persecuzione  si  tramuta  in  una  gen- 
tile Mustella  e  r^tta  si  arrampica  sopra  una  pianta  di 
sambuco. 

In  questa  metamorfosi  il  Folengo  non  perde  Tamore 
della  sua  amata,  che  anzi  raccoltala  nel  suo  seno,  amo- 
rosamente ve  la  tiene  custodita  e  curata  per  molti  anni, 
n  che  mi  sembra  che  voglia  dire  che  lasciato  il  chiostro, 
non  si  smarrisce  da  lui  V  amore  alla  famiglia  religiosa, 
ma  che  lo  conserva  caldo  ed  intatto  anche  nella  vita 
avventurosa.  E  questo  senso  è  confermato  da  versi  che 
si  leggono  più  avanti 

Vivendo  sempre,  tanto  2^icinsi  ed  arsi, 
Arsi  di  amore  e  2^i^f^isi  di  dolore. 

La  Laura,  o  Larva^  poi,  e  ce  lo  dice  il  Folengo  stesso, 
non  è  che  lo  Squarcialupi,  il  quale,  alla  pur  fine  ottiene 
il  suo  intento,  lo  scopo  delle  sue  arti  malvagie,  la  di- 
gnità suprema  dell'ordine  religioso  e 

Laura  qui  ottenne  il  seggio 


e    allora  ogni  sorta   di  animali  rapaci  ed  immondi  riem- 
j^ie  i  mistici  boschi,  cioè  i  chiostri  dei  benedettini 

,  .  boschi  e  selve 

Monti,  valli,  spelonche,  fiuìni  e  stagni, 

E  Galanta  diviene  in  fine  preda  di  altri  mentre  il  Folengo 

7iel  pili  profondo 

Età  del  Caos,  centro  e  labirinto, 


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i. 


LXXIV 


cioè  durante  la  vita  avventurosa.  Chi  ebbe  la  gentile 
Mustella  fu  Grifalcone,  colui  che  è  Foggetto  dei  versi  del 
frontispizio  della  terza  Selva,  il  quale  fa  morire  di  morte 
misteriosa  la  gentile  bestiola  : 


to^ 


Ella  moì-ì  chiamando  Triperuno^ 

il  quale,  fatto  fare  un  bellissimo  vaso  di  alabastro,  vi 
compone  entro  il  corpicino  della  morte. 

Questa  interpretazione  poi  viene  confermata  dai  ca- 
piversi  del  capitolo,  i  quali  costituiscono  una  acerba  in- 
vettiva contro  lo  Squarcialupi,  che  viene  qualificato  di- 
struttore dell'ordine  benedettino. 

Egnatius  Sqitarcialupus  destructor  religionis  divi  Be- 
nedicti,  Laure  sihi  nomeìi  veìidicavit  At  Larvam  illum 
appellandum  esse  censemtis. 

Del  significato,  quindi,  della  allegoria,  non  vi  ha 
alcun  dubbio,  od  incertezza. 

Lo  Squarcialupi  è  la  Laura,  o  meglio  Larva,  fu- 
nesta a  Galanta  ed  a  Triperuno.  La  prima  ne  ha  la 
metamorfosi  e  la  morte,  il  secondo  mille  affanni  ed  av- 
venture dolorose,  adombrate  nei  versi  che  ho  riportati 
precedentemente. 

Morta  Mustella,  e  deposta  nel  bel  vaso,  Grifalcone, 
Fulica,  Merlino,  Limerno,  un  Paolo  F.  forse  Paolo  Or- 
sini, figlio,  un  Marco  C.  un  Isidoro  C.  forse  Isidoro 
Chiarino,  nominato  nel  dialogo  a  pag.  124,  compongono 
diversi  epitaffii  sul  tumulo  di  Galanta. 

Alla  morte  di  Galanta,  si  trovano  quindi  in  Perissa 
con  Triperuno,  anche  Merlino,  Limerno,  e  Fulica,  in 
quale  maniera  il  Folengo  non  dice,  ma  tutti  concordi  vi 
compongono  gli  epitaffii  in  lode  e  compianto  di  Galanta 
e  ciò  conferma  quel  senso  che  ripetutamente  ho  dato  ;  che 
il  Folengo  nei  diversi  aspetti,  coi  quali  si  presenta,  mediante 
le  sue  opere,  nonostante  le  apparenze  in  contrario,  resta 


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LXXV   

sempre  morale.  Merlino  non  lo  è  meno  di  Limemo  e  di 
Fulica,  e  Triperuno,  ma  tutti  in  modo  eguale.  E  Tripe- 
iTino  infine,  a  conferma  di  ciò,  chiude  con  una  confes- 
sione a  Dio,  in  esametri,  nella  quale  chiede  perdono  per 
tutto  ciò  che  VI  può  essere  di  riprovevole  nelle  sue  opere 
maccheroniche  -  volumen  nugarum  -  deplorando  di  avere 
passata  la  miglior  parte  della  vita,  quella  della  giovi- 
nezza, nel  comporre  opere  futili  e  non  serie. 

Resta  però  sempre  un  enigma  il  quadi'o  della  vita 
affannosa  ed  aspra  che  egli  conduce,  per  mesi  ed  anni 
molti  in  Perissa.  Né  pia  chiaro  riesce  il  rapimento  di 
Mu stella,  e  la  sua  uccisione  fatta  da  Grifalcone,  che  la 
strinse  tra  Fuscio  e  il  muro^  e  l'amicizia  e  la  stima  che, 
ciò  nonostante,  il  Folengo  conserva  a  Grifalcone. 

È  un  punto  cotesto  del  quale  non  so  fare  alcun 
commento. 

3.  Il  Centro  del  Caos  è  indicato  dallo  stesso  Fo- 
lengo e  principia  colla  canzone  di  Clio,  pag.  116  ed  è 
costituito  della  riunione  in  Matotta  dei  quattro  personaggi 
Merlino,  Limerno,  Fulica  e  Triperuno,  della  esposizione 
dei  loro  sentimenti  e  delF  allegorico  amore  di  Triperuno 
per  Galanta,  e  giugne  sino  a  pag.  151,  alla  canzone  di 
Triperuno,  nella  quale  è  narrata  la  morte  di  Galanta. 

Questa  canzone,  e  quindi  la  morte  di  Galanta,  costi- 
tuisce la  fine  del  Caos,  che  ha  per  corrolario  la  serie 
degli  epitaffi  posti  sulla  di  lei  tomba.  La  Selva  terza, 
come  quella  che  narra  il  risorgimento  morale,  sociale  del 
Folengo  esce  dal  Caos  propriamente  detto  e  fa  parte  da  se. 

Il  Folengo  chiama  questa  parte  Centro,  perchè  real- 
mente in  essa  vengono  esposte,  in  veste  mistica  ed  alle- 
legoiica,  le  fasi  morali  sue  per  le  quali  è  passato  dal- 
l' abbandono  del  chiostro  sino  al  ravvedimento.  È  per  lui 
queiromdo  Caos  nel  quale  era  precipitato  e  dal  quale 
era  ben  determinato  di  uscire. 


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LXXVI    — 

Ma  è  anche  il  eentro  del  libro,  perchè  in  esso  l'au- 
tore ha  fatto  convergere,  come  in  un  centro  luminoso, 
la  manifestazione  di  tutte  coleste  vicende  morali  e  perso- 
nali, r  esposizione  di  quella  fiera  hattaglia,  che  in  lui  si 
combatteva,  tra  la  fede  nel  sopranaturale  i  lenocinii  della 
filosofìa  naturale,  che  lo  attiravano  al  razionalismo. 

Dall'  esame  attento  che  ho  ftitto  di  cotesta  parte 
principale  del  libro,  dalla  qunle,  a  detta  del  Folengo  stesso, 
secondo  quel  verso,  che  riportai  a  pag.  lx  che  sperava 
dir  chiaro  senza  alcun  rirj/tanìo^  pareva  che  si  dovessero 
conoscere  tante  cose  intorno  a  lui,  ed  avere  la  spiega- 
zione netta  e  chiara  dei  misteriosi  fatti  clic  gli  sono  at- 
tribuiti, ben  poco  ne  potei  cavare. 

Questo  chiaro  che  voleva  esporre  klla  luce  del  sole, 
perciò  che  riguarda  le  sue  personali  vicende,  lo  tenne 
gelosamente  e  costantemente  nascosto,  e  quindi  nulla  di 
nulla  di  concreto  si  viene  a  sapere  di  lui. 

Dei  presunti  suoi  amori  non  si  scopre  di  più,  che 
anzi  sembra,  e  lo  dissi  anche,  ripetutamente  nella  prefa- 
zione ai  primi  due  volumi,  che  si  debbano  escludere  af- 
fatto. 

Il  solo  fatto  che  ci  fa  conoscere  di  lui  si  è  che  egli 
abbandonò  il  chiostro  per  causa  dello  Squarcialupi,  ma 
le  cagioni  non  ce  le  dice,  cosi  pure,  mentre  sono  acerbi, 
gli  anagrammi  e  parecchi  contro  di  cotesto  personaggio, 
per  i  disordini  che  cagionò  nella  grande  famiglia  be- 
nedettina, non  ci  appalesa  poi  nulla  di  concreto  su  que- 
sto argomento,  soltanto  dice  che  quei  disordini  nacquero 
per  le  leggi  nuove  che  lo  Squarcialupi  introdusse  in 
pregiudizio  delle  vecchie  costituzioni. 

Da  ciò  ne  consegue  che  il  Folengo,  avendo  voluta 
esclusa  la  parte  biografica  dalla  Selva  seconda,  questa 
non  abbia  che  un  carattere  morale  e  che  sia  quindi  da 
considerarla  solamente  sotto  di  questo  aspetto. 


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LXXVII    — 

Il  volervi  ravvisare  un  carattere  diverso,  il  biogra- 
fico, e  tutto  al  piti  questo  misto  al  morale,  non  si  fa- 
rebbe altro  che  far  traviare  il  giudizio  e  quindi  ritenerla 
una  composizione  mancante  del  suo  vero  scopo,  e  non 
vedervi  quei  pregi  non  comuni,  che  in  realtà  possiede 
nel  rapporto  letterario,  d'invenzione,  e  di  esposizione, 
i  quali  pregi  si  appaleserebbero  assai  pifci  di  quello  che  per 
avventura  si  scorgono  ora,  se  del  Folengo  si  conoscesse 
bene  quella  vita  morale,  che  egli  ci  ha  voluto  dipingere, 
ora  misticamente,  ora  allegoricamente  in  questa  Selva. 
L'azione  dei  personaggi  la  si  intenderebbe  meglio,  così 
pure  lo  svolgimento  dei  pensieri,  dei  concetti  e  la  loro 
ragione. 

In  questa  Selva  abbiamo  un  dramma  psichico,  nel 
quale  agiscono  non  personaggi  veri  ma  allegorici,  i  quali 
rappresentano,  ognuno,  una  forza  morale,  e  quindi  eser- 
citano un'azione  conforme  a  questa  forza.  Ma  tutta  l'a- 
bilità del  Folengo  nelFideare  e  mettere  assieme  codesto 
dramma  in  parte  solo  possiamo  intenderla,  per  la  ragione 
suddetta  che  non  sappiamo  le  ragioni  intime  dell'azione 
dei  diversi  personaggi,  come  del  pari  non  possiamo  co- 
noscere la  sua  potenza  drammatica  dell'Atto  della  Pinta, 
del  quale  forse  questa  Selva  non  è  che  il  preludio,  poiché 
non  se  ne  possiede  che  uno  schema. 

Allorché  conosceremo  cotesta  vita  intima  del  Fo- 
lengo saremo  anche  in  grado  di  fare  un  esame  critico 
oggettivo  del  Caos,  specialmente  di  questa  Selva  seconda, 
che  né  è  la  parte  principale,  vedremo  allora  e  intende- 
remo tutto  il  valore,  nei  suoi  diversi  aspetti  di  questa 
bizzarra,  ma  ardita,  poetica  composizione,  nella  quale  ha 
drammatizzato  le  sue  tendenze,  le  sue  passioni,  le  sue 
aberrazioni,  le  sue  buone  qualità,  le  sue  virtfi.  Un  qua- 
lunque studio  critico,  nello  stato  attuale,  non  sarebbe  che 
soggettivo  e  quindi  privo  di  ogni  serietà. 


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—  L3ncvin  — 

VI. 

>  DEL    e AO  S . 

Della  Selva  terza. 

L'interpretazione  della  terza  Selva  non  presenta   la 

difficoltà  della  seconda  e  nemmeno  della  prima,    giacché 

il  commento  delle  tre  donne  è  sostanzialmente  lo  stesso, 

i   -  ed  apertamente  dichiarato.  È  Cristo  che,   mosso   a   com- 

f  passione  delle  aberrazioni  del  Folengo,   si   determina    di 

\  trarlo  sulla  buona  via  e  a  tale  intento  gli  apparisce  e  lo 

ammonisce  di  ravvedersi  dei  suoi  errori. 

Francesco  Grifalcone,  al  quale  è   dedicata   la  Selva 
terza,    il   custode    e   l' autore   della  morte   misteriosa    di 
Galanta,   è   un   personaggio  che  mi  è  affatto  ignoto.  In- 
significaaite  poi   all' argomento   del   Caos  è    il  madrigale, 
_^  lo  chiamerò  cosi,  di  dedica  allo  stesso  Grifalcone,  posto  nel 

frontespizio,  poiché  non  fa  che  descrivere  i  capricci  della 
fortuna  nella  vicende  umane;  al  contrario  ha  un  signifi- 
cato preciso  e  chiaro  il  sonetto  che  è  nella  pagina  se- 
guente, come  quello  che  accenna  al  risorgimento  morale 
del  Folengo, 


Or  sbiwo  già  qual  nottula  di  tomba. 

È  un  grazioso  preludio  al  significato  ed  allo  scopo 
di  cotesta  Selva. 

Nella  prefazione,  in  prosa,  che  viene  dopo,  torna 
ancora  a  ribadire  i  tre  sensi  della  Selva,  messi  in  bocca 
alle  tre  donne,  ma  in  maniera  che  bene  si  intende  come 
egli  miri  a  che  il  lettore  dei  tre  ne  faccia  uno  solo,  nella 
quale  unione  sta  intero  il  pensiero  suo  recondito. 


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f 


LXXIX   

Nelle  prime  due  canzoni,  in  ottava  rima,  Triperimo 
espone  le  aben*azioni  sue,  e  il  suo  ravvedimento,  Nel- 
r  altra  canzone,  pag.  169,  Figlio  al  Padre^  espone  la 
dottrina  cattolica  della  Trinità,  dei  destini  dell'  uomo  nel 
mondo  e  in  cielo,  a  seconda  della  via  che  sceglie,  in  forza 
del  suo  libero  arbitrio. 

Sebbene  il  titolo  del  capitolo  sia  -  Figlio  al  Padre^ 
pure  esso  è  invece  una  parlata  del  Padre  al  Figlio,  cioè 
di  Cristo  a  Triperuno,  il  quale  ne  riceve  nell'animo  tanta 
impressione,  che  nella  seguente  canzone  esprime  sensi 
di  gratitudine  e  di  ravvedimento. 

Segue  un  dialogo,  in  versi  tra  Cristo  e  Triperuno. 

Per  primo  Cristo  si  rivolge  a  Triperuno,  dolcemente 
lo  rimprovera  del  misero  stato  in  cui  sé  messo: 

Or  vengo  a  liberarti,  spera  e  credi 

gli  dice;   gli   ofiFre   la  pace   e  l'amore   suo,  a  patto  che 
doni  se  stesso  a  lui. 

Dopo  una  gara  di  consigli  e  di  moniti  per  parte  di 
Cristo,  di  promesse  per  parte  di  Triperuno,  questi  finisce 
colla  più  completa  sottomissione  e  col  donare  tutto  se 
stesso  a  Cristo 

Ecco  vi  dono  il  cor,  abbiate  7  sempre 

Chiude  cotesto  idillio  religioso  una  parlata  di  Talia, 
pag.  177,  nella  quale  ammonisce  l'uomo  che  non  nello 
studio  dei  greci  filosofi  si  trova  il  vero  e  la  quiete  del- 
l' intelletto^  ma  in  Cristo  soltanto  -  Al  sol  del  sole  .... 
fonte  della  vera  scienza  e  del  vero  amore  per  l'uomo. 

In  questa  maniera  il  ravvedimento  è  compiuto,  Tri- 
peruno rientra  per  quella  via,  che  egli  deplora  di  avere 
abbandonata,  donde  gli  vennero  tanti  malanni,  eiTori  ed 
aberrazioni,  cosicché  la  parte  che  segue  della  Selva,  egli 
r  intitola  -  Dissoluzione  del  Caos, 


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I?5^ 


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V 

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LXXX 


Partesi  Cristo,  così  espone   Tripernno,   pag.    178,    e 

U  nel  partire  sente   un   grande    suono,    come    di    cosa    che 

Ik  scoppia,    ed    è    tutto    cpianto   T  edificio    scientifico    che   il 

'  Folengo  si  aveva  costrutto,  e  che  gli  impediva  di  vedere 

•t,  il  sole  della  verità;  ma  rotto  l'incanto,  egli  lo  vede  distin- 

\\:  tamente    ed  ode    anche  le  di  lui  parole  che   lo    scongiu- 

i"^.  rano    di    non   abbandonare   mai   la   vista  di  Dio,  di  non 

l'/  too^lier«:li  il  suo  amore  nello  studio  della  natura. 

\*  OD 

[  Triperuno  che   accetta   grato   gli    ammonimenti    del 

►  '  sole  si  incontra  poi  nella  madre  Natura 


Mi  si  presenta  ralla  in  bella  goyinay 
Che  escie  d'  un  bosco  sola  e  grave  donna. 

colla  quale  ha  un  lungo  dialogo  in  poesia,  di  forma  di- 
versa, nel  quale  la  Natura  gli  ripete  gli  ammonimenti  del 
Sole  di  non  lasciarsi  più  traviare  nello  studio  delle 
scienze  naturali,  in  modo  da  perdere  la  fede 

Non  sia  che  alcun  scopo  mai  V  induca 
Bel  arbore  vietato  ancora  al  fruito 

e  il  Folengo  promette  che  questo  non  accadrà  più,  giac- 
ché dice 

Il  cor  a  lui  già  diedi  e  ogni  affetto 
Ho  di  seguir  e  non  lasciaìio  unquanco. 

In  questo  dialogo,  il  Folengo  ripetutamente  pai-la 
della  sferacità  della  terra,  dal  che  si  capisce  come  egli 
ne  fosse  ben  convinto. 

Partesi  la  visione  ed  il  Folengo  ne  rimane  tutto 
confortato,  per  cui  facendosi  ad  esaminare  la  natm-a  dei 
piccoli  animali,  come  il  ragno,  che  tesse  la  sua  tela  stu- 
penda, la  fomìica  così  previdente,  e  più  di  tutto  Tape 
così  industriosa,  l'organizzazione  del  suo  corpicino,  della 


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LXXXI    — 

famiglia  sua,  a  monarcliia,  le  leggi  che  la  governano, 
ne  trae  argomento  non  gik  di  insuperbirsi,  come  in  pas- 
sato, ma  per  attribuire  a  Dìo  il  merito  di  avere  concessi 
a  cotesti  piccoli  animali  si  belle  doti,  che  li  pongano  in 
grado  di  governarsi  e  mantenersi. 

Si  chiude  la  Selva  con  due  capitoli  di  Triperuno,  ed 
un'altro  intitolato  -  La  Porta  -  e  queste  tre  composi- 
zioni portono  il  titolo  di  Paradiso  terrestre. 

Nel  primo  narrata  la  caduta  degli  Angeli  per  la 
loro  superbia,  dice  come  l'arcangelo  Michele  discendendo 
in  terra  vi  costruisce  un  Paradiso  terrestre,  su  di  un  al- 
tissimo monte,  nel  quale  regna  sovrano  il  nome  di  Gesù. 
Condotto  nel  meraviglioso  luogo,  serrato  da  quadrata 
cinta,  trova  sulla  porta  di  ingresso  una  scritta  dipin- 
tavi dai  due  angeli  Michele  e  RaflPaelo,  che  lo  invita  ad 
entrare  per  stare  sommesso  a  Dio,  di  frenare  la  super- 
bia, di  non  stendere  più,  come  fece  altre  volte,  la  mano 
ad  uno  dei  due  pomi  vietati. 

Entra  quindi  nel  luogo  santo,  e  ne  ammira  la  somma 
beltà  ed  i  preziosi  ornamenti,  ne  ode  le  sacre  annonie, 
ne  vede  i  felici  trastulli,  ed  in  fine. 

Quivi  onoratamente  fui  raccolto 
Da  due  barbati  e  candidi  recchioni, 

Enoch  ed  Eliseo,  seguendo  i  quali  ed  accompagnato 
da  uno  stuolo  innumerevole  di  angioletti,  che  suonano, 
cantano  e  ballano,  entra  in  una  stanza  quadrata  del  mi- 
stico palazzo,  nel  mezzo  della  quale  trovasi  la  serpe,  dal 
viso  umano,  seduttrice  degli  uomini,  che  cagiona  la  morte 
a  tutti  coloro  che  si  lasciano  vincere  dalle  sue  male  arti, 
come  fece  lui,  finché  ne  è  ravvivato  dal  mistico  pane,  il 
pane  eucaristico,  che  lo  fece  ritornare  alla  grazia  di  Dio 
e  al  quale  scioglie  un  inno  entusiastico. 


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mm 


LXXXII    


i.  Nelle  ultime  due  sfcinze  del    capitolo,  colle   quali  si 

8^  chiude  anche  il  Caos  ripete  la  promessa,  già  fatta  a  pa- 

fe  gina  167,  di  scrivere  un  libro,  intorno  a  Cristo  come  già 

^'  '  lo  scrisse,  portante  il  titolo:  L'umanità  dei  figliuoli  di  Dio^ 

g":,  ,  vale  a  dire  su  quello    stesso  punto   della   fede   cattolica, 

E;  sul  quale  aveva  vacillato,  ora   che   illuminato   da   raggio 

celeste,  la  sua  mente  vede  chiaro  ciò  di  cui   prima    non 

sapeva  persuadersi,  ed  è 

Non  più  Merlino,  Fulica  e  lAmeìnio 
ma  sol  Triperuno 

giacché  egli  ha  esperimentato  a  proprio  costo  quanto 

inganna/o  al  fin  si  troica 

Chi  lascia  la  via  vecchia  per  la  nova. 

Il  sacro  recinto  nel  quale  entra,  invitatovi  da  Cristo 
e  nel  quale  colla  comunione  eucaristica.  Tatto  pih  sublime 
della  credenza  cattolica,  consacra  la  sua  sommissione  in- 
tera alla  fede,  simboleggia  la  Fede  dalla  quale  si  era 
distaccato,  ma  forse  anche  l'ordine  dei  benedettini,  al 
quale,  in  questa  maniera,  preludia  il  ritorno. 

Come  compimento  ed  ultima  prova  della  sincerità 
^-^  della  sua  professione  di  fede,  in  due    esametri,    compose 

un  limo  a  queirurna  d'oro  la  quale  ha  la  fortuna  di  rac- 
chiudere r  f^ucaristia. 

Seguono  tre  epigrammi  latini,  con  anagrammi,  un 
sonetto  in  lode  di  Alberto  da  Carpi,  ed  una  lettera,  in 
prosa  italiana,  contro  un  altro  Alberto  da  Carpi,  uno  dei 
detrattori,  le  quali  composizioni  sono  estranee  al  Ca^s, 


11»    .   .-:.  Digitized  by  VjOOQiC 


J 


LXXXIII    — 


VII. 


DEL  CAOS 


Il  costrutto    del   Caos. 


n  Folengo,  che  si  propose  di  esporre  nel  Caos  le 
fasi  diverse  morali  e  religiose,  ed  in  parte  anche  le  vi- 
cende personali,  per  le  quali  è  passato  nel  periodo  della 
sua  vita  avventurosa,  onde  provare  che  le  acuse  che  gli 
facevano  di  non  religioso  e  naorale  per  avere  scritto  le 
opere  maccheroniche,  non  erano  giuste  e  che  egli  si  era 
ravveduto  di  quegli  errori,  nei  quali  realmente  era  caduto, 
e  li  confessa  lui  stesso,  nell'  intendimento  di  mostrarsi 
degno  di  rientrare  nella  sua  famiglia  religiosa,  possiamo 
ora  chiederci,  raggiunse  egli  il  triplice  suo  intento?  Nel 
Caos  si  intende  tutto  quanto  si  era  proposto  di  fare  in- 
tendere al  leggitore  del  libro  ? 

A  questa  ultima  dimanda  può  servire  di  risposta 
quanto  dissi,  per  altro  scopo  a  pag.  lxyvii  e  cioè,  che 
se  si  tratta  dei  contemporanei  del  Folengo  e  di  coloro 
che  conoscevano  bene  la  di  lui  vita,  specialmente  di  co- 
loro che  dovevano  essere  i  giudici  della  sincerità  e  se- 
rietà del  suo  ravvedimento,  non  vi  ha  dubbio  che  non 
rabl>iano  inteso  bene;  che  se  invece  si  tratta  dei  suoi 
tardi  nipoti,  di  noi,  che  di  lui  conosciamo  così  scarsa- 
mente e  male,  un  costrutto  ben  magro  siamo  in  grado 
di  cavarci,  più  per  la  parte  biografica,  che  per  la  morale, 
tanto  egli  avvolse  le  cose  che  ha  esposto,  nel  velo  al- 
legorico, e  le  ha  diffusamente  distemperate  in  mezzo  a 
tanti  accidenti  lottcrarii. 

Per  la  morale  ;  due  particolari  interessanti,  a  mio 
avviso,    emergano  chiari  :  il  1^  che  i  traviamenti  erotici, . 


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LXXXIV    — 

quale  vennero  asseriti  dai  biografi  del  poeta  sembra  che 
si  debbano  escludere  del  tutto. 

La  donna  che  lo  fa  traviare^  che  passandogli  avanti 
sopra-  focoso  cavallo  se  lo  trascina  dietro,  quale  si  vede 
anche  disegnata  sulla  vignetta  posta  in  testa  alla  Selva 
seconda^,  non  è  donna  vera,  ma  una  donna  allegorica,  la 
filosofia  naturale,  dello  studio  della  quale  egli  era  inna- 
morato, di  che  parlo  più  avanti.  P]  la  Dieda  stessa,  dal 
modo  delicato  e  ragguardoso,  con  cui  il  Folengo  la  men- 
ziona, dalle  menzioni  che  fa  di  altre  donne  vere,  non  è 
ammissibile  che  siano  stato  l'oggetto  di  quel  amorazzo  vol- 
gare e  sfrenato,  che  si  ha  voluto  attribuirgli.  Non  intendo 
di  escludere  che  egli  possa  essere  stato  preso  da  nobih 
passioni  per  qualche  donna,  forse  per  la  Dieda  stessa, 
o  per  quella  alla  quale  dona  i  guanti,  a  pag.  125,  o  per 
la  Catterina  che  fu  uccisa  dal  marito  ;  la  sarebbe,  nel  caso 
che  fosse  vera,  cosa  naturahssima,  e  nemmeno  voglio  as- 
serire che  sia  stato  casto  come  un  anacoreta  della  Tebaide, 
non  erano  quelli  i  tempi  di  ciò,  e  Y  Orlandino  non  ne 
sarebbe  una  prova  in  favore.  Tuttavia  il  Folengo  vi- 
vacemente e  ripetutamente  dichiara,  qua,  e  là  che  nono- 
stante le  contrarie  apparenze,  la  vita  sua  è  proba,  nella 
lettera  al  Alberto  da  Carpi  chiama  Triperuno  giovane 
innocente.  Il  carattere  puro  e  poetico  di  Limerno  nella 
seconda  Selva  ne  è  un'altra  prova.  Egli  stacca  Triperuno 
da  Merlino,  e  Merlino  stesso  trattiene  in  Matotta,  come 
vi  attrae  e  trattiene  Fulica. 

Ma  sopra  tutto  questa  sua  moralità  costituisce  uno 
dei  principali  intenti  del  libro. 

Perchè  siasi  formata  cpiesta  leggenda  poco  onore v^ole 
intorno  al  Folengo  le  ragioni  sono  parecchie,  ma  le  prin- 
cipali furono,  senza  dubbio,  T  ignoranza  della  di  lui  vita, 
e  la  leggerezza  con  cui  furono  giudicate  ed  interpretate 
le  sue  opere,  specialmente  il  Caos. 


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—    LXXXV    — 

Fu  preso  alla  lettera  quello  che  non  era  che  una 
allegoria. 

Purgato  da  questa  ignobile  taccia,  il  senso  morale 
ed  estetico  delle  opere  sue  si  sublima,  e  vanno  ad  acqui- 
stare quel  posto  alto  e  maestoso,  nel  quale  il  Folengo 
le  volle  collocare,  e  dal  quale,  nienti  piccole  e  superfi- 
ciali hanno  tentato,  ed  in  parte  sono  anche  riescite,  a 
farle  discendere. 

Non  sono  quindi  la  crapula  e  le  brutture  di  un  vi- 
zio degradante,  che  il  Folengo  volle  encomiare,  e  dipin- 
gere in  se  stesso,  bensì  rappresentarci  i  tempi  suoi,  e  se 
stesso  nelle  aspre  tenzoni  del  pensiero  e  della  scienza. 

Con  ciò  resta  semplificato  d' assai  un  altro  punto 
controverso  della  vita  del  Folengo,  quello  dei  motivi  del- 
l'uscita  del  chiostro  che  è  Taltro  particolare. 

Escluso  che  sia  stata  una  donna  che  l'abbia  trasci- 
nato fuori  della  sua  vita  monastica,  conviene  cercarne 
altre  cagioni,  e  nel  Caos^  pamii,  che  si  abbiano  chiare  e 
nette. 

A  pag.  62  del  Caos^  nel  cap.  di  Triperuno  narrate 
le  grandi  discordie  dei  benedettini,  che  egli  contempla, 
senza  prendervi  parte,  nascosto  e  non  veduto,  al  loro 
cessare  egli  si  scopre,  chiede  la  cagione  della  aspra  lotta, 
la  intende  dal  Cornaggiani,  del  quale  poi  vede  la  morte. 
Dopo  ciò  si  parte  dai  pastori,  sale  un  monticello  posto 
in  larga  pianura  coperta  di  rose  e  viole,  indi  entra  in 
un  folto  bosco,  nel  quale  erra  tanto,  finché  si  trova  di 
fronte  ad  un  palazzo,  quando  il  sole  era  già  alto  sul- 
r  orizzonte. 

Eccolo  quindi  uscito,  tranquillatìienie,  se  non  perchè 
le  discordie  della  famiglia  religiosa  ve  lo    lianno  spinto. 

Il  fatto  adunque  è  spogliato  del  lugubre  ed  im- 
mondo carcame  che  lo  imbrattava.  Esso  si  presenta  sem- 
plice e  quindi  tanto  più  naturale,  e  credibile. 


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LXXXVI    

Tutto  al  pifi  sarà  discutibile  se  i  motivi  che  lo 
spinsero  ad  abbandonare  il  chiostro,  sono  stati  tali  da 
giustificare  la  diserzione,  mi  si  passi  la  parola,  ma  non 
è  piti  lecito  di  asserirne  di  altri,  specialmente  gli  immo- 
rali, che  furono  messi  fuori. 

Della  gravità  di  questi  motivi  noi,  a  tanta  distanza 
di  tempo,  e  in  tanta  ignoranza  dei  fatti,  non  possiamo 
essere,  in  nessuna  maniera,  buoni  giudici. 

Però  non  sarà  una  temerità,  nò  un  calunniare  il 
Folengo,  il  pensare,  che  siano  stati  una  causa  occasio- 
nale, della  quale  egli  abbia  approfittato  ben  volentieri, 
per  assecondare  una  sua  intima  brama  di  una  vita  più 
conforme  al  suo  carattere  ed  alla  vivacità  della  sua 
mente. 

Uscito  dal  chiostro  dove  se  ne  va  ? 

Noi  ignoriamo  la  data  dell'  uscita,  come  ignoriamo 
dove  egli  sia  andato  tosto  dopo  abbandonata  la  famiglia 
religiosa.  Lo  troviamo  in  casa  Orsini  precettore  del  gio- 
vinetto Paolo,  ma  non  sappiamo  quando  e  per  quali  cir- 
costanze vi  sia  andato,  e  nennneno  per  quanti  anni  vi 
sia  stato.  Sa})piamo  però  e  a  noi  lo  dice  lui  stesso,  nel 
capitolo  di  Triperuno,  per  bocca  di  Anchinia,  a  pag.  28 
che  e  stata  la  fama  del  suo  sapere  che  lo  fece  ricercare: 

Ed  io  con  lei  ti  rnostrerò  qurlV  Orso 
Con  V Orsalino  suo 

e  il  lei  si  riferisce  alla  scienza  astronomica,  della  quale 
aveva  fatto  precedentemente  T  elogio. 

Del  resto  mi  pare  che,  tra  l'uscita  del  cliiostro  e 
l'entrata  in  casa  Orsini  non  sia  corso  un  lungo  intervallo 
di  tempo,  ma  piuttosto  breve. 

Precedentemente  ho  espresso  il  dubbio  che  vi  fosse 
allorché  componeva  la  Selva  terza,  ma  avrei  potuto  dire 


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LXXXVII    — 

anche,  allorché  finiva  la  seconda.  E  infatti  nelF  esastico 
del  frontespizio  e  nella  Selva  stessa  esalta  la  sua  posi- 
zione in  cotesta  casa,  come  quella  che  lo  proteggerà  dai 
sQoi  nemici,  né  si  dark  mai  che  alcuna  forza,  o  prepo- 
tenza, ve  lo  tolga,  ma  lo  spirito  che  aleggia  nella  terza 
Selva  tutto  ascetico,  e  tutto  brama  di  fare  ritorno  al 
chiostro,  ci  ingenera  il  dubbio  che  vi  fosse  ancora.  La 
predizione  poi  di  Fulica  a  Triperuno  che  in  breve  can- 
gerà in  meglio  il  suo  stato,  ma  più  aucora  la  sua  dimora 
in  Perissa,  descritta  con  tinte  tanto  fosche,  sia  per  il  lato 
morale  che  fisico,  ed  economico,  sono  altri  indizii,  se  non 
si  vogliono  prove,  che  non  stesse  più  cogli  Orsini,  allor- 
ché dettava  Tultima  parte  della  seconda  Selva. 

Pare  altresì  evidente  che  la  dimora  in  Perissa  sim- 
boleggi un  periodo  di  vita  accaduto  tra  la  dimora  in  casa 
Orsini  e  il  ritorno  al  chiostro,  giacché  è  sicuro  che 
quando  tornò  egli  aveva  già  lasciati  gli  Orsini. 

Sarà  molto  interessante  alla  biografia  del  Folengo 
il  trovare  la  spiegazione  dell'  episodio  di  Perissa,  che 
alla  apparenza  riesce  tanto  importante. 

Sopra  di  esso  azzardo  un  commento  più  avanti.  In 
che  consistano  poi  i  suoi  traviamenti  quali  ne  siano  state 
le  cagioni,  giacché  restano  esclusi  gli  amorazzi  volgari, 
ce  lo  fa  intendere  esplicitamente. 

Lo  intendiamo,  dalle  tre  donne,  negli  argomenti  delle 
tre  Selve,  ce  la  dice  il  Folengo  e  a  più  riprese  ce  la 
ripete  nella  Selva  seconda  e  terza,  ed  io  Tho  rilevato 
nella  loro  esposizione  nei  due  precedenti  capitoli. 

Livia  dice  :  traviato^  cioè  lasciato  il  chiostro,  si  mise 
a  seguire  amorosamente  una  donna  bellissima^  la  quale 
sopra  un  sfrenato  cavallo  gli  scampa  inanzi  per  tr arsilo 
dietro.  Ma  non  é  che  un'allegoria,  poiché  definisce  la  Selva 
unu  soperstizione  tenacissima  significare.  Né  diverso  é  il 
costrutto  di  quanto  dice  Corona.  Più  esplicita  è  la  madre 


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LXXXVIII    — 

Paola,  la  quale  dice  ripetutamente  :  combattuto  tra  la  filo- 
sofia naturale  ed  il  sopranaturale,  la  Umanità  di  Gesù 
Cristo^  quindi  i  misteri  della  redenzione  umana,  in  fine 
questa  è  vinta  dalla  filosofia. 

Il  Folengo  aveva  una  grandissima  brama  di  sapere. 
Lo  dice  nel  capitolo  secondo  di  Triperuno  a  pag.  19,  nel 
quale  parla  dei  studi: 

Quivi  cuìfi  brarae  tanto  me  ne  tolsi, 
Clie  tutto  il  bene  che  capisce  in  noi 
Non  pur  lasciai^  ma  nel  contrario  avvolsi, 

e  lo  xìpete  anche  più.  basso,  ed  anche  nel  primo  capitolo 
di  Triperuno  della  Selva  seconda,  nel  quale  anzi  di- 
chiara che  sarebbe  suo  desiderio  di  comj)orre  un  libro 
sulle  cause  delle  stagioni,  e  sui  fenomeni  tellurici  e  ce- 
lesti che  ne  conseguono.  Nota  poi  che: 

Travolto  in  vie  sì  alpestre  dal  desio, 
Che  anco  ne  porto  il  viso  rotto  e  i  panni. 

L  quindi  sopra  tutto  lo  studio  dei  fenomeni  della 
natura,  la  fisica  propriamente  detta  e  l'astronomia  che  lo 
attraeva. 

Nel  primo  dialogo  delFAsinaria,  Fulica,  a  pag.  135, 
dice  a  Liberato  ....  poi  eli  io^  mi  sono  dato  agli  varii 
studii  de  la  naturale  filosofia^  a  cercare  di  conoscere  la 
proprietadi  de  le  cose,  a  voi  occulte  ed  impenetrabili  non 
ebbi  mai  Uanimo  mio  tranquillo,  né  quieto,  ed  ora  pia  die 
mai  Tho  travagliato  e  da  varii  diversi  pensieri  tutto  ripieno 
e  distratto  .... 

E  nella  Selva  terza  pag.  194: 

Così  volse  il  mio  fallo,  die  s' io  spendo 
Per  risaper  ciò  che  in  natura  cova, 
Il  tcìnpo  invan  ne  pianga  giustamente. 


L 


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G(pogle 


—   LXXXIX   — 


Potrei  riferire  altri  esempi,   ni'a   parmi    che  bastino  ^, 

questi,   a  provarne  l'asserto  giudizio,  il  quale,   dall'altra  ìii 

parte  apparisce  evidente  dalla  analisi  che  nei  capitoli  ;y 
precedenti  ho  fatto  delle  Selve  seconda  e  terza.                                     .       ^ 

Ma  oltre   alla  filosofia   naturale,   il   Folengo  si   era  À 

dato  allo  studio  dell'  astronomia,  come  lo   si  intende    da  i| 

quanto  pone  in  bocca  a  Cingar  nella  Maccheronica  xiii  ;| 

e  xrv  del  Baldo,  e  in  parecchi   luoghi   del  Caos  special-                *  1^ 

mente  dove  ammette  la  rotondità  ^ella  terra,  ed  in  quei  '-j 

versi  del  cap.  di  Triperuno  a  pag.  28                                                    '  ^ 

Ma  viene,  ecco,  mio  sore,  che  in  Egitto  '            '  j 

Uscita,  da  Caldei  Vuman  dottrina  ' 

Portò  de  le  scienze  a  suo  profitto.  v 

ed  anele  alla  filosofia  propriamente  detta,  e  un  cenno  se  ^  4^ 

ne  ha  nel  capitolo  di  Triperuno  pag.  171  la  dove  dice:  ;^ 

■h 

A  che  esser  stoico  ''A 

Miser  ti  giova^  he  peripatelico  ?  | 

■4 

ma  più  chiai-a  prova  V  abbiamo  dagli  ammonimenti   che  J 

pone  in  bocca  a  Talia,  generici  invero  ma  a  lui  rivolti,  ; 
e  specialmente  in  quei  versi,  a  pag.  178 

Ma  dal  Egeo  mar  un'  atra  nebbia, 
Che  tanti  perder  fa  la  dolce  guida, 
Levata  in  alto  fin  sotto  le  stelle 
Ai  raggi  erranti  cela  il  vero  sole: 
Che  pili  credon  salir  di  Plato  il  spirto 
Che  Paolo  e  Mosè,  che  d'Isacco  il  padre. 

Di  questi  suoi  studii  ne  parla  anche  e  li  conferma 
in  quei  versi  della  Palermitana,  che  riportai  a  pag.  xl,  xlt, 
della  prefazione   ai  primi  due  volumi,   dai   quali   si   in- 


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'"'^^r^m^ 


—  xc  

tende  anche  che  un  grande  studio  egli  aveva  fatto  della 
lingua  italiana,  iieiratto  stesso  che  la  sapienza  egiziana, 
greca,  romana  e  la  filosofia  naturale  lo  occupavano  tanto, 
versi  che  per  la  loro  importanza  qui  pure  li  riferisco: 

Pe?*  aspri  monti  e  temjìesiosi  mari 

Errai  gran  tempOy  da  dove  esce  il  sole 
E  il  nido  ove  ripone  i  lumi  chiari. 

E  come  quel  che  tallo  intender  ruoh% 
D'  Egitto  pt^iaa,  poi  d' Atene  e  Roìna 
Bramoso  enlirir  nelle  onorate  scole. 

Qui  la  vi7'li(y  per  cui  tanto  si  noma 
L'umana  sapienza,  aver  contesi. 
Per  irmi  carco  di  sì  nobil  soma. 

Ma  poi  che  gli  anni  verdi  non  che  i  mesi^ 
Bai  seno  stoico  diffalcai 'e  nei  sogni. 
Poi  che  in  Fiorenza  tutti  andaro  spesi. 

Io,  del  ver  lume  privo  e  colmo  d'ogni 
Nebbia  fallace,  tratto  fui  là  dove 
Gesù  sovvenne  a'  nostri  unum  bisogni. 

Pertanto  lo  studio  di  coteste  scienze  k)  invanisce,  non 
sa  metterle  in  armonia  cogli  insegnamenti  teologici,  coi 
decreti  pontificii.  Rifiuta  la  dottrina  del  peccato  d'Adamo, 
s[)ecialmente  per  ciò  che  riguarda  il  deterioramento  della 
natura,  e  di  conseguenza  non  capisce  e  non  si  persuade 
dell'opera  della  redenzione  umana  operata  da  Cristo.  E  nel 
medesimo  tempo  non  lo  soddisfano  i  scarsi  risultati  del 
suo  studio.  Si  vede  davanti,  nella  natura,  un  immenso  e 
stupendo  apparato,  del  quale  voleva  penetrale  le  leggi 
intime,  che  lo  producevano  e  lo  governavano.  Giudica, 
esamina,  confronta,  ma  come  gli  autori  antichi,  Aristotile, 
Plinio,  Averrois  poco  gli  insegnano,  specialmente  per 
le  loro  contradizioni,  e  i  dotti  moderni  non  lo  ammae- 
strano d' avvantaggio,  egli  stesso  scarsa  messa  vi  rac- 
coglie  col  solo  sussidio  del    suo    ingegno.  E    quindi    iu 


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—   XCI   — 

lui  accade  lo  strano  fatto  che  mentre  smarrisce  la  fede 
per  la  scienza,  la  scienza  in  realtà  non  gli  entra  a  suf- 
ficenza  per  sostituire  fede. 

E  la  fede  egli  la  perdette,  senza,  appunto,  avere 
acquistata  la  scienza.  Lo  dichiara  nel  cap.  di  Trìperuno, 
pag.  20: 

Dunque  diròj  che  quanto  chiaro  e  noto 
Af  era,  dinnanzi  al  ber  dell'acque,  sparge. 
Onde  fui  d'  ombra  pieno  e  di  sol  voto. 

Le  parlate  di  Merlino  in  Carossa,  di  Furore,  e  quella 
più  ancora  di  Triperuno,  indotto  a  ciò  da  Merlino,  con- 
tenute nei  due  madrigali  a  pag.  85  e  86,  lo  confermano 
air  evidenza. 

Livia  e  Paola  lo  confermano  esse  pure,  nelV  argo- 
mento della  seconda  Selva,  ed  anzi  Paola,  vi  aggiugne 
anche  le  cagioni,  cioè  la  curiosatide  per  le  scienze  natu- 
rali ed  umane,  e  le  astruserie  della  scienza  teologica,  ri- 
dotta a  formule  scolastiche,  per  le  quali  riesciva  dura  ed 
incomprensibile.  E  queste  condizioni  della  Teologia,  le 
accenna  quìi  e  là  tanto  nelF  Orlandino  quanto  nel  Caos. 
Di  questa  Teologia  fa  un  quadro  desolante  a  pag.  135, 
per  bocca  di  Fulica  nel  dialogo  dell'Asinaria,  come  quella 
che  era  divenuta  il  capitale  nemico  della  fede,  e  la  ca- 
gione principale  del  pullulare  delle  sette  e  del  suo  smar- 
rimento. 

La  condizione  vera  in  cui  11  Folengo  si  era  ridotto 
ce  la  delinea  lui  stesso  sulla  fine  della  prefazione  alla 
Selva  terza,  dove  riassume  gli  argomenti  delle  tre  donne, 
ed  ancora  nelFesastico  di  Merlino,  a  pag.  12,  che  pone 
quale  conclusione  e  riassunto  dei  commenti  al  Caos  delle 
tre  donne. 


^ 


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\ 


t 


~    XCII   — 

Tres  surnus  unius  ium  animae^  tura  coì^ris.  Iste 

Nascitur,  ille  caditi  tertius  erigilur. 
Is  legi  paret  naturae,  schismatis  ille 

Rèbus,  ecangeUco  posterus  vuperio. 
Nomine  sub  fleto  Triperuni  coginiur  udem^ 

InfcmSy  et  juvenis,  rirque^  sed  unius  i)u?st. 

Non  vi  ha  dubbio  che  egli  non  siasi  inteso  di  ra]> 
presentare  se  stesso  nelle  tre  fasi  della  sua  vita  fisica  e 
morale,  in  questo  esastico,  in  quella  maniera  che  si  è 
fatto  rappresentare  nel  Caos^  nei  triplici  argomenti,  delle 
tre  donne  e  nei  loro  sunti. 

Nel  secondo  dei  tre  stati  della  sua  vita  adunque 
cade  moralmente,  dandosi  all'  errore,  schismatis  rebus^ 
mentre  nel  terzo  si  rialza,  si  riabilita  col  tornare  sotto 
r  impero  del  vangelo. 

Questo  importantissimo  punto,  quindi,  della  vita  del 
poeta,  tanto  contrastato,  cotanto  dibatutto,  parmi  che  ora 
emerga  rischiarato  da  tanta  luce,  che  valga  e  farcelo 
vedere  in  si  fatta  maniera  da  non  dubitarne  più. 

Di  quanto  poi  si  fosse  allontanato  dalla  credenza 
cattolica,  r  ho  sufficentemente  rilevato  precedentemente. 
Egli  non  sapeva  ammettere  gli  effetti  del  peccato  di 
Adamo,  e  la  conseguente  redenzione  dell'  umanità  ope- 
rata da  Cristo.  Un  dubbio  lo  tormentava  anche  sulV  ar- 
monia della  grazia  divina  colla  libertà  dell'  arbitrio  del- 
l'uomo, e  colla  piena  responsabilità  delle  sue  azioni. 

Nella  mente  del  Folengo  quindi  erano  scossi  i  car- 
dini fondamentali  del  cristianesimo,  e  dico  che  erano, 
scossi  ma  non  distrutti,  perchè,  lo  dice  lui  stesso,  non 
era  che  un  fortissimo  dubbio,  sortogli  nelUanimo,  perchè 
aveva  voluto  cercare  le  cause  naturali  di  un  fatto  che 
esiste  totalmente  nei  domimi  della  fede.  Voleva  riconoscere 
nella  natura  la  prova  dell'azione  deleteria  del  peccato  di 
Adamo,    e  Y  azione  posteriore  ricostruttiva  di  Cristo.  Ma 


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•^'«•^^'«sr 


—  xeni  — 

questa  azione  ricostruttiva  non  la  vedeva  nell'uomo,  sem- 
brandogli che  le  infermità  fisiche  e  morali,  che  lo  aggrar 
vavano  anche  dopo  la  redenzione,  la  escludessero.  Davvero 
clie  egli  si  era  messo  per  una  via  senza  uscita,  poiché 
né  lui  né  verun  altro  ingegno,  più  del  suo  potente,  sa- 
rchile, riescito  a  qualche  buon  frutto,  per  quelle  ragioni 
che  noi  tutti  ora  conosciamo.  Non  vi  è  sano  intelletto  che 
possa  comettere,  oggi,  sì  fatto  errore.  Noi  conosciamo 
bene  i  limiti  della  fede,  e  quelli  delle  indagini  scien- 
tifiche. L'intento  del  Folengo  era  paralello  a  quello  dei 
cercatori  della  pietra  filosofale  e  dei  fabbricatori  dell'oro. 
Alchimisti,  costoro,  fisici  ;  alchimista,  lui,  filosofico. 

Ma  non  ci  é  nulla  da  meravigliarsi  poiché  il  Fo- 
leftìgo  non  era  una  personalità  isolata.  La  più  parte  degli 
ingegni  su[>eriorì  dell'  Italia  del  secolo  xv  erano  trava- 
gliati da  cotevsti  dubbi,  correvano  dietro  alle  sperate,  e 
vagheggiate  soluzioni  di  cotesti  problemi.  Erano  alchi- 
misti o  per  un  verso,  o  per  T  altro. 

A  Mantova  dì  cotali  uomini  ne  avevamo  parecchi, 
e  il  nostro  Battista  Fiera  contemporaneo  del  Folengo,  è 
forse  il  più  spiccato  esempio.  Medico  filosofo,  si  era 
spinto  più  avanti  d'assai  del  poeta,  nelle  conseguenze  dei 
suoi  studii. 

Allorché  le  innovazioni  di  Lutero  principiarono  ad 
avere  un  eco  in  Italia  e  quindi  anche  a  Mantova,  trova- 
rono nel  campo  dei  letterati,-  degli  artisti,  dei  filosofi,  e 
presso  anche  i  ceti  superiori  aristocratici,  una  accoglienza 
festosa;  i  quali  tutti  però  riconobbero  di- essere  di  già  molto 
più  in  Ik  del  riformatore  tedesco,  lungo  la  strada  per 
la  quale  si  era  messo.  Ma  siccome  da  una  parte  i  prin- 
cipi italiani  vedevano  che  Lutero  mirava  ad  una  ribel- 
lione politica,  che  non  entrava  nelle  loro  viste  e  non 
era  conforme  ai  loro  interessi,  essendo  quasi  tutti  pro- 
pensi ad  una  politica  imperiale,  e  dall'altra   il  Papa   ve- 


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—   XCIV   — 

deva  chiara  la  ribellione  religiosa  della  Germania,  ognuno 
cercò  che  la  fiumana  non  discendesse  in  Italia,  appog- 
giando primieramente  Y  impero,  e  poscia  incominciando  a 
prendere  quei  provvedimenti  interni  clie  finirono  col  con- 
cilio di  Trento.  ^) 

*  Era  quindi  naturale  che  Tanimo  poetico  del  Folengo 
subisse  r  influenza  dei  suoi  tempi,  e  che  vi  si  riperco- 
tesse  l'eco  delle  riforme  luterane,  non  poche  delle  quali, 
non  riguardando  né  la  fede  né  la  politica,  erano  univer- 
salmente riconosciute  giuste. 

Ma  egli  non  aveva  né  Y  animo  *  dell'  innovatore,  né 
r  ingegno  superiore  dello  scienziato,  mentre  però  era, 
anche  dal  lato  scientifico  una  delle  più  grandi  nostre 
individualità.  E  come  l'entusiasmo  della  scienza  gli  aveva 
offuscata  la  fede,  non  avendola  ottenuta  la  scienza,  ri- 
tornò alla  fede,  e  nel  poema  —  La  Humanità  del  Fi- 
gliuól  di  Dio  —  si  contiene  la  professione  di  fede  di 
quei  principi  che  per  poco  non  aveva  negato. 

Egli  é  la  più  bella  e  forse  la  più  completa  personi- 
ficazione delle  condizioni  dei  tempi  suoi,  in  tutti  i  diversi 
aspetti  per  i  quali  si  é  presentato  colle  sue  opere  e  colle 
sue  vicende  che  identifica  nei  mistici  quattro  personaggi. 
Egli  é  il  poeta  maccheronico,  gioviale,  spensierato,  satirico 
francamente;  il  poeta  licenzioso  nelFOrlandino.  Nella  vita 
intima  filosofo,  scienziato  vacillante  nella  fede  e  infine 
l'ardente  credente  nelle  opere  sacre.  E  Merlino  e  Li- 
merno,  ma  infino  anche  Eulica,  e    sopratutto   Trijieruno. 

E  così  r  Italia  che  nel  rinascimento  era  spensie- 
rata, guadente,  appassionata  indagatrice  della  ragione  dei 


1)  I  Gonzaga,  negli  stessi  primi  due  decennii  del  secolo  XVI  prin- 
cipiarono ad  emanare  ordini,  tanto  in  città  che  nel  contado,  contro 
le  discussioni  religio^'3,  la  lettura  della  Bibbia.  So  ne  hanno  i  docu- 
menti nel  loro  Archivio. 


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—  xcv  

dogmi  cristiani,  delle  scienze  filosofiche  e  nattu'ali,  alla 
metà  del  secolo  XVI,  al  concilio  di  TrentQ  diviene  ligia 
e  mogia  alla  fede,  quale  non  fu  mai,  perdendo  o  dimen- 
ticando pei'sino  le  traccio  delle  indagini  scientificlie  del 
secolo  precedente. 

E  devo  dire  che  a  ciò  non  venne  soltanto  per  le  ri- 
forme luterane,  le  quali  indussero  i  principi!  italiani  a 
restringere  quella  libertà  del  pensiero,  che  era  piena  in 
Italia,  ma  ben  anche  per  lo  strano  eiTore  commesso  nel 
volere  spiegare  i  dogmi  colla  scienza,  e  nel  volere  sco- 
prire le  traccio  e  le  prove  delle  loro  veracità  nei  feno- 
meni della  fisica,  dell'astronomia,  delle  scienze  naturali. 
Questo  ha  prodotto  che  si  radicasse  il  concetto  che  la 
scienza  fosse  la  nemica  della  fede,  e  questa  di  quella. 

Un  altro  punto  della  vita  del  Folengo  rimane  da 
esaminare,  ed  è  quello  che  egli  delinea  narrando  le  av- 
venture di  Galanta  e  che  ho  esposto  a  pag.  lxxii  e 
seguenti. 

E  un  punto  che  rimase  sempre  fra  i  pia  incerti  ed 
oscuri,  e  le  dilucidazioni  che  ora  vi  porto,  parmi  che 
siano  più  che  ipotetiche. 

E  uno  dei  pochi  risultati  che  sono  riescito  di  otte- 
nere coir  esame  di  quanto  espone  il  Caos  in  confi'onto 
di  quello  che  è  narrato  di  lui. 

Riassumo  brevemente  il  racconto  :  Mentre  Triperuno 
era  per  seguire  il  vecchio  anacoreta,  Fulica,  le  sue  orec- 
chie sono  colpite  da  grida  strazianti,  e  tosto  anche  vede 
fuggire  giovane  donna,  Galanta,  scarmigliata  inseguita 
da  un  suo  persecutore,  Laura,  lo  Squarcialupi.  Triperuno, 
si  nasconde  nel  folto  di  un  boschetto  e  vede  che  Ga- 
lante, quasi  I-aggiunta,  per  scampare  di  essere  presa,  si 
tramuta  in  una  donnola,  e  ratta  si  ripara  sopra  la  pianta 
di  un  sambuco.  Se  ne  parte  allora  lo  Squarcialupi,  e 
Triperuno,  fattone  certo  esce  del  nascondiglio,  va  presso 


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—    XCVI    

Galanta  e  con  tenere  espressioni,  fattala  scendere  dalVal- 
bero,  se  la  raccoglie  nel  seno,  e.d  amorosamente  custo- 
dendola, si  ricovera  nella  regione  desolata  di  Perissa, 
dove  non  volle  restare  Fulica,  in  una  grotta,  e  vi  dimora, 
molti  anni,  in  tristissime  condizioni,  e  dove  è  costretto 
di  poi'si  air  arbitrio  altrui,  nel  quale  stato  gli  è  tolta 
Galanta,  con  inconsolabile  suo  dolore,  la  quale  è  data  a 
Grifalcone  che  la  fa  morire,  schiacciandola  tra  uscio  e 
muro. 

L'ho  anche  avvertito,  qui  è  adombrata  una  avven- 
tura dolorosa  e  tristissima  del  Folengo,  una  personale 
persecuzione  dello  Spuarcialupi,  e  infatti  dice  che,  vista 
la  metamorfosi  di  Galanta: 

Cessò la  vecchia  scelerata 

Tener  imi  via  di  avermi  allor  nel  grifo. 

Le  persecuzioni  quindi  di  Galanta  erano  dirette  alla 
persona  del  poeta,  per  ragioni  e  circostanze  che  non  si 
ponno  nemmeno  suppoiTe.  Lo  Squarcialupi  voleva  averlo 
nelle  mani,  ma  non  vi  riesce,  perchè  il  Folengo  se  ne 
fugge. 

Da  ciò  e  dopo  ciò  ha  origine  quel  periodo  lungo  di 
molti  anni  che  ci  descrive  cosi  pieno  di  infelicità. 

Forse  questo  periodo,  esposto  in  forma  allegorica  è 
quello,  stesso  al  quale  accenna  Vigaso,  Cocaio,  quando 
dice  che  il  Folengo  in  guisa  di  disperato  andò  errando 
•per  il  mondo  fatto  cortigiano,  poi  soldato,  poi  romita. 

Il  Vigaso  Cocaio,  nella  sua  breve  biografia  del  poeta, 
non  racconta  i  di  lui  fatti  personali  in  ordine  cronologico, 
come  non  è  esatto  nel  darci  la  successione  delle  opere 
sue,  tuttavia  i  fatti  sono  veri,  almeno  possiamo  dire  tali 
quelli  che  sappiamo  per  altra  via.  E  dai  noti  ci  è  lecito 
arguire  ai  non  noti,  fra  i  quali  vi  sono  quelli  di  essere  stato 


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—    XCVII    

cortigiano.  Pertanto,  come  ò  nel  vero  dicendo  che  è  stato 
cortigiano,  è  da  supporsi  che  lo  sia  asserendo  che  fu 
soldato  e  romito. 

Qui,  romito  forse  non  signica  religioso,  bensì  ramingo 
e  vagabondo,  privo  di  tutto  il  necessario  alla  vita. 

La  descrizione  clie  egli  fa  della  sua  dimora  in  Pe- 
rissa  si  attaglia  benissimo  alle  condizioni  nelle  quali  è 
presnpponibile  che  siasi  trovato  in  questi  due  stati.  Da 
questa  stessa  descrizione  poi  apparisce  che  egli  fu  prima 
romito,  pòi  soldato,  dato  che  lo  sia  stato,  poiché,  prima 
si  rifugia  nella  grotta,  con  Galanta  nel  seno,  nella  quale 
vive  lunghi  anni,  fra  stenti  e  privazioni,  poscia  va  sotto 
laltrui  volere,  cioè  diviene  soldato,  e  in  questa  sua  con- 
dizione gli  è  tolta  Galanta. 

Se  poi  cotesti  due  episodii  siano  accaduti  prima  o 
dopo  di  entrare  in  casa  Orsini  egli  non  lo  lascia  capire. 
L'accenno  che  fa,  nella  Selva  seconda,  durante  la  di- 
mora cogli  Orsini,  a  persecuzioni,  colle  quali  si  mirava 
a  levamelo,  la  sua  dichiarazione  che  alcuno  non  sarà  mai 
da  tanto  da  togliergli  la  protezione  della  grande  Orsa, 
paiono  significare  e  Tuna  e  l'altra  ipotesi.  Però  la  pre- 
sunzione parmi  che  sia  in  favore  della  seconda  ipotesi, 
cioè  che  sia  divenuto  romito  e  soldato  abbandonando  gli 
Orsini. 

E  infatti,  egli  era  ancora  frate  alla  fine  del  1520, 
allorché  il  Paganini  si  accingeva  a  fare  la  edizione  to- 
scolana,  ma  non  lo  era  pifi  al  1525,  durante  la  battaglia 
di  Pavia,  nel  quale  anno,  egli  compone  l' Orlandino  e 
lo  compone  in  casa  Orsini.  Ora  i  quattro  anni  che  cor- 
rono fra  le  due  date  non  sono  i  molti  anni  passati  in 
Perissa.  Mentre  se  trovavasi  cogli  Orsini  alla  fine  del  1526, 
allorché  il  Garanta  chiedeva  il  privilegio  per  YOrlandino 
e  per  il  Caas,  vi  è  molto  da  dubitare  che  ci  stesse  an- 
cora nel  seguente  anno,  o  nel  susseguente  1528,  apparendo. 


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XCVIII 


r  come  dissi,    dal   tenore   della   Selva    terza,    e    da   quello 

della    seconda    parte    della    seconda,   che    non   vi   fosse 
f  più    allorché    scriveva    queste    parti    del    Caos.    Questa 

supposizione  poi  non  è  contradetta  dal  tenore  della  di- 
manda di  privilegio  del  Garanta,  perchè  chiedere  il  pri- 
vilegio della  stampa  di  un  libro,  come  è  nel  caso  del 
.  Folengo,  non  vuol  dire  che  il  libro  stesso  fosse  finito  di 
scrivere.  Ora,  .come  si  vedrà,  nel  seguente  capitolo,  il 
V  Folengo  non  rientrò  nel  chiostro  che  nel  1534,  e  tra  le 

5  ultime  due  date  passano    sei,   o  sette   anni,  i   quali    pifi 

ragionevolmente    sono   i   molti   anni,    nei   quah    sarebbe 
stato  romito  e  soldato. 

Ma  l'ipotesi,  che  ha  tanta   apparenza  di   essere    at- 
tendibile, è  contradetta  dall'asserzione  di  Francesco    Fo- 
lengo, che  è  contenuta  nella  lettera  della  edizione  di  Ci- 
pada,  che   il   poeta  nell'ottobre  del    1530  si   partiva    da 
•  '  Venezia  per   recarsi  ad    Ancona,   onde  darsi   a    migliori 

\  studi  ;  da  quella  del  fratello  Giambattista,  contenuta  nel 

i'  dialogo  premesso  ai  Pomiliones^   la  quale    vorrebbe    dire 

T--  che  da  casa  Orsini  passò  direttamente  nel  romitaggio  di 

Capo  Campanella,  e  dal  trovarsi  in   cotesto   luogo    poco 
dopo  la  sua  andata  ad  Ancona,  e  dall'esservi  rimasto,  col 
fratello,  sino  presso  la  riammissione  al  chiostro. 
I  Da   ciò    ne  consegue  che,    ammessa   l'esistenza   del 

fatto,  che  con  colori  cosi  forti  e  tetri  ci    è   narrato,   am- 
messo che  possa  riferirsi   a  quanto  dice   Vigaso    Coraio, 
■r  e  forse  per  lui  il  Folengo  stesso,  che  sia  stato  romito  e 

T;,  soldato,  si  ignori   quando  sia    accaduto,  né   vi  sia   modo 

di  poterlo  ragionevolmente  supporre. 

Una  circostanza  dell'episodio,  però,  rimane  chiara,  Tes- 
sere cioè  stata  la  persecuzione  dello  Squarcialupi  che  lo 
fece  fuggire  in  Perissa  e  passarvi  miserrimi  anni,  dopo  che 
r  lo  aveva  costretto  a  lasciare  il  chiostro,  e  questo  spiega 

I  '  l'odio  intenso  che  il  Folengo  nutriva  verso  l'abate  fiorentino. 

« 


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/ 


XCIX   — 

Rimangono  poi,  senza  possibili  commenti,  almeno 
per  ora,  la  tramutazione  di  Galanta  in  Mastella,  il  di- 
venire proprietà  di  Grifalcone, .  e  il  morire  di  morte  si 
sti-anamente  tragica,  che  pare  persino  ridicola. 

La  parte  biografica  è  scarsissima,  e  di  nessun  va- 
lore. Gli  accenni  che  si  hanno  qua  e  là,  perchè  vaghi  e 
indeterminati,  non  ci  forniscono  alcun  dato  preciso  intorno 
alla  sua  vita,  né  per  quella  parte,  che  è  la  massima,  che 
si  ignora,  né  per  l'altra  che  ci  è  noto.  L'accenno  più 
importante,  perchè  il  meno  indeteiTuinato,  è  quello  che 
si  legge  a  pag.  7  intorno  alla  stagione  della  sua  na- 
scita, la  quale  si  intende  che  accadde  nella  rigida  sta- 
gione invernale.  Ma  questo  stesso  accenno,  poi,  è  rive- 
stito di  tali  circostanze,  che,  come  dice  anche  lui  nel 
dialogo  delle  Tre  etadi^  lo  tramutano  in  una  allegoria 
delle  misere  condizioni  in  cui  nasce  l'uomo.  E  non  è  da 
meravigliarsi  di  tale  scarsezza,  poiché  avendo  il  Caos 
un  carattere  ed  uno  scopo  autoapologetici  e  confessionali, 
egli  aveva  da  esporre  non  le  vicende  della  vita,  le  quali, 
per  il  caso,  non  avevano  alcuna  importanza,  ma  le  mo- 
rali e  le  religiose,  doveva  trascurare  quelle,  come  fuori  di 
luogo,  ed  esporre  e  lumeggiare  queste  onde  raggiugnere 
il  suo  intento. 

Pertanto  se  da  una  parte  abbiamo  una  completa 
delusione,  dalF altra  possiamo  chiamarci  abbastanza  sod- 
disfatti di  avere  ottenuto  questo  risultato  di  determinare 
il  carattere  di  cotesta  bizzarra  composizione,  la  quale 
andò,  sino  ad  ora,  soggetta  a  strane  e  non  giuste  inter- 
pretazioni, tutte  ia  disdoro  della  vita  e  della  riputazione 
del  poeta,  che  gli  crearono  una  fama  immeritata  di  li- 
bertino, e  dissoluto,  tanto  da  apparire  un  tipo  del  genere. 

Ora  noi,  leggendo  il  Caos^  siamo  posti  in  grado 
di  intenderlo  nel  suo  vero  senso.  Non  è  già  T  esposi- 
zione di  avventure  erotiche,  disonoranti,  bensì  di  vicende 


V 


•vi 

,  i 


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I 


intellettuali,  di  un  animo  avido  di  scienza.  Cade,  di  conse- 
guenza, r  immondo  involucro,  e  riappare  la  bella  figura 
dell'uomo  meritevole  di  quella  fama,  di  quel  rispetto  e 
di  quella  venerazione,  che  i  suoi  contemporanei,  anche 
correligionarii,  gli  tributarono  senza  limiti. 

Di  un'altra  quistione,  che  ha  rapporto  con  uno  de- 
gli intenti  del  Caos^  è  d'uopo  che  spenda  qualche  parola. 

11  Caos^  fra    altro,  mirava    a  porre    in   evidenza    la 
intera    riprovazione    delle  Opere  Maccheroniche,    a   per- 
suadere del  suo  sincero  pentimento  per  avere,   con  esse, 
f  sciupati  gli  anni  migliori  suoi,  quelli  della  giovinezza,  e 

recato  grave  pregiudizio  alla  sua  buona  fama. 

E  infatti  le  condanna  esplicitamente  nella  Confes- 
sione di  Triperuno  a  pag.  157  riassumendo  così  le  ri- 
provazioni che  vi  sono  in  altri  luoghi  della  Selva  2*, 
le  condanna  del  pari,  e  non  meno  esplicitamente  nel 
lanus. 

Mannello  stesso  momento  che  esprimeva  cotesti  pix)- 
positi  nel  Caos^  e  che  dava  il  libro  a  stampare,  onde 
poscia  il  publico,  leggendolo,  fosse  persuaso  del  mutato 
suo  animo,  egli  rifa  da  capo  a  fondo  il  Baldo,  ed  in 
parte  la  Zanitonella  e  la  Moscheide,  e  nell'ottobre  del  1530, 
partendosi  égli  da  Venezia  per  Ancona,  lascia  il  mano- 
scritto già  perfetto,  a  Francesco  Folengo,  perchè  lo  fac- 
cia stampar^,  quando  e  dove  egli  crederà  meglio.  E 
(questo  rifacimento  è  quello  che  si  ha  nella  edizione  di 
Cipada  1530,  e  nella  Boselliana. 

La  con  tradizione  è  palese,  al  pari  di  quella,  che  a 
pagina  xxxix  di  questa  prefazione,  notai  per  TOrlandino 
ed  il  Caos  ;  e  come  si  spiega,  o  si  giustifica  ? 

E  vero  che  fa  dire  a  Francesco  Folengo  che  rifece 
le  opere  Maccheroniche  per  toglierne  tutte  le  licenzio- 
sità, che  le  deturpavano,  per  le  quali  gli  erano  venute 
tante     censure,   ma   la   scusa   non    ha   valore    perchè  le 


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—    CI   — 

opere  rifatte,    per    questo    lato,  non   sono    migliori    delle 
prime. 

Io  credo  che  siasi  indotto  a  rifare  le  predette  opere 
da  quelle  stesse  ragioni  che  lo  persuasero  a  ritoccarle,  per 
lina  seconda  volta,  assai  più  tardi,  allorché  da  parecchi 
anni  era  ritornato  nella  famiglia  religiosa  e  sono  quelle 
stesse  che,  morendo,  lasciò  a  Vigaso  Cocaio  e  che  si 
leggono  nelle  Ravani  1552  e  1554,  e  nella  Varisco  15G1; 

1  delle  quali  edizioni  ho  parlato  nella  prefazione  ai  primi 
due  volumi  a  pag.  cxii  e  seg. 

I  II  suo  genio  lo  traeva,    con    forza   irresistibile,    alla 

letteratura  maccheronipa,  e  quindi  a  rifare,  ritoccare  quelle 

1  opere  che,  composte  negli  anni  giovanili,  gli  avevano 
procacciata  una  si  grande  fama,  secondo  il  detto  d'Ora- 

i  zio  —  naturala  expellas  fìtrca,  tamen  2isq?ie  reciirrif.  — 
Erano  il  suo  pensiero  di  ogni  momento,  la  sua  quoti- 
iHana  occupazione.  Contrariamente  a  quanto  fecero  i  pi  fi 
grandi  poeti,  ad  eccezione  del  Tasso,  non  si  peritò  di 
rifarle  per  ben  due  volte,  cosicché  ce  ne  lasciò  tre  esem- 
plari, più  o  meno  sostanzialmente  diversi,  senza  tenere 
conto  della  prima  produzione  del  Baldo  incompleto,  di  17 
maccheroniclie. 

Le  riprovazioni  di  coteste  opere,  le  giustificazioni 
contenute  nel  Caos^  non  hanno  che  un  carattere  ascetico, 
e  mirano  ad  accontentai-e  quella  parie  dei  suoi  giudici 
futiu'i,  i  quali  disapprovavano  non  soltanto  le  licenziosità 
e  le  tirate  contro  i  vizii  e  le  corruttele  delle  corporazioni 
religiose  e  della  stessa  corte  pontificia,  ma  ben  anco  le 
opere  in  se  stesse,  per  la  loro  forma  burlesca  e  macche- 
ronica, stimandole  sconvenienti  alle  sue  condizioni  di 
frate. 

Che  vi  fossero  di  co  tali  censori  ce  lo  fa  conosce  i*e 
lui  stesso,  nelle  lettere  al  Paganini,  che  ho  riportato  a 
pag.  Lxxxiii  della  prefazione  ai  due  primi  volumi,    men- 


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.  _  cu  — 

J;,.  tre  la  grande  maggioranza  dei  suoi   correligionari   ne  lo 

encomiavano  apertamente. 

Lo  dissi  e  lo  ripeto,  che  come  non  si  può  prendere, 

sovverchiamente   sul   serio,   Y  enfasi   ascetica   della   terza 
ì  Selva,  altretanto  è  da  farsi  di  tali  dicliiai*azioni. 

Ir 


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Vili. 


DEL    CAOS. 
Degli  stndi  sul  Folengo  e  sulla  mia  edizione. 

In  questo  capitolo  non  parlerò  che  di  tre  soli  studii, 
e  sarò  breve  pia  che  posso,  cioè  di  quello  di  Gioachino 
Di  Marzo  -^  Drammatiche  Rappreseti  fazioni  in  Sicilia  — 
Palermo  Lauriel  1876;  di  Adolfo  Gaspaiy  —  Portioli 
Attilio^  Le  Opere  Maccheroniche  di  Merlin  Cocaj\  1883^  — 
Literaiurhlatt  Jur  gennanische  und  romanische  Fhilologie 
Voi  II;  Alessandro  Lazio  —  Nuove  ricerche  sul  Fo- 
lengo —  Giornale  storico  della  letteratura  Italiana  1889. 
Torino  -  Loescher. 

La  pubblicazione  del  Di  Marzo  è  compresa  nella 
Biblioteca  storica  letteraria  di  Sicilia  voi.  XXIT,  e  vi  si 
contiene  del  Folengo  l'Atto  della  Pinta,  quale  fu  rappre- 
sentato nel  1581  a  Palermo,  dal  Viceré  Marc' Antonio 
Colonna,  e  la  Palermitana,  tolta  dai  due  esemplari  che 
possiede  la  Comunale  di  Paleraio. 

Di  questo  poemetto  in  terza  rima  ne  abbiamo  nella 
nosti'a  Comunale  un  esemplare  manoscritto  ed  un  altro 
alla  Cava  dei  Tireni,  dei  quali  esemplari  ho  fatto  cenno 
a  pag.  civ  della  prefazione  predetta. 

Poche  pagine,  venti,  dedica   il  Di  Marzo,   1'  egregio 


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—  crii  — 

bibliotecario  della  Comunale  di  Palermo,  a  questa  im- 
portante pubblicazione  della  quale  noi  mantovani  dob- 
biamo essere  gratissimi  :  Nulla  di  nuovo  ci  dice  il  dotto 
autore  nelle  poche  notizie  biografiche  che  ci  lornisce^del 
Folengo,  mentre  sono  molto  interessanti  quelle  che  ci  dk 
dell'atto  della  Pinta  specialmente,  e  delle  tre  tragedie 
sacre  di  S.  Cristina,  Caterina  e  Cecilia,  composte  dal 
Folengo,  le  quali  a  quanto  pare  dovevano  essere  una 
appendice  all'Atto  della  Pinta. 

Nel  suo  breve  scritto  però  aleggia  quello  spirito  di 
riverenza  alla  memoria  del  nostro  grande  poeta,  che  an- 
cora gli  è  tradizionalmente  tributato  dagli  abitatori  delle 
Ciambre. 

L' illustre  professore  delF  Università  di  Breslavia, 
Adolfo  Gaspaiy,  nel  sopracitato  periodico  tedesco  ha 
pubblicato  un  lungo  scritto  sul  Folengo  e  sulla  pubbli- 
cazióne dei  due  primi  volumi,  giudicandole  con  molta 
benevolenza,  della  quale  gli  rendo  grazie  affettuose,  per 
essere  egli  giudice  competentissimo  della  nostra  lettera- 
tura e  della  sua  storia,  del  Rinascimento  sopra  tutto, 
cosi  difficile  di  essere  inteso  dagli  stranieri.  Egli  ha  cre- 
duto bene  di  fare  alcuni  appunti  alla  mia  prefazione, 
ai  quali  l'autorità  della  persona  e  la  cortesia  sua  mi  ob- 
bligano di  rispondere. 

H  prof.  Gaspaiy  mi  fa  primieramente  due  cortesi 
rimproveri,  cioè  di  non  avere  date  le  varianti  tra  il  primo 
Baldo  del  1517  ed  il  secondo  completo  della  Toscolana, 
come  avevo  promesso  di  darle  nella  nota  I.  al  Baldo 
pag.  63,  64  del  primo  volume,  poi  di  non  avere  fatto 
un  esteso  esame  delY Orlandino  e  del  Caos  ed  anche  dello 
schema,  che  ora  rimane  dell'Atto  della  Pinta  e  della  Pa- 
lermitana, e  di  essermi  accontentato  di  tutti  cotesti  la- 
vori del  Folengo  di  farne  un  semplice  cenno  biblio- 
grafico. 


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—   CIV  — 

Una  sola  è  la  ragione  di  tale  ommisBÌone,  T  econo- 
mia del  lavoro  che  ero  chiamato  a  fare. 

Per  il  Baldo,  a  conti  fatti,  ho  veduto  che  il  dare 
tutte  le  varianti  equivaleva  a  riprodurlo  in  nota  pres- 
socchè  tutto  per  intero.  Oltre  a  ciò  il  Baldo  della  To- 
gcolana  ha,  per  ogni  Maccheronica,  almeno  duecento  versi 
di  pia  del  Baldo  della  edizione  prima.  Saiei  stato  quindi 
obbligato  a  segnai-e  anche  questa  differenza. 

In  quanto  all'  Orlandino  ed  al  Caos  veda  quanto  ne 
ho  scritto  in  questa  prefazione,  ed  egli  intende  bene  che 
tante  altre  cose  si  potevano  dire. 

Riguardo  all'Atto  della  Pinta  ed  alla  Palermitana 
escivano  addirittura  dallo  scopo  e  dal  carattere  della 
pubblicazione  che  mi  era  stata  affidata.  Tutto  al  piii  sa- 
rebbe stato  consentaneo  all'indole  del  mio  lavoro  il  fare 
imo  studio  critico  sui  tre  Baldi,  cioè  quello  della  Tosco- 
lana,  della  Boselliana,  che  avev.o  riconosciuto  essere  una 
perfetta  riproduzione  della  Cipadense,  e  l'ultimo  delle 
Ravani  e  Varisco  1561. 

Ma  questo  solo  lavoro  avrebbe  importato  (*he  scri- 
vessi un  volume  intero. 

Ma  anche  senza  ciò,  veda  l'egregio  Gaspary  dove 
sarei  andato  col  solo  studio  del  Caos  e  dell'  Orlandino^ 
e  colle  varianti  e  differenze  dello,  prima  edizione,  col 
Baldo  della  Toscolana. 

I  quesiti  ed  i  dubbi  che  egli  espone  in  base  alla 
lettera  di  Federico  II  Gonzaga  al  Paganini,  da  me  pub- 
blicata a  pag.  LXxxvi  ed  alla  pubblicazione  deìV Orlandino^ 
circa  l'uscita  dal  chiostro  ed  il  conseguente  ritorno  sono 
giustissimi,  ed  ora  li  vede  risolti  dal  fatto  accertato  clie 
il  Folengo  abbandonò  la  ftmiiglia  religiosa  non  già 
nel  1515,  come  concordemente  asseriscono  i  di  lui  bio- 
grafi, ed  ai  quali  bisogna  prestare  fede,  sino  a  prova  con- 
trarin,  bensì   dopo  il    1520,    forse    nel    seguente    anno   e 


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—  cv  — 

non  vi  fece  ritorno  che  nel  1534,  come  è  accertato  dal 
documento,  di  capitale  importanza  pubblicato  dal  Luzio. 
E  nel  medesimo  tempo  restano  chiariti  i  quesiti  sulla 
composizione  e  sulla  pubblicazione  del  primo  Baldo. 

Alla  pubblicazione  del  primo  Baldo  egli  era  già 
fi-ate,  ma  non  si  era  ancora  monacato  allorché  lo  scrisse, 
mentre  apparteneva  tuttora  alla  famiglia  religiosa  quando 
compì  il  lavoro  e  si  principiò,  su  esso,  V  edizione  To- 
scolana. 

Non  ammette  l'ipotesi  mia,  che  il  Vigaso  Coraio  sia 
il  pseudonimo  del  precettore  di  latino,  ed  asserisce  die 
altro  non  sia  che  una  invenzione,  del  Kavani  e  del  Va- 
risco.  Credo  che  abbia  i*agione,  ma  la  quistione  è  di 
poca  importanza,  poiché  non  si  può  negare  fede  quanto 
la  dire  nel  Caos  a  pag.  102,  a  Limemo.  Che  il  Maestro 
stto  sia  stato  o  meno  il  Vigaso  Coraio  non  guasta  come 
non  guasta  che  sia  una  finzione  degli  editori  del  terzo  Baldo, 
dal  momento  che  è  un  fatto  innegabile  che  il  Folengo 
rifece  per  due  volte  le  Maccheroniche,  e  che  l'ultimo  ri* 
facimento  lo  lasciò  manoscritto  alla  sua  morte,  con  altre 
carte,  il  quale  rifacimento  venne  pubblicato,  per  la  prima 
volta,  7  anni  dopo  che  era  morto.  Qualcuno  avrà  rac- 
colto le  cai-te  del  morto  poeta,  le  avrà  curate,  ed  indi 
fatte  stampare,  sia  o  no  colui  che  si  nasconde  sotto  il 
suddetto  pseudomino. 

In  nltimo  accorda  al  mio  lavoro  la  sua  esplicita 
approvazione  della  quale,  come  degli  appunti  fatti  in 
modo  cortesissirao,  lo  ringrazio  cordialmente. 

Lo  studio  del  Luzio  è  importante  per  ogni  verso. 
Egli  ebbe  la  fortuna  di  rinvenire  nell'Archivio  Gonzaga 
un  doctunento  prezioso,  che  ora  riproduco,  il  quale  chia- 
risce il  punto  controverso  del  ritorno  del  Folengo  al 
chiostro  ;  reca  poi  anche  una  somma  rilevante  di  criterii 
e  di   giudizii  sul  poeta,  e    sulle  sue   opere,   esatti,  come 


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—  evi  — 

quelli  che  sono  il  frutto  di  un  esame  accurato  di  coleste 
opere.  Egli  vi  ha  inteso  lo  spirito  che  le  domina,  che  le 
reildono  un  monumento   nel   suo  genere,    inimitabile  ed 

f  insuperabile  della  rinascenza. 

j'.  Noi  mantovani  dobbiamo  essere    sinceramente   grati 

deir  opera  sua,  la  quale  concorre  a  fere  sorgere  nella 
pubblica  estimazione  questa  nostra  grande  individualità, 
che  i  Francesi  non  si  peritarono  di  riconoscerla  il  pro- 
totipo del  lora  Rabelais. 

5.  Nei  giudizi!,  quindi,  e   nelle    quistioni   fondiuiientali 

y  mi  trovo  pienameate  d'accoi"do  con    lui,  non  così    in  al- 

cuni punti  di  secondaria  importanza. 
Mi  occupo  dei  principali  soltanto  : 

1.  Il  ritorno  al  chiostro.  Le  incertezze  ed  i  di- 
spareri sopra  questo  quesito  non  sono  pochi,  né  ignorati  ; 
credo  inutile  il  riferirli,  molto  pia  che  si  rispecchiano  an- 
che nella  mia  prefazione  del  primo  volume.  Ora  la  qui- 
stione  è  risolta  mercè  il  documento  scoperto  e  pubbli- 
cato dal  Luzio.  È  una  lettera  che  il  presidente  della 
Congi'egazione  benedettina  di  S.  Benedetto  di  Polirone, 
assieme  ai  suoi  definitori^  scrive  al  duca  di  Mantova,  Fe- 
derico 2**,  in  data  dell'  8  Maggio  1534,  nella  quale  gli 
annuncia  di  avere  acconsentito,  dietro  le  sue  vive  istanze, 
di  riammettere  nella  famiglia  religiosa  i  due  fratelli, 
egualmente  profughi,  Giov.  Battista  e  Teofilo  Folengo. 
Questa  è  la  lettera. 

I  "  IlLmo  ed  Eccmo  S.re   Patrone  e  benefattore   no- 

"  stro  singolarissimo  ecc. 

"  Benché  Don  Giov.  Bap.ta  e  don   Theophylo    Fo- 

"  lengi,  poy  che  usìrono  de  la  religione,  per  molto  tempo 

^  et  molte  prece  habbiano  instato  di  essere  de  novo  re- 

"  ceputi,  non  di  meno  mai  hanno  possuto    impetrare   la 

"  loix)  restitutione,    fin  ad  ora  che   essendosi    dignata  la 


^    ^_ 


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—    CVII   

"  S.  V.  IlLma  beniguamente  intercedere  et  pregare  per 
"  e«8Ì,  possendone  comandare,  a  contemplatione  di  quella 
^  quale  non  manco  è  amata,  quanto  è  riverita  in  questa 
"  Congregatione,  tutto  el  Capitolo  unanime  si  è  disposto 
"  condescendere  alli  loro  desiderij  et  così  di  bona  vo- 
"  glia  li  liavemo  racettati,  prompti  a  compiacerlo  in 
"  maggior  cosa,  possiamo  per  Lev.  Et  sperando  che  sì 
"  come  li  predetti  sotto  l'umbra  della  E."  V.  hano  con- 
"  seguito  tal  gi'atia,  a  pochi  concessa,  con  tanto  favore, 
"  che  anche  per  rispeto  suo,  se  debiano  disporre  a  de* 
"  portarsi  meglio  per  Tavenire  che  non  hanno  facto  per 
"  el  passato,  alli  comodi  di  quella  se  off  remo  insieme, 
"  alla  bona  gratia  sua  ricomandandosi,  la  quale  el  S.re 
"  Dio  conservi  lungamente  felice. 

"  In  S.to  Ben.to  de  Padol.ne  a  di  Vili  di  ma- 
«  gio  MDXXXniL 

"  Di  V.  IlLma  S.  fi  delissimi  servitori 

"  Don  Leonardo  presidente 
"  ed  altri  defènri  del  Capitolo  Generale  „ 

Le  conseguenze  che  si  vengono  a  tiaii-e  da  questo 
documento  sono  indubbie. 

Egli  non  abbandonò  il  chiostro  che  una  volta  sola. 
Trovando  velo  ancora  alla  fine  del  1520,  ne  viene  che 
non  ne  sia  uscito  prima,  e  quindi  cade  quello,  che  fin 
qui  fu  ammesso,  che  ne  sia  uscito  nel  1515. 

Non  essendovi  riamesso  che  verso  la  metà  del  1534, 
resta  distrutta  l'altra  costante  asserzione  che  il  ritorno 
sia  accaduto  nel  1527. 

.Pertanto  egli  ne  esce  giù  dal  1520  e  vi  entra  alla 
metà  del  1534.  con  una  assenza  di  12  o  13  anni.  E 
questo  è  molto  importante  per  la  sua  biografia,  ma  ben 
più  importante  riesce  la  certezza  di  questo  fatto  nell'or- 
dine morale.  Con    ciò,   lo  dissi    e  lo  ripeto    ci    poniamo 


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h   *  —    CVIII   — 

•  in  grado  di  intendere  il  carattere  e    lo   scopo  del    Caos^ 

di  quel  Caos,  che  sino  ad  ora,  fu  un  vero  labirinto  ine- 
stricabile ed  impenetrabile  per  gli  studiosi. 
<  Intendiamo  che  esso  non  è  che  la  sua  auto  biografia, 

morale  e  religiosa. 

.,  Per    quelle    ragioni    e    motivi    che    noi  ignoriamo, 

I  avendo  deciso  di  ritornare  alla  vita  religiosa,    ti'pva   ne- 

«^  cessano  di  mandare    avanti    la  sua  professione    di    fede, 

la  esposizione    delle  sue  vicende    morali  ed    intellettuali 

neir  intento  di  provare  che  egli  era    ritornato  alla    vera 

j,  credenza,   che  nel  suo   intelletto   non  si   dibattevano  piìi 

i  dubbi,  sórtigli  per  i    problemi   della   scienza,    che  egli 

trovava  in  contradizione  coi  dogmi  religiosi,  e  questi  con 

quelli,  ma  che  limpida    e  serena  in    lui    si    rifletteva  la 

fl\  fede,  e  questo  con  tutte  quelle   contradizioni  che  ho    in 

diverse  riprese  notato. 

^  Dalla  lettera  del  presidente   benedettino  intendiamo 

?/  che  molte,  lunghe  e  persistenti  erano  state  le  istanze  sue, 

^'  assieme  a  quelle  del  fratello  maggiore,  onde    ottenere  la 

•:  desiderata   riammissione,    le    quali,  sino   alla    lettera   del 

Duca  Federico,  emno   rimaste   inefficaci   e   lo    sarebbero 

rimaste,  probabilmente  per  sempre,  senza  1'  intei*vento  del 

principe,  al  quale  la  Congregazione  di  S.  Benedetto  nulla 

poteva  negare* 

La  Tiascita^  lo  studio  a  Bologna  —  la   monacazione. 
I  tre  quesiti  si  leggono  insieme  dalla  reciproca  incertezza 
del  punto  di  partenza. 
^^  Dallo  studio  del  Luzio  parmi  che,  almeno  approssi- 

[  mativamente  venga    sciolto   il    secondo,   dello    studio   di 

Bologna;  mentre  gli  altri  due  restano  ancora  nella  loro 
indeterminatezza,  per  quanto  siano  stringenti  gli  argo- 
menti suoi  onde  dare  ad  essi  una  data  diversa  da  quella 
che  fin  qui  ebbero  dai  biografi  del  Folengo. 

Essendo    certa   Y  andata    del    poeta    allo    studio    di 


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2-*?^ 


y 

—    CIX    — 

Bologna  allorché  vi  era  il  Pomponazzo,  provando,  cai 
documenti  alla  mano,  dell' Archivio  Gonzaga,  che  il  Pom- 
ponazzo principia  il  suo  insegnamento  nel  maggio  1511, 
ne  viene  che  il  Folengo  vi  si  sia  recato  da  questa  epoca 
in  poi,  e  probabilmente  tosto  dopo. 

Egli  poi,  basandosi  specialmente  sui  primi  due  versi 
della  2*  quartina  del  sonetto  premesso  alla  terza  Selva, 
che  dicono  : 

TanV  alto  salirò^  che  mi  soccomba 
Chi  ha  il  giro  di  trenV  anni .... 

ed  anche  sugli  altri  due  che  si  leggono  sulla  fine  della 
terza  Selva  a  pag.  200. 

Vedrò  se  7  dehil  filo  non  si  taglia 
Nel  mezzo  del  camin  di  nostr*a  vita, 

si  intese  di  sciogliere  il  quesito  della  nascita  e  ^^lla 
monacazione. 

Anche  néìY  Orlandino   si   accenna   a  questi    trenta 
anni,  come  al  Gap.  I  stanza  III 

Boezio  da  trenf  anni  sul  tagliere 
Mi  dà  sempre  ristor  .... 

Fino  da  quando  scrissi  la  prima  prefazione  mi  sono 
convinto,  e  lo  dissi,  che  tutta  la  vita  del  Folengo  era  da 
rifarsi,  che  Tedificio  penosamente  costrutto  dallo  Zeno, 
dal  Fontanini,  dal  Gradenigo,  dal  Teranza  non  era  so- 
stenibile. Adesso  vediamo  verificarsi  il  giudizio,  l'edifizio 
sfasciarsi  da  pifi  parti,  cadere  sotto  i  colpi  di  documenti 
inappuntabili,  vediamo  i  fatti  asseriti  essere  diversi  per 
il  tempo  in  cui  sono  accaduti,  e  per  T  indole  loro,  da 
quelli    che    i    suddetti    biografi  li    hanno    narrati.    Però 


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—  ex   — 

credo  che  nella  demolizione  si  debba  andar  guardinghi  ; 
cioè  non  farla  accadere  da  supposizioni  od  interpreta- 
zioni, le  quali  per  quanto  siano  giustificate,  da  ragioni 
ed  indagini  restano  sempre  tali  quali  sono.  Solo  i  docu- 
menti devono  e  ponno  operare  l'opera  di  distruzione,  in 
mancanza  dei  quali  conviene  tenere  Tantico,  quantunque 
se  ne  faccia  un  giudizio  così  sfavorevole. 

Non  so  quindi  decidenni  di  accogliere  come  accer- 
tate le  due  date  che  il  Luzio  dk  alla  nascita  ed  alla  mo- 
nacazione del  Folengo,  le  quali  potranno  essere  vere, 
ma  anche  non  lo  potrebbero  essere. 

Egli  ritiene  che  la  monacazione  sia  accaduta  dopo 
la  fuga  da  Bologna  del  Folengo,  giù  dal  1512,  e  basan- 
dosi su  di  ciò,  e  sulla  interpretazione  dei  versi  succitati 
che  il  poeta  avesse  30  allorché  scriveva  il  Caos^  che  ri- 
tiene nel  torno  del  1526,  lo  fa  nascere  nel  1496. 

E  il  conto  non  sarebbe  discorde  con  quanto  dice  il 
Folengo  della  età,  che  aveva  allorché  si  fece  frate,  15, 
o  16  anni,  perchè  ritardate  le  due  date  di  tre  anni,  re- 
stano ancora  i  15,  o  16  anni  suddetti. 

La  prova  maggiore  che  Luzio  ha  in  favore  della 
sua  tesi,  per  la  monacazione,  la  attinge  da  questi  versi 
che  egli  toglie  dalle  Cipadense^  libro  secondo,  che  corri- 
sponde alla  22'"*  Maccheronica,  che  narrano  la  fuga  del 
poeta  da  Bologna, 

Ihlia  Merlinus  nobis  essendo  scolarus 

Cantavit  pa^ris,  non  ut  zentaja  bajaffat^ 

Quando  cucullatae  pralicabcU  clauslra  brigalae, 

Nonduia  finterai  Baldi,  confesso,  volumen 

Ille  bisogìiavU,  nascenle  disordine  magno. 

Se  scampare  viam,  mentemque,  abitumque  sub  arda 

Ijege  baralavil,  Baldum  reliquil  iìianem. 

Questo  mutamento  di  abito  e  di  mente,  sotto  legge 
severa,  il  Luzio  crede  che  indichi  la  monacazione. 


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—   CXI    — 

Ciò  è  probabile,  ma  non  panni  certo.  Poi  vi  sono 
altri  dubbii. 

Il  Poniponazzo  fu  chiamato  a  Bologna  nell'Ottobre 
del  1511,  e  vi  sarà  andato  senza  indugio,  ma  il  Folengo 
quando  vi  è  andato?  dopo  del  Pomponasso^  od  assieme 
a  lui?  e  quanto  vi  stette?  anni,  mesi?  e  quando  se  ne 
palli  ? 

Ritengo  che  abbisogni  sciogliere  prima  questi  quesiti 
per  essere  sicuri  che  l'induzione  della  monacazione  al 
dicembre  del  1512  sia  sicura,  lasciando  a  pai-te  ogni  dis- 
quisizione sulla  interpretazione  dei  surriferiti  versi. 

Un  appoggio  sicuro  non  parmi  lo  diano  i  versi  del 
CaoSy  primieramente  perchè  non  è  certa  la  data  precisa 
della  composizione  del  Caos  e  di  tale  incertezza  ne  par- 
lai a  pag.  XXXVI,  di  questa  prefazione,  onde  non  si  può 
avere  per  punto  di  partenza  a  fare  dei  calcoli  ciò  che 
non  è  determinato,  e  secondariamente  perchè  se  nel  Caos 
e  m\Y Orlandino  si  parla  di  trenta  anni  si  parla  anche  del 
mezzo  del  carain  della  vita,  che  non  sarebbe,  secondo 
ropinione,  comunemente  ammesso,  a  trenta  anni. 

Non  dico  che  i  calcali  di  Luzio  siano  sbagliati,  ben 
altro,  dico  soltanto  che  sono  insufficentemente  provati, 
perchè  abbiano  a  distruggere  la  attendibilità  delle  due 
date  ammesse  dai  predetti  biografi,  quella  del  1482  per 
la  nascita,  e  Taltra  del  1509  per  la  monacazione. 

Questa  poi  sembrami  suffragata  di  prove  più  auto- 
revoli  di  quella  del  Luzio,  perchè  TArmellini  la  desunse 
massimamente  dai  registri  del  chiostro,  ex  nostris  regestis^ 
ed  io  sono  in  grado  di  addurre  la  testimonianza  di  un 
altro  registro,  proveniente  dal  chiostro  di  S.  Benedetto 
di  Polirone,  che  si  conserv^a  fra  i  codici  manoscritti  della 
nostra  biblioteca  comunale. 

n  codice,  porta  il  titolo  :  Matricida  —  Omnium  — 
Mona  —  cho  —  r^a  —  m  —  Congregationis  —  nostrae. 


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t 


y  —   CXII   — 

L  A  cai-te  42.  t.  nelFeleuco  generale  dei  professi  della 

Congregazione  intera  cassinense,  sotto  Tanno  MVIIII,  vi 
è  notato 
h  .        In  S.  JSuphemia  —  D.  TheophUtts  de  Momtua  —  24  Junii. 

e  in  margine  si  ha  questa  annotazione,  sincrona  alla 
registrazione  :  Theophilus  iste  est  —  poeta  qui  Macaro 
—  neam  composuit  —  et  alia  ptUcherima  —  opera  edidit 
lec  —  tu  dignissima  —  et  Merlinus  dictus  est  —  et  se- 
ptdttts  in  Ecclesia  —  Sa/nctae  Crucis  de  Campesio  — prope 
Baxianmn. 

A  carte  189,  nell'elenco  speciale  dei  professi  di   S. 
gt  Eufemia^  abbiamo:  In  S.  Euphemia  —  D.  Theophilus  de 

Ì<  MantìM^  24  Jwaii  1609  ed  in  margine  in  carattere  del- 

^  r  istessa  epoca  della  prima  annotazione,  leggesi  :  n 

'^  Iste  jecit  Ma^aroneam  et  —  sepvltus  est  in  Monas. 

\>  —  S,ae  Crucis  de  Campes. 

%  Tanto    neir  elenco  generale    che  nello    speciale   dei 

^  '  professi  in  S.  Benedetto  di  Polirone,  sotto  la  data  del  9 

Aprile  1497,  professa  un  D.  Ludovicus  de  Mantua. 

Paiimenti  fra  i  professi  di  S.  Benedetto    nell'  uno  e 
''  neir  altro  elenco,  si  legge  che    3  Ottobre  1507,  professa 

'  nel  monastero   suddetto,  un  D.  lo.   Baptista   de  Mantua, 

^  I  nomi  e  la  loro-  provenienza   da   Mantova  concor- 

dano   con  quelli   dei  tre  fratelli    Folengo,    monachi    del- 
l'ordine •  benedettino,  e  come  si  potrebbe  asserire  che  non 
'y  uiano  essi  ? 

^^  Che  siano  essi,  ne  abbiamo    una    prova  in  ciò   che 

^  la  data  della  professione  del  Griov.  Battista,  coincide  con 

I  quanto  egli  dice  nei  PomUiones  che  nel  1542,  avesse  52 

f        *  anni    di    età   e]  che    da   trenta   sei  anni  portasse  il  nero 

^*  abito    benedettino,    i  quali  3G    anni    si    compievano   ap- 

^  punto    nel  1542,  avendo   vestito  Tabito  nel  1506,  per  il 

V  noviziato,  e  professato  i  voti'  nel  1507. 

^  Il  registro  fu  cominciato  entro    il   primo    ventennio 


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—    CXIII  — 

della  seconda  metà  del  secolo  XVI,  e  quindi  pochi  anni 
dopo  la  morte  del  poeta,  e  perciò  da  un  suo  contempo- 
raneo, che  lo  principiò  e  lo  condusse  sino  ai  primi  anni 
del  terzo  decennio.  Al  1575  incomincia  un'  altra  mano. 

La  compilazione,  la  quale  ha  totalmente  un  carat- 
tere storico,  e  a  questo  intento  fu  fatta,  venne  eseguita 
senza  dubbio  sulle  memorie  e  sugli  atti  dell'ordine,  che 
noi  sappiamo  che  erano  accuratamente  e  gelosamente 
custoditi.  Sappiamo  anche  che  ogni  casa  religiosa  aveva 
il  proprio   registro. 

Il  codice  ha  quindi  una  grande  autorità,  e  concorda 
con  quello  che  consultò  l'Annellini  e  che  gli  ha  fornita 
la  notizia  della  monacazione  del  Folengo  al  24  Giù- 
^0  1509. 

Come  si  può  a  non  prestargli  fede?  onde  potere 
negare  la  veracità  sua,  o  in  tutto,  od  in  parte,  occor- 
rono delle  prove  e  delle  testimonianze  irrefragabili,  che 
ora  non  si  hanno. 

Né  vi  è  il  caso  di  equivocare,  poiché  noi  vediamo 
che,  tanto  nell'  elenco  generale  di  tutto  Y  ordine,  quanto 
in  quelli  speciali  di  ciascuna  famiglia,  né  prima  né  dopo 
il  1509,  si  trova  un  Teofilo  da  Mantova. 

Se  poi  la  data  e  il  luogo  della  professione  non  sono 
quelli  dei  tre  fratelli  Folengo,  se  costoro  professarono 
in  qualche  altra  epoca,  e  luogo,  e  perciò  se  quelle  an- 
notazioni non  riguardano  loro,  ma  altri  individui  manto- 
vani, quando  ed  in  quale  luogo  professarono  essi? 

Lri  Toscolana  —  La  Cipadense  —  Le  Ravani  e 
la  Varisco  1561. 

Non  mi  accordo  col  giudizio  che  il  Luzio  fa  della 
Cipadense  e  delle  Ravani  e  Varisco  1561. 

Egli  ritiene  il  Baldo  della  Cipadense  preferibile  di 
gran  lunga  a  quello  della  Toscolana,  e  a  provare  la 
ragionevolezza  della  sua  preferenza  adduce  parecchi  passi 


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—   CXIV    — 

dell'uno  e  dell'altro  Baldo,  ed  è  una  verità  che  quelli 
della  Cipadense  sono  fatti  con  maggiore  cura  di  detta- 
glio e  la  scena  che  dipingono  riesce  più  viva  e  più  co- 
lorita. Ma  non  è  sempre  così  ;  altre  volte  la  scena  fre- 
sca, armonica,  evidente,  descritta  nella  Toscolana,  rimane 
dilavata,  e  stemperata  nella  sovrabbondanza  di  inutili 
particolari,  altra  volta  si  trova  i  versi  rifatti  assai  meno 
belli  dei  primi.  Riferisco  un  esempio,  quello  che  ci  narra 
l'andata  di  Baldo  a  scuola  —  La  Toscolana  dice  :  pag.  82 
Macc.  IL 

Ergo  scolam  Baldiis  laetanter  pergere  coepil^ 
Inque  tribus  niagnum  profectum  fecerat  annis. 
lam  quoscumque  libros  velociter  ipse  legébaL 
Sed  mox  Orlandi  nasaì^e  volumina  coepity 
Non  vacat  ultra  deponentia  discere  verha^ 
Non  species,  numerosa  non  casus  atque  figuras. 
Non  doctìHnalis  versarnina  tradere  mentL 
Fecit  de  norma  scartozzos  mille  Donati 
Inque  Perotiimum  librimi  salcicia  coxit.  ecc. 

E  la  Cipadense,  alla  terza  maccheronica,  cai\  24: 

Ergo  scholam  Baldus  nisi  non  idtronei<s  ibat 
Nam  quis  erat  tanti  seu  mater,  sive  pedanlus^ 
Qui  tam  lerribilem  posset  forzare  putinum  ? 
Jamque  tribus  magnum  prof  ecium  fecerat  anni% 
Ut  quoscumque  libros  legeret  nostrique  Maronis. 
Descriptas  guerras  fertur  recitasse  pedunto, 
At  mox  Orlandi  ìiasare  volumina  coepity 
Non  deponentum  vacat  ultra  ediscere  normasy 
Non  speciesy  nunwros,  non  casusy  atque  figurai. 
Non  doctrinalis  rersamimi  tradere  mentiy 
Non  hinCy  non  illiCy  non  hoCy  non  illoCy  et  altra.^ 
Mille  pedantorum  tradere  bajasy  totidenque  fusaraSy 
Fecit  de  cujus  Donati  deque  Perotto 
Scaì'tozzosy  ac  sub  prunis  salcizza  cosivit. 


— ^^i*^ 


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>^ 


—  cxv  — 

Sono  cinque  versi  di  più,  clie  vi  ha  incastrato,  e 
con  essi  dei  particolai'i  di  Baldo  che  va  scuola  non  ne- 
cessarii,  né  opportuni. 

E  le  stesse  mutazioni  che  ha  fatto  ai  versi  della 
Toscolana  ne  scemano  considerevolmente  il  pregio,  V  ali- 
monia, la  freschezza,  e  basti  il  primo  verso  dei  citati 
per  provarlo. 

I  pregi  ed  i  difetti  delle  innovazioni,  ampliazioni  e  f^V 
modificazioni  della  Cipadense  si  equilibrano  ed  a  vicenda  '■'^^ 
si  distruggono,  e  perciò  non  la  rendono  né  migliore,  né  ;V^ 
preferibile  alla  Toscolana,  come  opina  il  Luzio,  tanto  da 
caldeggiarne  una  edizione.  Né  vale  il  dire  che  sia  la 
sola  acconsentita  dall'autore,  perché  in  questo  caso  il 
parere  del  pubblico  corregge  l'erroneo  giudizio  dell'  au- 
tore, come  lo  ha  corretto,  dandoci  undici  ristampe  della 
Toscolana,  ed  una  sola  della  Cipadense. 

Su  di  un  altro  punto  dissento  dal  Luzio,  nel  giudi- 
zio che  fa  del  Baldo,  edito  prima  dal  Ravanì  nel  1552* 

II  Gaspary,  come  ho  notato  precedentemente,  volle 
vedere  nel  Vigaso  Cocaj  una  finzione  dell'editore  Ravani, 
ma  IjUzìo  fece  un  passo  di  più,  un  passo  lunghissimo  a 
vero  dire,  asserendo  che  la  edizione  Ravani  non  é  che 
una  riproduzione  della  Cipadense,  ora  bene,  ora  male 
raffazzonata  dallo  stesso  editore,  e  quindi  una  ciurmeria, 
una  contrafazione  libraria  in  piena  regola. 

H  Vigaso  Cocajo  avrebbe  operate  le  alterazioni,  e 
le  manomissioni  nelle  tre  composizioni  maccheroniche 
della  Zanitonella,  del  Baldo  e  della  Moscheide,  onde,  far 
credere,  come  lo  dice  nella  prefazione  sua,  che  quanto 
veniva  a  pubblicare  era  un  nuovo  lavoro,  diverso  dai 
precedenti. 

Se  fosse  così,  la  sarebbe  una  frode  enorme,  nuova 
negli  annali  della  storia  letteraria. 

Io  non  so  se  il  Luzio  abbia,  a    sostegno   della   sua 


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CXVI   — 

asserzione  altre  e  piìi  convincenti  prove  di  quelle  che  ci 
ha  fatte  conoscere,  neanche  so  se  altri  prima  di  Ini,  ab- 
biano asserita,  o  soltanto  sospettata,  la  frode  del  Ravani, 
ma  non  panni,  perchè  Luzio  le  avrebbe  già  esposte,  non 
essendo  egli  bisognoso  di  sotterfugi  di  sorta,  né  essendo 
da  tnnto  da  usare  di  cotali  artifici.  Se  non  ce  le  fece 
conoscere  vuol  dire  che  non  le  ha,  né  presso  i  biografi 
ed  i  critici  del  Folengo  ho  mai  trovato  che  si  accampi, 
anche  solo  come  semplice  ipotesi,  il  giudizio  di  Luzio. 

E  vero  che  .nella  Toscolana  abbiamo  un  Epistolium 
coUericum,  magistri  Aqtmrii  ad  Scardaffum  Zaratanum. 
Merlini  poematis  corruptorem^  il  quale  Epistolium  venne 
riprodotto  dalla  Bevilacqua  1564,  dalla  Varisco  1573, 
dalla  Imberti  1585  etc,  ma  lo  Scardaffo  Ciaratano^  non 
può  essere  il  Ravani,  perché  la  sua  edizione  é  posteriore 
di  ben  32  anni  della  Toscolana. 

Sono  di  'avviso  che,  tutto  al  più,  si  debba  stare  col 
parere  del  Gaspary  che  il  nome  e  la  prefazione  di  Vi- 
gaso  Cocajo  li  ritiene  una  finzione  del  Ravani. 

Forse  sarebbe  stato  più  semplice  il  dirli,  addirit- 
tura, una  finzione  dello  stesso  Folengo,  preparata  avanti 
la  morte,  poiché  cotesto  espediente,  si  può  dire  che  lo 
ha  usato  in  tutte  le  edizioni  precedenti. 

Lo  ha  usato  nella  Cipadense,  usando  del  nome,  e 
forse  anche  della  persona  di  Francesco  Folengo.  Lo  ha 
usato  nella  Toscolana,  negando  prima  il  manoscritto  al 
Paganini,  dandogli  poi  sotto  mano  T  Apelogetica^  e  la 
Normula^  che  sono  due  cose  fatte  appositamente  per  la 
stampa.  Lo  ha  usato,  nella  edizione  del  1517,  facendo 
credere  un  rapimento  del  manoscritto,  e  stampato,  liù 
insciente  e  contradicente. 

Ma  da  un  espediente  simile  ad  una  frode,  quale  de- 
nuncia il  Luzio,  ci  corre  molto. 

Così,  adunque,  come  si  é,  non  sembrami  fondato  il 


k. 


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l 


—    CXVIl   

pai-ere  che  Luzio  fk  delle  Ravani,  e  conseguentemente 
(Iella  Varisco  1561,  alla  quale  si  aggiugne  T  anonima 
del  1562,  che  non  è  che  una  seconda  edizione  del  Va- 
risco, diversa  per  tipi  e  formato  dalla  precedente,  ma 
identica  nella  sostanza.  Tutto  ciò  non  scema  il  merito 
dello  studio  del  Luzio,  il  quale  studio  non  esito  a  dirlo 
il  più  considerevole  che  siasi  fatto,  sin  ad  ora,  intorno  al 
nostro  poeta  *). 


IX. 

LA  cipadensp:. 


Parecchie  volte  nello  svolgimento  del  precedente 
capitolo  mi  è  accorso  di  fare  cenno  della  edizione  delle 
maccheroniche  del  1530,  che  porta  la  data  di  Cipada,  che 

0  Dalla  cortesia  del  Big.  Marchese  Alberto  Capilupi  ebbi  questa 
memoria  preziosa,  che  riguarda  il  Folengo,  la  quale  può  venire  utile  al- 
lorché del  poeta  si  avranno  raccolte  maggiori  notizie,  di  quelle  che  si 
hanno  adesso,  per  scriverne  la  vita. 

La  memoria  è  tratta  dal  codice  manoscritto  contenente  la  Vita  di 
Lelio  Capilupi  seniore,  assieme  a  quelle  di  altri  Capilupi,  compilate  da 
Camillo  Capilupi,  protonotario. 

«  Lelio  nacque  a  bore  XXIII  del  MCCCCLXXXXVII,  fu  mandato 
dal  padre  allo  studio  di  Bologna,  acciocché  desse  opera  a  quello  della 
legge,  ma  egli  avendo  pigli  ita  amicitia  col  Folengo  frate  benedettino,  un 
poco  suo  parente,  nel  viaggio  che  faceva  da  Mantova  a  Bologna,  il  Fo- 
lengo gii  fece  vedere  più  volte,  in  molto  segreto,  l'opera  che  lui  faceva 
in  versi  da  lui  chiamati  maccaronici,  onde  poi  chiamò  l'opera  Maccaro- 
nea,  et  il  libro  intitolato  Merlin  Cocaj.  Il  Capilupi  adunque  invogliato 
della  poesia  di  quel  genere  si  diede  anche  egli  a  compierne  et  ne  fece 
parecchie,  con  quali  dilettava  molto  li  scolari  suoi  compagni  ed  io  mi 
ricordo  haverne  udito  recitare  alcune  a  Papa  Pio  4°,  che  era  uno  dei  suoi 
amici  et  cominciava  —  Pdsqica  Felina  Pintcs  —  alludendo  ad  uno  sco- 
lare genovese  detto  il  Pasqna,  che  poi,  di  medico,  fu  fatto  Cardinale  dal 
medesimo  Papa » 


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—  cxvra  — 

per  ciò  è  detta  la  Cipendense,  comecché  esistesse  real- 
mente, in  c>ontradizione  a  quanto  dichiarai  nella  prefa- 
zione del  primo  volume  a  pag.  cix.  che  la  dissi  in-epe- 
peribile,  nonostante  le  molte  ricerche  che  io  ne  avevo 
fatte  nelle  principali  biblioteche  europee.  Ora  devo  spie- 
gare l'apparente  contradizione. 

Alla  perfine  un'  esemplare  dell'  edizione  di  Cipada 
venne  ritrovato,  e  il  fortunato  possessore  del  prezioso 
libro,  che,  a  mia  cognizione,  è  l'unico  esistente,  è  il  par- 
roco di  Campese,  don  Francesco  Sartori,  il  benemerito 
rlstauratore  del  monumento  sepolcrale  del  Folengo. 

Avendo  egli  letto  quanto  io  diceva  di  questo  libro 
nella  suddetta  mia  prefazione,  non  indugiò,  né  esitò,  un 
istante  di  metterla  a  mia  disposizione  per  un  anno, 
con  atto  cortesissimo,  onde  me  ne  giovassi  nella  ri- 
stampa di  questo  terzo  volume,  del  che  io  gli  rendo  le 
pih  vive  grazie. 

Le  indicazioni  che  ne  dk  lo  Zeno  e  che  io  riferii  a 
pag.  Lix,  della  prima  prefazione,  sono  esatte,  meno  quella 
che  la  segnatura  del  luogo  della  stampa  e  dello  stam- 
patore —  Cipadae^  apnd  Magistrum  Aquarium  Lodolam^ 
stia  sotto  il  busto,  mentre  gli  sta  sopra  e  precisamente 
subito  dopo  la  lettera  di  Nicolò  Costanti,  mentre  sotto 
gli  epigrammi,  e  avanti  \  errata  corrige^  vi  è  una  rap- 
presentazione, che  lo  Zeno  non  ha  rilevato,  forse  perchè 
non  ne  intese  il  significato. 

Vi  è  un  agnello  ritto,  colla  testa  verso  terra,  da- 
vanti al  quale,  appeso  ad  un  tronco,  sta  un  caitello,  sul 
quale  si  legge  la  parola  PERIERAT,  che  è  parte  del 
passo  del  Vangelo,  perierat  et  inventus  est,  che  si  riferi- 
sce alla  parabola  della  pecora  smai-rita. 

In  questa  pecora  smarrita,  o  agnello  è  simboleg- 
giato il  Folengo  ravveduto  e  pentito,  il  che  conferma  il 
carrattere  confessionale  del  Caos. 


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—   CXIX   — 

Consta  di  carte  321,  formato  bislungo,  e  caratteri 
aldini. 

DalFesame  che  ne  ho  fatto  mi  sono  convìnto  che 
avevo  ragione  di  snppore,  che  la  Boselliana  ne  fosse  una 
esatta  riproduzione,  perchè  in  questa  nulla  si  trova  di 
mutato,  o  di  diverso  dal  suo  prototipo.  Una  cosa  sola  ha 
ommesso  la  Boselliana,  quella  di  riprodurre  il  busto  del 
Folengo,  e  la  pecora,  percui  d'ora  in  poi  gli  studiosi  che 
non  abbiano  la  fortuna  di  avere  fra  le  mani  la  Cipadense, 
a  vece  di  essa,  ponno  adoperare  la  Boselliana. 

Un  ringraziamento  lo  deve  anche  al  Marchese  Ip- 
polito Cavriani,  e  glielo  faccio  cordialissimo,  perchè  an- 
che questa  volta,  con  generoso  sentimento,  mise  a  mia 
disposizione,  per  la  durata  del  lavoro,  tutte  le  sue  molte 
e  preziose  edizioni  delle  opere  del  Folengo. 

Attilio  Portiou. 


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L'ORLANDINO 


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ORLANDINO 


PER 


LIMERNO  PITOCCO 


DA  MANTOVA 


COMPOSTO 


FÉ 


mm^ 


GO 


Mensibus  istud  opus  tribus  indignatio  fecit. 

Da  medium  capiti  notior  author  erit. 
Orlandum  canimus  parvum,  parvum  inde  volumen. 

Si  quid  turpe  sonat  pagina  vita  proba  est. 


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SONETTO  DEL  AUTORE 


Molte  malìzie  copre  in  se  la  volpe 
I  perde  chi  le  crede  fin  al  ^)  gallo  ; 
Ragion  però  non  era  che  '1  cavallo, 
L'  ossa  tenendo,  a  lei  desse  le  polpe. 

I  t'  arricordo  che  per  V  altrui  colpe, 
Nanti  la  piva  entrat'  ì  son  in  bailo  ; 
Volsi  por  man  in  trasmutar  metallo, 
Senz'  arte,  ond*  è  chi  mi  disnervi  e  spolpe^/. 

Cotesta  mercanzia  mi  vien  di  Fiandra, 
Ove  lo  seme  nacque  de'  pedocchi. 
Che  musico  gentil  m' han  fatto  d'arpia. 

Così  fusse  l'autor  de  la  Leandra 

Acciò  che  'I  cancar  gli  mangiasse  gli  occhi, 
hi  un  fondo  di  torre  fatto  a  scarpa^) 


1)  Al:  lotnbarclisrao  invece  di  U,  clic  lascio,  come  lascio 
tutti  gli  altri,  che  non  sono  pochi,  che  trovansi  nel  poema, 
messivi  appositamente  dal  Folengo,  e  cOc  ne  costituiscono  una 
caratteristica. 

2)  Allude  alle  sue  peripezie  di  fede. 

3)  Non  è  conosciuta  la  cagione  dello  sdegno  del  Fo- 
lengo contro  Pietro  Durante  da  Gualdo,  autore  del  poema  la 
Leandra.  Il  Folengo  bistratta  il  Durante  anche  verso  la  fine 
della  Maccheronica  XXV  a  pag.  207  e  seguente. 


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Orlandino 

A 

FEDERIGO  DI  MANTOVA 
Marchese  Illustrissimo 


CAPITOLO  PRIMO 


IVlAONANiMO  Signor,  se  'n  te  le  stelle 
Spiran  cotante  grazie  largamente, 
Piovan  più  tosto  in  me  calde  frittelle, 
Che  seco  i   iK)8sa  ragionar  col  dente: 
Dammi  bere  e  mangiar,  se  vuoi  pifi  belle 
Le  rime  mie  ;  eh'  io  d' Elicon  niente 
Mi  curo,  in  fé  di  Dio  ;  che  '1  bere  d' acque, 
Bea  chi  ber  ne  vuoi,»  sempre  mi  spiacque. 

n 

Ben  ti'ovo  eh' un  fiascone  di  buon  grego 
Versi  cantar  mi  fa  di  venti  piedi  ; 
Tanti  dottori  disputando  allego, 
Che  a  me  più  che  a  Tommaso  e  Scotto  credi; 
Né  dirti  so  cotanti  probo^  nego^ 
Purché  qualche  argomento  mi  concedi; 
Non  parloti  (1)  cristero,  né  supposta, 
Ma  qualche  buon  cappon,  od  oca  rosta. 


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Orlandino  —  Capitolo  1 


III 

Ti  accei'to  ben,  ch'io  canto  il  Miserere^ 
Ne  ad  vitulos  son  anco  giunto  mai; 
Boezio  (2)  da  trent'anni  sul  tagliere 
Mi  dà  tempre  ristor,  si  come  sai  ; 
Però,  se  vuoi  ch'io  canti,  o  bel  missere. 
Dà  del  fiato  alla  piva  o  poco  o  assai, 
Fiato  di  ciance  nò;  ma  intendi  bene, 
Mangian  e  bevon  anco  le  Camene. 

IV 

O  tempi  grassi,  o  giorni  fortunati. 
Quando  e'  Poeti  si  trovomo  buoni, 
Mercè  Gian  Bocca  d'or  de' Mecenati, 
Che  ingrossar  fenno  già  molti  Maroni  ; 
Or  non  così  piìi  nò  ;  ch'oggi  pia  grati 
Son  gli  ubbria<3hi,  sguattari,  e  buffoni. 
De'  quelli,  che  immortai  pon  fare  altrui  ; 
Perchè  est  apprezzan  piti  d' eram^  e  fui. 


Ma  tu,  lettor,  chi  sei  ?  fermati  al  varco 
Aliti  che  '1  mio  battei  entrar  comince: 
Tratti  in  disparte,  se  d'invidia  carco 
Guardi  cagnesco,  ed  hai  vista  di  lince; 
Tal  mercanzia,  t'avviso,  non  imbarco. 
Perchè  talor  la  collera  mi  vince, 
E  la  senapa  montami  si  al  naso 
Ch'io  non  sto  a  dir,  va  dietro^  Satarmso*^ 

VI 

Anzi  col  pugno  ti  rispondo  all'occhio, 
Di  ciò  che  parli  in  questa  e  quella  orecchia. 
Poltron  che  sei,  non  vedi  ch'ai  ginocchio 
Rotta  ho  la  calza  e  la  gonnella  vecchia? 
Non  odi  tu  mia  voce  d'  un  ranocchio 
Quando  montar  la  rana  si  apparecchia  ? 
Però,  s'io  canto  male,  sia  scusato, 
Che  '1  lupo  si  pentì  cantar  famato. 


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Orlandino  —  Capitolo  1 


vn 


Ma  '1  spirito  gentile,  (jiial  si  sia, 
Ch'  mosse  amore  (3)  dirmi  Y  error  mio, 
Jiingrazio  molto  ;  eh'  altra  cortesia 
Non  trovo  a  questa  egual,  in  fé  d'i-.Dic. 
Pm-  sap^r  dei,  ch'io  son  di  Lombardia, 
E  che  'n  mangiar  le  rape  ha  del  restio; 
Non  però,  se  non  nacqui  tosco,  i'  piango  ; 
Che  ancora  il  ciatto  gode  nel  suo  fango. 

vm 

Però  Dante,  Francesco,  e  Gian  Boccaccio 
Portato  han  seco  tanto,  che  sua  prole 
Uscir  non  sa  di  suo  proprio  linguaccio  ; 
Che  quando  alcuni  d'elli  canfoir  vqje 
Non  odi,  se  non  bujo^  arreca^  e  caccio^ 
Né  mai  dal  suo  burchiello  si  distole  ; 
E  pur  lor-  pare  che  '1  tempo  si  perda 
Da  noi,  se  nostre  rime  fusser  merda. 

IX 

Se  merda  son  le  nostre,  a  dirlo  netto. 
Né  anche  le  sue  mi  sanno  succo  d'  ape  ; 
Date  perdon  al  mio  parlar  scorretto, 
Che  in  chiaro  lume  nebbia  mai  non  cape; 
E  questo  voglio  eh' a  color  sia  detto, 
Che  chiaman  Lomharduzzo  mangia-rape  ; 
Serbo  l'onor  dell'inclite  persone; 
Ad  altri  grido.  Tosco  chiacchiarone. 

Ne  alcun  di  quelli  tali  m'addimande. 
Di  qual  autore  questo  libro  i'  tolsi  ; 
Rispondo  lor,  eh' un  gran  sacco  di  glande 
E  duo  di  fave  in  quelle  bande  accolsi. 
Ove  trovai  di  libri  copia  grande, 
E  parte  di  essi  aver  con  meco  volsi. 
Acciò  le  glande  (4)  siaii  de'  pari  suoi  ; 
Ch'assai  manco  son  gli  uomini,  che  i  buoi. 


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Orlandino  —  Capitolo  1 


XI 

Ma  se  cortesemente  alcun  sincero 
Me  '1  chiede,  come  sempre  deve  farsi, 
Ecco  la  causa,  ecco  '1  volume  intiero 
Gli  aiTf.co^^cciò  ben  possa  saziarsi, 
E  chiai'amente  intenda  di  leggiero, 
Quai  libici  falsi,  e  quai  sian  veri  sparsi; 
Ma  non  gli  faccia  mia  lunghezza  nausa; 
Che  lungo  dir  convien'  in  lunga  causa.  (5) 

xn 

Signori  miei,  son  stato  in  vai  Camonica 
Per  consultar  le  streghe  di  quel  loco. 
Se  mi  saprebbon  di  Turpin  la  Cronica 
Mostrar  per  forza  d' incantato  foco  ; 
Una  vecchiai'da  in  volto  malenconica, 
Rispose  allor  con  un  vocione  roco  : 
Gnaffe  che  sì  ;  tu  la  vedrai  di  botto, 
Elitra  qui  tosto  meco,  e  non  far  motto. 

XIII 

I'  non  me  '1  fei  ridir,  ma  s'  un  montone 
Ratto  mi  vidi  al  ciel  con  gran  diletto  ; 
Poi  volto  il  freno  verso  l'Aquilone, 
Discese  in  Gozia  (6)  dentro  a  quel  mar  stretto, 
Ed  ivi  di  sua  man  un  gran  petrone 
Alzando,  aperse  un  buco  sotto  1  tetto; 
Si  ti-assc  dentro,  ed  io  seguilla  appresso 
Per  meraviglia  fuora  di  me  stesso. 

XIV 

Cento  cinquantamila  e  più  volumi, 
Già  non  vi  mento,  vidi  in  quella  tomba. 
Che  Goti  anticamente  coi  costumi 
De'  porci,  e  col  rumor  eh'  in  ciel  ribomba, 
Trasser  per  tanti  monti,  valli,  e  fiumi 
D'Italia  fuor,  la  quai  par  che  soccomba 
A  simile  canaglia  sempre  mai. 
La  causa  ben  direi,  ma  temo  guai. 


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Orlandino  —  Capitolo  1 


XV 

Di  Livio  qui  le  Deche  sono  tutte, 
E  quelle  di  Sallustio  assai  pii'i  buone  ; 
Qui  di  Turpin  fur'anco  ricondutte 
Quaranta  Deche  in  gallico  sermone  ; 
Io  tre  di  quelle  provo  esser  tradutte 
In  lingua  nostra  per  quatti-o  persone  ; 
Solo  il  principio  della  prima  i'  tolsi, 
Né  '1  pargoletto  Orlando  passar  volsi. 

XVI 

Sol  d'  Orlandin  io  canto,  e  nondimeno 
-Quando  Tampino  divertisce  altrove, 
De  r  ordinario  suo  non  m'  alieno  ; 
Che  donde  in  molti  luoghi  si  rimove, 
O  quattro  o  cinqije  stanze  (7)  v'  incateno, 
Acciocché  '1  libro  mio  non  si  riprove  ; 
E  forse  sia  col  tempo  chi  su  questo 
Dira  diffusamente  tutto  '1  resto. 

xvn 

Di  quanti  scartafacci  e  scrittarie 
Oggidì  cantar  odo  in  le  botteghe. 
Credete  a  me  son  tutte  cagarie,  (8) 
Più  false  assai  de  le  menzogne  greghe  ; 
Fatene,  bei  Signori,  forbarie,  (9) 
Ch'  ognun,  il  naso  nò,  ma  '1  cui  si  freghe  : 
Sol  tre  n'  abbiamo  vere  in  stil  toscano, 
Bojardo  le  ti-ascrisse  di  sua  mano. 

XVIII 

Come  r  ebbe  non  so,  s' assel  Morgana  ; 
Che  con  le  streghe  anch'  egli  ebbe  mistade  ; 
Di  che  mi  penso  eh'  entro  quella  tana 
Fusse  portato  all'  ultime  contrade, 
Onde  togliesse  quella  pii\  soprana 
Parte  che  valse  a  gran  celerltade  ; 
Ma  non  finì  tradurle  in  nostra  lingua, 
Che  morte  ogni  opra  pia  troncar  s' impingua. 


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.(  8  Oblandino  —  Capitolo  1 


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XIX 


I*er?)  lascia  imperfetta  la  seconda. 
La  (|uul  finisce  Lndovico  appieno; 
Ne  qui  Francesco  Cieco  più  s'  asconda, 
Che  gli  rubò  la  sesta,  e  nondimeno 
Vi  giugno  assai,  per  farla  più  gioconda  (10) 
;|  Onde  gli  vien  da  noi  creduto  meno  : 

1^  L'  ultima  diede  con  sua  propria  mano 

Al  s])iii;o  gentile  Poliziano.  (11) 

XX 

Polizian  fu  quello  eh'  altamente 
Cantò  del  gran  gigante  dal  batajo,  (12) 
Ed  a  Luigi  Pulzi  suo  cliente 
;  L'onor  die  senza  scritto  di  notajo; 

|.  Pur  dopo  si  pentì,  ma  chi  si  pente 

J  Po  '1  fatto,  pesta  Y  acqua  nel  mortajo  ; 

f  Sia  pur,  o  non  sia  cotesto  vero, 

cj'^  So  ben,  chi  crede  troppo,  ha  del  leggiero. 


XXI 

Queste  tre  dunque  deche  sin  quk  ti'ovo 
Esser  dal  fonte  di  Turpin  cavate  ; 
Ma  Tì^ebisunda,  Ancroja,  Spagna,  e  Bovo 
Co  r  altro  resto  al  foco  sian  donate  ; 
Apocrife  son  tutte,  e  le  riprovo 
Come  nemighe  d' ogni  ventate  ; 
Bojardo,  F  Ariosto,  Pidci^  e  7  Cieco 
Autenticati  sono,  ed  io  con  seco. 

xxn 

Autentico  son  io,  perchè  la  prima 
Deca  del  gran  Dottore  v'  antepono  ; 
E  benché  era  misterio  d'  altra  lima, 
Pur  basta  assai  che  '1   vero  qui  ragiono. 
E  cominciando  de  la  storia  in  cima. 
La  corte  di  re  Carlo  pria  dispono  ; 
Poscia  diremo  come,  quale,  e  quando, 
E  di  qual  padre  nacque  il  conte  Orlando, 


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Orlandino  —  Capitolo  1 


x 


xxm 

Orlando  che  non  ebbe  in  terra  eguale 
Né  d'  arme,  né  d'  onor,  né  di  fortezza, 
Orlando  degli  erranti  principale, 
Oh'  usava  in  V  altrui  bene  sua  destrezza, 
Orlando,  sotto  '1  cui  braccio  fatale 
Andò  la  fede  nostra  in  somma  altezza, 
Orlando  saggio.  Orlando  sì  gentile, 
Che  'n  sue  lode  voiTei  d' Omero  il  stile. 

XXIV 

Prima  vi  naiTO  duodeci  Baroni, 
Che  Paladini  fannosi  chiamare  ; 
Di  Carlo  e  de  la  Chiesa  campioni, 
Buoni  per  teiTa,  ed  ottimi  per  mare  ; 
Amor,  fede,  ragion,  arme,  ronzoni 
Erano  lor  diletto,  e  gioje  care; 
Guerre,  duelli,  giosti-e,  torniamenti, 
Son  proprio  pasto  di  sì  fatte  genti. 

XXV 

Milon  d'  Angi-ante  era  di  lor  primiero, 
Possia  duo  soi  fratelli,  Amon,  Ottone; 
Danese  Ugieri,  e  '1  Bergognon  Rainiero, 
Poi  di  Baviera  Namo,  e  Salomone; 
Rampallo  che  fu  Padre  di  Ruggier<j, 
Quel  di  Bordella,  il  gran  Signor  Ivvone; 
Morando,  e  d'Agi-ismone  Bovo,  e  quello 
Ginnamo  di  Maganza  iniquo  e  fello. 

XXVI 

Questi  dopo  Milon  pari  d'onore, 
Furon  in  Corte,  e  ne'  stipendj  soi; 
Non  però  tutti  eguali  eran  di  cuore, 
Perchè  sovente  tra  gli  Franchi  Eroi  (Va) 
Scopresi  qualche  ingrato  e  traditore, 
Come  leggendo  intenderete  poi; 
Di  quelli  dico  dal  falcone  bianco, 
Che  'n  frode  mai  non  ebber  il  cor  stanco, 


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10  Orlandino  —  Capitolo  1 


xxvn 

Saper  vorrei,  o  Astrologhi,  e  Greometri, 
Che  '1  ciel,  non  che  la  teiTa  misiu-ate. 
Di  qual  violenta  stella  così  tetri, 
Cosi  maligni  influssi  alle  contrate 
Piovono  di  Maganza,  oppur  quai  metri 
Di  Negromanti  e  d'importune  Fate 
Muovano  sì  cotesta  gente  ria, 
Che  un  sol  non  è,  che  ti-aditor  non  sia. 

xxvm 

Né  ardisca  dirmi  altrui  che  Sansone tto  (14) 
Di  Grano  esser  figliuolo,  o  d'  altro  tale. 
Perchè  non  venne  mai  d'un  maladetto 
Falsario  ingannator,  uomo  leale; 
Il  volto,  gli  atti,  ed  ogni  bell'effetto, 
German'  il  fan  d'Orlando  naturale; 
Turpin  ciò  scrive,  e  chi  mi  nega  questo, 
Nega  del  detto  autore  il  fedel  testo. 

XXIX 

Son  certi  pedantuzzi  di  montag-na, 
Che  poi  che  han  letto  Ancroja  ed  Altohello, 
E  dicon  tutta  in  mente  aver  la  Spagna^ 
E  san  chi  ancise  Almonte  o  Chiari  elio. 
Credono  l'opre  d'alti-i  sian  d'aragna, 
Le  sue  non  già,  ma  d' un  saldo  martello  ; 
E  così  awien,  che  l'asino  di  lira 
Crede  sonar,  quando  col  cui  sospira. 

XXX 

Ma  poi  (15)  che  furón  d'  elli  paiate  estinti, 
Pai'te  stracchi  rimaser  per  ti-opp'  anni, 
Carlo  si  elesse  dodici,  di  Aiuti   (10) 
Gioveni  forti  ai  bellicosi  affamii, 
E,  come  era  costume,  gli  ebbe  cinti 
Di  brando,  sproni,  e  militari  panni, 
Ch'  oprasser  meglio  il  brando  per  la  fede. 
Che  1  predicar  a'n  popol  che  gik  crede. 


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Oblìlndino  —  Capitolo  1  II 


XXXI 

Vorrei  pur  veder  che  i  nostri  tanti 
Teologi  e  soldati  così  vari, 
Appresentati  del  gran  Tm-co  innanti 
Vellent  antiquos  Patres  imitarla 
Li  quali,  s'  oggi  in  cielo  sono  tanti, 
Non  r  han  già  racquistato  con  denari, 
Ma  chi  col  predicare,  e  chi  col  brando. 
Siccome  fece  Paolo,  e  '1  conte  Orlando. 

XXXII 

Orlando  fu  di  quelli  capa  e  guida. 
Poscia  r  invitto  suo  cugin  Rinaldo, 
Segue  Olivier  ove  ogni  ben  s'annida, 
Astolfo  il  bello  avventuroso  e  baldo, 
Gano,  stirpe  dì  Giuda,  ed  omicida. 
Falso  de'  falsi,  perfido,  rubaldo, 
Figliuol  non  d'  uomo,  né  da  Dio  creato, 
Ma  il  gran  diavol  ebbelo  cacato. 

xxxin 

Succede  a  questo  lupo  la  colomba. 
Colomba  non  di  forze,  ma  di  vita. 
Dico  Dudon,  che  con  sonora  tromba 
Ciascun  per  santo  e  forte  in  terra  addita. 
Non  manco  di  esso  il  gran  nome  (17)  rimbomba 
Di  Malagigi,  j^allido  eremita. 
Pur  furon  differenti  i  santi  loro; 
Angeli  questi,  diavoli  coloro; 

XXXIV 

Poi  Vivian  suo  frate,  e  Ricciardetto 
C'he  volse  fnrsi,  e  non  potè  Gigante; 
Soglie  Giialtier  clic  fu  di  pifi  intelletto 
Che  di  foltezza,  onde  spesso  le  piante 
Mostrò  cogli  altri  al  ciel;  poi  Sansonetto, 
Kiccanlo  poi,  d'ingegno  assai  prestante; 
Aiigelin  manca  dii-vi,  ed  Angelieri, 
Avin,  Avoglio,  Ottone,  e  Bellingeri, 


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12  Orlandino  —  Capitolo  1 


XXXV 

Fra  duodici  non  vengon  questi  sei, 
Ma  Sottopaladini  son  chiamati, 
Perchè  nel  gran  consiglio  a  quattro,  a  sei 
Entran,  se  alcun  de' primi  son  mancati; 
Ehber  ne  l'armi  già  molti  ti-ofei, 
Dico  col  cui  in  teiTa  scavalcati  ; 
E  fu  tra  loro  tanta  cortesia, 
Che  sempre  traboccor  di  compagnia. 

XXXVI 

Orlando,  sol  per  sua  virtù,  di  Roma 
Era  Confaloniero,  e  Senatore, 
E  fu  sopra  di  se  la  nobil  soma 
Oh'  anco  poi'tò  Milon,  suo  genitore  ; 
Egli  tenea  la  terra  umile  e  doma 
Sol  de' suoi  fatti  egregi  al  gran  rumore. 
Namo,  re  Salomone,  Grano,  Ugieri, 
Furon  di  Carlo  i  quattro  Consiglieri. 

xxxvn 

Il  gentil  Olivier  sopra  un  convito 
Sempre  fu  Siniscalco  ne  la  Corte  : 
D'  ordir  un  ballo  Astolfo  era  perito. 
Ed  r  esservi  bufton  toccò  per  sorte. 
Tmpin  fu  '1  cappellano,  ed  anco  ardito 
A  molti  Saracin  diede  la  morte  ; 
Ma  più  del  pastorale  usò  la  lanza, 
L'  una  smagrisce,  e  l' altro  fa  la  panza. 

xxxvni 

Rinaldo,  d'ogni  bon  compagno  padre. 
Benché  più  de  le  volte  andasse  in  bando, 
Era  luogotenente  ne  le  squadre 
Del  suo  caro  cugino  conte  Orlando  ; 
Commercio  ebbe  talor  de  genti  ladre  ; 
Capo  di  parte  per  menar  il  brando 
Nel  sangue  di  Maganza,  e  Chiaramonte 
Sua  prole  vendicare  di  tant'  onte. 


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Orlandino  —  Capitolo  1  13 


XXXIX 

Tal  oi-diue  di  quella  corte  altera 
Pose  re  Carlo,  e  qui  Turpin  lo  scrive, 
Accio  ch'abbi,  o  lettor,  la  storia  vera, 
p]  che  da  sogni  e  favole  ti  schive 
Fatemi  dunque,  o  genti,  intorno  schiera. 
Ed  ascoltate  queste  rime  vive. 
Vive  così,  che  forse  un  gardellino 
Vi  pallerò  di  quelli  del  molino. 

XL 

Nel  inclita  città,  eh'  è  capo  e  fonte 
De  Fahna  Franza,  dicovi  Pai-igi, 
Col  scettro  in  mano  e  la  diadema  in  fi^ontc 
Regnava  Carlo  Mano  e  San  Dionigi: 
Questo  di  Europa  regge  piano  e  monte; 
Quello  tira  nel  ciel  per  suoi  vestigi 
Chiunque  in  l'alta  Trinitate  crede. 
Alzando  a  son  di  spada  la  sua  fede. 

XLI 

Eran  di  lano  chiuse  le  gran  porte, 
E  '1  bellico  fiiror  posto  in  catene  ; 
La  pace,  e  libertà  con  bella  sorte 
Ivan  d'invidia  sciolte,  e  senza  pene. 
Le  quali  de'  tiranni  ne  le  corte 
Riposto  avean  lor  speme  ed  ogni  bene  ; 
Ma  dove  ambizione  e  invidia  regna, 
Difficil  è,  che  mai  pace  si  tegna. 

XLII  . 

Quanto  mai  cinge  '1  mar,  e  vede  il  sole. 
Tre  capi  coronati  avean  diviso  : 
Quinci  Mambrino,  maladetta  prole, 
Tien  tutta  1'  Asia,  e  brama  il  paradiso  ; 
Che  quanto  piti  s'acquista,  pia  si  vuole, 
E  chi  non  sa  rubai-e  vien  deriso  ; 
Quindi  Angólante  l' Africa  si  gode, 
E  pur  jion  esser  dio  del  eie!  si  j:'ode. 


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14  Orlandino  —  Capitolo  1 


XLm 

Ah  maladetta  rabbia  d'avarizia, 
Cli'  ogn'  ordine  sovverte  di  natura, 
Che  per  servar  tra'  popoli  amicizia, 
Interpose  de'  regni  la  sgiuntura. 
De'  mari,  fiumi,  e  monti;  e  la  malizia 
Tosto  ruppe  de'  termini  le  mura  ; 
Pero  r  Italia  non  più  Italia  appello, 
Ma  d'  ogni  strana  gente  un  bel  bordello, 

XLIV 

Sol  dell'  Europa  Carlo  si  contenta, 
E  lei  difende  da  que'  crudi  cani;  ♦ 

Che  se  di  guen*a  alcun  di  lor  il  tenta, 
]\r()strali  tosto,  e'  ha  1'  unghiute  mani  ; 
Tanto  H  batte,  tanto  li  tormenta. 
Che  i  fa  morir  ne'  fossi  e  ne'  pantani; 
E  pur  sovente  provano  lor  sorte, 
Tornando  in  Franza  ad  incontrar  la  morte. 

XLV 

Starasi  dunque  Carlo  in  festa  e  'n  gioco, 
Novellamente  Imperator  creato  ; 
Papa  Adriano  primo  in  tanto  loco 
L'  avea  meritamente  sollevato  ; 
Donde  per  tutta.  Europa  si  fa  foco, 
Ed  odesi  bombarde  d'ogni  lato;  (18) 
Ma  Franza  più  de  li  altri  regni  gode. 
Né  altro  che  trombe,  comi,  e  canti  s'ode. 

XLVI 

Anco  di  novo  1'  alta  Imperati-ice 
Dal  regno  ispano  venne  Galerana  ; 
Più  de  le  belle  bella,  e  più  felice 
Era  costei  d'  ogni  virtù  fontana  ;  -\ 

Fra  cento  dame  vergini  pudice 
Parca  fra  cento  stelle  ima  Diana  ; 
Pensate  che  trionfo  Carlo  face, 
Che  '1  cìel  cotante  grazie  gK  compiace. 


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Orlandino  ---  Capitolo  1  15 


XLVn 

Tutto  Parigi  sona  cV  istriiiueiiti 
Per  danze,  giuochi,  salti,  e  per  coree  ; 
Diverse  fogge  fanno  ed  ornamenti 
Giovani  arditi,  e  vaghe  semidee  ; 
Onde  gli  ardori  crescono  e  i  lamenti 
Belli  affocati  amanti  e  amate  dee; 
Ma  più  dell'  altre  Berta,  eh'  è  sorella 
Di  Carlo,  per  Milone  si  flagella. 

xLvni 

Flagellasi  d'ognora  nel  tenace 
Amor,  che  ha  preso  al  capitan  Milone  ; 
Non  mai  ritrova  posa,  non  mai  pace, 
Non  mai  gli  scopre  tanta  passione  ; 
Troppo  l'aspetto  altier,  ti'oppo  le  piace 
L' onor,  le  forze,  gli  atti  del  Barone  ; 
Egli  noi  sa,  ma  sciolto  va  sicuro; 
Però  da  lei  fi  detto  alpestro  e  duro. 

XLIX 

Pia  de  le  care  cose,  cara  tiene 
Questa  donna  gentil  e  bella,  Carlo  ; 
Altra  suora  non  ha,  per  che  gran  bene 
Le  vuole,  e  falle  onor  quanto  può  farlo; 
Pur  s'  egli  mai  sapesse  le  catene, 
Ch'  avvinta  Y  hanno,  e  V  amoroso  fcirlo. 
Penso  contrasterebbe  a  tal  amore  ; 
Che  pia  alto  maritarla,  tien  in  core. 


Dunque  una  giostra  nova  fu  contento 
Per  lei,  ch'assai  pregollo,  di  bandire: 
A  ciò  la  muove  l'aspro  suo  tormento, 
E  '1  sfrenato  desio,  e' ha  di  nodrire 
L'occhio  de' folli  sguardi;  ma  il  talento 
D'  un  cibo  tal  non  sa,  se  non  mentire  ; 
Che  quanto  mangi  piti,  più  senti  fame, 
Né  dramma  puoi  scemar  di  quelle  brame. 


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16  Oklanoino  —  Capitolo  1 


LI 

Di  Franza  tutta,  Spagna,  d' Ingliilten-a  ; 
D' Italia  bella,  Grecia,  e  d' Alemagna 
Vengon  già  tanti  cavalier  di  guen-a. 
Che  r  alpe  ne  son  cardie,  e  la  campaguit 
La  grande  piaccia  d'un  steccato  seiTa 
Milon  d'Angi-ante,  e  nulla  vi  sparagna, 
Perdi'  era  il  mastro  ed  orditor  del  tutto, 
In  fin  eh'  r  esser  suo  1'  ebbe  construtto. 

LII 

Stavasi  Bei-ta  sola  e  pensierosa 
Guatando  sulla  piaccia  dal  balcone  ; 
E  mentre  su  una  man  la  guancia  posa, 
Ed  al  peggior  de'  suoi  pensier  si  spone. 
Ecco  in  un  manto  d' incarnata  rosa 
Vide  r  obbietto  del  suo  cor,  Milone, 
Che  vien  lontano  sopra  un  bel  destriero, 
Fallo  boffare,  (19)  e  tien  nullo  sentiero. 

Lm 

Niun  sentiero  quel  balzano  tene, 
Balzano  d'un  sol  piede  estremo  e  manco; 
Stellato  in  fronte,  e  con  sottili  vene. 
Ha  largo  petto,  e  rotondetto  il  fianco  ; 
Alza  le  piante,  e  gioca  de  le  schiene, 
Qual  neve,  (20)  qual  carbon,  qual  corvo,  è  bianco  ; 
Bello  è  '1  cavallo  e  bono  ;  ma  chi  '1  regge. 
Più  bello  e  bono  il  fn,  mentre  '1  coiTCgge. 

LIV 

Muovel  a  un  tempo  al  corso,  e  a  un  tempo  il  frena  ; 
Quello,  che  intende,  or  salta,  or  corre,  or  gira, 
Boffa  le  nari,  e  foco  ardente  mena. 
Tutto  in  un  groppo  e  capo  e  coda  tira. 
Ciascun  s'allarga;  eh' un  destrier  tien  piena 
La  via  capace,  e  scampa^d  chi  1  mira  : 
Berta  ciò  vede;  onde  nel  cor  V  abbraccia, 
Che,  come  neve  al  sol,  convieu  si  sfaccia. 


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Orlandino  —  Capitolo  1  17 


LV 

Amor,  eh'  è  spirto  inquieto  e  mai  non  donne, 
Qui  l' attendea  già  lungamente  al  varco  ; 
Vede  natura  in  lor  esser  conforme; 
Onde  non  gran  tirar  fu  d' uopo  d' arco  ; 
Clic  quando  cessa  il  mondo  esser  deforme 
Pel  ft-eddo,  e  vien  d'erbette  e  fiori  carco. 
Quando  '1  sol   entra  Y  am-eo  Montone, 
Nacciue  la  dama,  nacque  il  gran  barone.. 

LVI 

Leva  dunque  la  fronte  a  Y  improviso, 
Ed  incontrò  co  gli  occhi  gli  occhi  d'ella: 
Scendeli  un  colpo  d'un  modesto  riso, 
Che  quasi  traboccoUo  for  di  sella; 
ConcoiTe  il  sangue,  e  spento  lascia  '1  viso; 
E  'n  mezzo  al  petto  il  freddo  cor  saltella; 
Bassa  la  vista,  e  poi  mirq,r  vols'  anco, 
Allor  ne  venne  al  doppio  colpo  manco. 

Lvn 

Pallido  e  smorto,  volta  il  fren  altrove; 
Ch'  un  strano  caso  e  novo  1'  addolora  ; 
r  dico  novo,  quandoché  mai  prove 
Non  fatto  avea  d'amare  fin  ad  ora: 
Vorrebbe  irsene  a  casa,  e  non  sa  dove 
Prenda  '1  sentiero,  tanto  è  di  se  fora; 
Pur  tanto  del  staffier  segue  la  traccia. 
Che  trova  T  uscio,  e  dentro  vi  si  caccia. 

Lvni 

In  quella  fretta  eh'  uomo  pria  gagliardo 
Da  fredda  febbre  vien  ratto  assalito, 
Corre  a  corcarsi,  e  pargli  troppo  tardo 
Ogni  presto  servir,  tant'  è  invilito  ; 
Perde  la  forza,  e  cangiasi  nel  sguardo. 
Cresce  la  nausea,  e  fugge  l' appetito  ; 
Cosi  Milon,  cangiato  in  un  momento. 
Tuttoché  coiTa,  il  corso  gli  par  lento. 


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18  Orlandino  —  Capitolo  1 

LIX 

Salta  d'arzone  in  gesto,  qual  non  sole, 
Che  'n  mille  parti  ha  volto  lo  'ntelletto; 
Chiamasi  solo,  e  quanto  può  si  dole, 
Trovando  di  sospii'i  colmo  il  letto; 
Quivi  si  cruccia,  e  sfoga  tai  parole. 
Che  intenerir  potrian  d' azal  un  petto  ; 
Amor  dicea,  crudel  Amor  protervo. 
M'hai  colto  piu',  qual  sempliciotto  cervo. 

LX 

Per  far  una  leggiadra  tua  vendetta, 
E  punir  in  un  dì  ben  mille  offese, 
Celatamente  V  arco  e  la  saetta 
Tua  man  spietata  in  mia  ruina  prese. 
Ah  punto  (22)  infausto!  ah  stella  maladetta! 
Che  contra  te  mi  tolse  le  difese, 
AUor  eh'  io  vidi  quella  faccia  infusa 
Di  tal  beltade,  a  me  sol  di  Medusa! 

LXI 

Misero  me,  che  indamo  esser  sperai 
Di  sì  onorevol  giostra  vincitore  ; 
E  tu  cieco  fanciullo  e  nudo  m'  hai 
Gettato  fuori,  non  del  corridore 
In  ten-a,  ma  di  gioja  in  tanti  guai. 
Di  bella  libertade  in  tant'  errore. 
Deh!,  Dio,  se  de'  mortali  unqua  ti  cale, 
Dal  cor  mi  sferri  questo  ardente  strale. 

LXII 

Pazzo  che  sei  Milon!  come  non  vedi 
Che  non  sei  pare  al  gi-ado  imperiale? 
Se  di  tal  vischio  non  ritraggo  e  piedi. 
Che  passione  (23)  mai  sperar  altro  che  male? 
E  posto  che  '1  suo  amor  ella  mi  credi. 
Non  l'averò  però,  eh'  io  non  son  tale, 
Cui  la  fortuna  un  tanto  ben  dar  voglia, 
E  pur  amor  di  lei  seguir  m'invoglia. 


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Orlandino  —  Capitolo  1  19 


Lxm 

Mentre  solingo  crucciasi  Milone, 
E  mille  fiate  vole,  e  mille  avole 
Quel  che  consiglia  Amor,  quel  che  ragione, 
Facendo  come  foglia  al  vento  sole, 
Ecco  nel  mar  ispano  si  ripone 
Tra  le  Colonne  il  già  straccato  sole, 
Sorge  la  notte  dalla  parte  adversa, 
Ciascun  in  preda  al  sonno  si  riversa. 

LXIV 

Ed  in  dico,  eh'  amor  è  un  bardassola, 
Più  che  sua  madre  non  fu  mai  puttana; 
Chi  '1  chiama  dio,  si  mente  per  la  gola; 
Che  in  Dio  non  cape  furia,  e  mente  insana: 
Amor  h  un  barbagiani  che  non  vola, 
Benché  abbia  Tali,  ed  usi  in  ogni  tana; 
Guardatela  da  lui;  che  1  ladro  antico 
Lascia  la  porta,  ed  entra  nel  postico. 

LXV 

Questo  ben  sa  mia  diva  Caritunga,  (24) 
Quando  talor  col  sguardo  torto  adocchia 
Qualch'  asinelio  da  la  coda  lunga. 
Che  falle  porre  a  canto  la  conocchia. 
Ma  lui  convien,  che  poscia  si  compunga 
Deir  error  suo,  perchè  qualche  pannocchia 
Si  studia  sempre,  e  fassi  buon  platonico, 
E  chi  non  ha  denari  è  malinconico. 


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Orlandino 


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COMINCIA 
IL  SECONDO  CAPITOLO 


D. 


'ammi  perdono,  priegotì,  Cupi  dine, 
S' e  or  ti  biasmai  colla  tua  madre  Venere, 
So  ben,  che  mai,  senza  vostra  libidine. 
Possibile  non  è  eh'  ùom  s' ingenere. 
Tu  sei  degno  d' onor  e  di  formidine  ; 
Che  senza  te  saria  gik  '1  mondo  in  cenere; 
Onde,  talor  s' io  straparlassi,  tollera  ; 
La  colpa  non  è  mia,  ma  de  la  collera. 

n 

Anzi  ringrazio  te,  gentil  gargione. 
Che  ni'  hai  fatto  baron  di  gran  nomanza  : 
Ho  sempre  un  centinajo  di  persone, 
Boni  da  stocco,  ed  ottimi  da  lanza  ; 
Giammai  non  si  mi  parton  dal  gallone, 
E  fra  lor  grido  al  cielo  ;  Pranza,  Franza  ; 
La  qual,  senza  passar  tant'  alpe,  o  piano, 
Con  un  trattato  presi  a  Cunniano. 


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Orlandino  —  Capitolo  2  21 


ni 

Grodea  1  Spagnolo,  che  sotto  Pavia 
Avea  fatto  prigion  di  Franza  el  Boy 
Ed  io  nel  grembo  a  Oaritunga  mia 
Ho  preso  tutta  Franza  per  ma  foy. 
A  che  voler  Italia  in  sua  balia, 
Passando  or  Adda,  or  il  Tesin,  ed  Oh?  (25) 
Venite  ad  me^  Signores;  faciam  todos 
Baron  di  Franza,  (26)  e  Cavalier  di  Rodos. 

IV 

Ma  questa  corte  sempre  qui  sen  stia. 
Che  giura  non  andarmi  mai  luntano. 
Per  me  sol  un  contento  si  desia, 
Che  1  cancaro  mangiasse  il  taliano^ 
Il  quale,  o  ricco,  o  povero  che  sia, 
Desidra  in  nostre  stanze  il  tramontano. 
Ora  torniamo  al  testo  di  Turpino; 
M' aweggio  ben,  eh'  io  son  ftior  di  camino. 


Levavasi  gik  '1  Sole  fuor  de  le  acque 
Con  un  visaggio  carco  di  vin  corso. 
Quando  a  Parigi  il  strepito  rinacque 
Di  tante  genti  per  lo  gran  concorso. 
La  giostra  eh'  anti  a  Berta  il  Re  compiacque, 
Si  mette  in  punto  ;  chi  '1  staffil,  chi  '1  morso. 
Chi  concia  '1  bai'bozzale  al  suo  destriero. 
Per  non  deporr'  il  culo  sul  sentiero. 

XI 

Di  fronde,  erbette,  e  floride  corone 
Piena  è  la  terra,  e  pai*e  eh'  ivi  pasca 
Titiro  la  sua  greggia:  ma  Carlone, 
Acciò  che  gara  alcuna  non  vi  nasca, 
Ne'  patti  fa  cotal  condizione: 
CM,  già  d  arzone  nel  babordo  casca^ 
Non  Ha  capace  più  del  pregio  posto  ; 
Ma  della  lizza  fuor  ttscisca  tosto.  (27) 


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22  Orlandino  —  Capitolo  2 

VII 

Scemano  li  giostranti  con  tal  gioco, 
Finché  r  ultimo  resti  vincitore.  (28) 
Quivi  non  giostra  sguattero,  né  coco, 
Ma  Re,  Duchi,  Marchesi,  e  d'  altr'  onore  : 
Lo  premio  é  un  scudo  d'  or,  che  'n  alto  loco 
Pende  con  un  inibin  di  tal  splendore, 
Ch'  ove  non  può  del  sol  enti*ar  il  lume, 
Esso  del  sol  ardendo  fa  '1  costume. 

vni 

Sentesi  già  'ì  rumor  al  ciel  diverso 
Di  trombe  e  gridi  d' uomini  e  cavalli  : 
Era  nel  aere  un  tempo  chiaro  e  terso  ; 
Né  un  picciol  fumo  sorge  da  le  valli: 
Chi  qua,  chi  là,  chi  al  lungo,  chi  al  traverso 
Urta  1  cavallo,  affrena,  stringe,  e  dalli  ; 
Chi  su,  chi  giù,  chi  va,  chi  vien,  chi  sede  ; 
Chi  sì,  chi  nò,  per  la  gran  calca  vede. 

IX 

Re  Carlo,  in  mezzo  a  cento  capi  d'oro, 
Fermato  s'  era  in  logo  piti  eminente  ; 
Ciascun  là  mira,  e  vede  il  gran  tesoro 
Che  'ntorno  lui  splendea  si  riccamente: 
Minerva  non  giammai  si  bel  lavoro 
Trapunse  di  sua  mano  a  suo  parente, 
Quant'  era  il  manto,  eh'  egli,  in  cotal  giorno. 
Aver,  fra  tanti  Regi,  volse  intorno, 

X 

Ma  pria  clie  al  ver  contrasto  e  ragionevole 
Si  vegna,  odi  lettor,  che  vi  è  da  ridere  ; 
Perchè  una  trama  occulta  e  sollacievole 
Fra  duodici.  Re  Carlo  fa  dividere. 
Ecco  improvvisa  venne  una  festevole 
Vecchiarda,  che  comincia  forte  a  stridei-e 
Con  un  suo  corno,  ed  a  cavai  d'un  asina, 
Parendo  che  venisse  dalla  masina. 


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Oblandino  —  Capitolo  2  23 

XI 

Tacquer  le  trombe  tutte,  e  la  bertuccia, 
Che  proprio  di  bertuccia  apparve  in  atto, 
Soffia  nel  conio  quanto  può-  la  buccia. 
Rendendo  un  sono  tutto  contraffatto. 
Ma  Berta  a  tal  novella  si  corruccia, 
Presaga  già  del  torto  che  l'è  fatto; 
E  vede  che  '1  Danese  nel  steccato 
Era  su  un  mulo  magro  e  vecchio,  entrato. 

xn 

Su  im  mulo  magro,  vecchio,  e  zoppo  ancora, 
Entrat'  era  il  Danese  nella  lizza; 
Toccalo  a'  fianchi,  e  quello  in  men  d'  un'  ora 
Si  volge  ratto  al  freno,  salta,  e  guizza. 
L'elmo  di  zucca.  Tarmi  son  di  stòra,  (29) 
La  sopravvesta  inversa  di  pellizza  ; 
E  per  cimier  ha  in  capo  ima  cornacchia, 
Ch'  ivi  legata,  si  dimena,  e  gracchia. 

XUI 

Driccia  un  forcone  sulla  coscia,  e  vuole 
Che  tal  sua  lancia  il  scudo  d'  or  guadagne. 
Ecco  sii  una  cavalla  che  si  duole 
Da'  quatti'o  piedi,  ed  ha  cento  magagne, 
Morando,  qual  limaca,  par  che  vole, 
Coperto  a  fine  piastre  di  lasagne, 
E  porta  una  pignatta  per  elmetto, 
La  qual  si  fa  cimier  del  suo  cazzetto; 

XIV 

Abbassa  una  cannuccia,  e  fassi  targa 
Contra  '1  Danese  con  un  calderone  ; 
Sprona  la  bestia,  e  vien  gridando,  guarda: 
Danese  volge  a  lui  col  suo  forcone  ; 
Dannosi  un'  aspra  botta,  benché  tarda 
Fusse  per  spazio  di  quattr'  ore  bone  ; 
Fra  '1  qual  tempo  Rampallo  vi  vien  anco, 
Di  speronar  un'asinel  già  stanco, 


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I."^'*^"^' 


24  Orlandino  —  Capitolo  1 


XV 

Un  asinel  poledro,  che  venf  anni 
Stentato  avea  de'  Frati  in  un  convento  ; 
Pensate,  quante  pene,  quanti  danni 
Ivi  sofferse  V  animai  scontento  ; 
Alfin  ruppe  'l  capestro,  e  fuor  d'affanni 
Calci  e  coiTCgge  trette  (30)  più  di  cento; 
E  scampandone,  fè  da  buon  ladrone, 
Rubò  agli  frati  la  discrezione. 

XVI 

Credete  a  me^  eh' un' oncia,  ch'una  mica 
Non  vi  lasciò  di  quella  il  gran  dottore. 
Rampallo,  che  gli  è  addosso,  s'affatica 
Urtar  innanzi  un  tanto  corridore. 
Egli  eh'  in  mente  avea  già  la  rubrica 
Del  breviario  tutto  di'ento  e  fore, 
Sì  lieto  andava  in  simil  esercizio. 
Come  gli  frati  in  coro  a  dir  1'  uffizio  : 

XVII 

Abbassa  il  capo  e  levasi  a  la  coda 
Per  poiTe  a  teiTa  il  peso  inconsueto; 
Sprona  Rampallo,  ed  egli  par  che  goda 
Andai*  un  passo  innanzi,  e  quattro  adrieto  ; 
(  ade  il  Barone  su  la  terra  soda, 
Scampa,  gridando,  1'  animai  discreto  ; 
Ride  la  turba;  e  il  eavalier  levato, 
Corregli  dietro,  ed  anco  1'  ha  pigliato. 

xvin 

Senza  toccar  la  staffa,  che  non  v  era, 
Saltii  quel  paladino  in  cima  al  basto  ; 
Arme  non  bave  fuor  eh'  una  pancera 
Di  feiTO  tutta  rugginoso  e  guasto, 
Ma  di  tal  tempra,  ma  di  tal  minerà, 
Ch'  al  becco  d'  un  moscon  faria  contrasto  : 
E  l'elmo  poi  sì  di  splendor  adorno, 
Che  '1  so  '1  noi  vide  mai,  se  non  quel  gioi^no. 


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Orlandino  —  Capitolo  2  25 


XIX 

Un  baston  di  poUajo  è  la  sua  lanza. 
Di  perle  tutta  ornata,  e  di  medaglie  ; 
Ponela  in  resta  al  didtto  de  la  panza 
D'  uno  eh'  incontra  vien  coperto  a  maglie. 
Era  costui  Ginamo  di  Maganza, 
Ch'  aiTui  non  volse  già  di  carte  o  paglie, 
Ma  sì  di  piastre  ;  e  per  celarsi  alquanto, 
Di  canape  vestette  sol  un  manto  ; 

XX 

Ed  un  zanetto  ancora,  che  di  foco 
Esser  parea,  lo  traditor  cavalca  ; 
Centra  Rampallo  il  stringe^  e  mancò  poco 
Che,  mentre  addosso  a  lui  troppo  si  calca. 
Queir  indiscreto  non  guastasse  il  gioco, 
E  con  im  trave  quasi  lo  scavalca, 
Perchè  '1  polti'one,  per  far  ben  del  siiggio, 
Venne  alla  giostra  con  quel  gran  vantaggio 

XXI 

Tal  atto  spiacque  a  tutti;  ma  Re  Carlo 
Tanto  più  piacque  al  atto  che  or  succede; 
Manda  fiior  del  stecoato  a  congedarlo  ; 
Egli  scornato,  alla  sua  tenda  riede  : 
Gli  scherni  de  la  turba  non  vi  i)arlo  ; 
Ch'  ognun  gli  chiocca  drieto  e  man  e  piede  ; 
Sol  Maganzesi  rodon  la  catena, 
Ma  Chiaramonte  n'ha  letizia  piena. 

XXII 

Fra  tanto  Amon,  e  '1  suo  fratel  Ottone 
YéVB,n  entrati  insieme  a  son  di  corno  ; 
Parean  che  ducent'  anni  col  carbone 
Servito  avesser  di  Vulcan  al  forno; 
L' un  Satanasso,  e  V  altro  par  Plutone, 
Tanfate,  (21)  coma  e  fiamme  hanno  d'intorno; 
Ed  a  due  vacche  han  posto  briglia  e  sella. 
Questo  ha  uji  lavczzo,  e  quello  una  padella, 


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26  Orlandino  —  Capitolo  2 


xxm 

Ciascun  il  suo  forcone  mette  in  resta, 
E  muove  al  corso  quelle  bestie  pegre. 
Ecco  Bovo,  e  Raineri  non  s' arresta 
Per  tema  e'  haggia  delle  facce  negre  : 
Portan  due  nasse  da  pescar,  in  testa, 
Ma  indosso  di  castron  le  pelli  integre: 
Le  lance  son  due  scope  in  un  bastone; 
Le  targhe,  una  barilla  (32)  ed  un  cestone. 

XXIV 

Cavalcan  senza  sella  due  stalloni 
Rognosi,  e  pronti  a  far  delle  sue  zarde. 
Grassi  cosi,  che  agi'  ossi  de'  galloni 
Hanno  appiccato,  come  fusser  barde, 
Duo  gran  bottazzi^  over  dirò  fiasconi. 
Acciò  le  genti  Tosche  e  le  Lombarde 
Intendan  quel  ch'io  parlo;  e»  s'io  vaneggio. 
Che  meraviglia?  sentirete  peggio. 

XXV 

Lascio  di  dirvi  e'  colpi  che  si  danno 
Con  quelle  lanze.  sue  non  mai  più  usate  ; 
Tal  è  la  gara  e  '1  gioco  lor,  che  fanno 
Romper  di  risa  il  petto  a  le  brigate  : 
Dando  e  togliendo  pel  steccato  vanno 
E  pugni,  e  calzi,  e  bone  bastonate. 
Non  sì  però,  clie  alcun  mai  si  turbasse, 
Né  che  indiscretamente  altrui  pestasse. 

XXVI 

Frattanto  Salomone  con  gran  fretta 
Vien  con  un  perticon  da  filo  in  resta; 
Cavalca  di  galoppo  una  muletta, 
Ed  ha  cusito  al  elmo  e  sopravvesta. 
Gonfie  vesciche,  ed  una  assai  mal  netta 
Bragazza  da  bifolco  tiene  in  testa, 
Ed  una  conca  per  sua  targa  poi-ta, 
Ed  al  gallon,  di  légno  una  gi-an  storta^ 


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Orlandino  —  Capitolo  2  27 

xxvn 

Ma  per  servar  Ivvon  la  vecchia  usanza, 
Sa  un  carro  a  gran  stiìdor  di  rote  viene  ; 
Lo  stimiilo  da  buoi  porta  per  lanza, 
E  la  corba  del  fien  per  scudo  tiene  ; 
Dritto  non  sta,  ma  con  la  testa  avanza 
For  delle  scale  appena;  e  per  star  bene, 
Agiatamente  siede  su  la  paglia 
Quel  Baron  forte,  e  Cavalier  di  vaglia. 

xxvni 

Un  bove  solo  il  tira  infermo  e  lento, 
E  Namo  fa  l'ufficio  del  auriga; 
Pensate  mò,  lettori,  cpuiuto  stento 
Era  di  lui  condur  quella  quadriga: 
Or  giunti  alfine  dentro  il  toraiamento 
A  torre  e  dar  ad  altri  la  castiga. 
Già  Namo  di  menar  non  si  sparagna 
La  spada  no,  ma  il  capo,  e  le  calcagna. 

XXIX 

Vedestu  mai  qualche  poltron  villano, 
Poltron  s'appella  di  suo  proprio  nome, 
Discalzo  cavalcar  il  suo  germano, 
IJ  asino  dico,  a  mezzo  inverno,  come 
Spesso  mena  le  gambe,  qual  insano, 
Acciò  di  borea  il  spirito  noi  dome;? 
Così  Namo  facea  cazzando  il  bove. 
Che  ad  ogni  cento  uii;ate  il  passo  move. 

XXX 

Or  son  meschiati  insieme  que'  Baroni 
Su  quelli  animaluzzi  magri  e  vecchi; 
Pignatte,  e  pign<attelle,  e  calderoni. 
Padelle,  zucche,  barilotti,  e  secchi 
Fan  gran  rumore,  mentre  co'  bastoni 
Si  dan  buone  derrate  su  gli  orecchi. 
Orecchi  di  destrieri,  intendi  bene, 
Scherzo;  che  doglia  tra  lor  non  conviene. 


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28  Orlandino  —  Capitolo  2 


XXXI 

Otton  s'  era  affrontato  col  Danese  ; 
Quello  sul  mulo,  e  questo  sulla  vacca: 
Gettan  lor  aste,  e  vengon  alle  prese. 
Ed  abbracciati  ognun  di  lor  s'attacca; 
Morando  eh'  indi  passa,  tosto  j^rese 
La  coda  al  mulo,  e  col  tirar  si  stacca: 
Danese  dalle  man  d'  Otton  si  snoda. 
Che  for  del  cui  si  sente  andai-  la  coda; 


XXXII  ! 


Volge  la  briglia  per  girar  Tamiento 
Ma  tanto  fa,  se  quello  fusse  un  muro. 
Morando  tien  tirato,  e  tal  tormento 
Sente  il  mulaccio,  che  per  star  siciu'o 
Di  non  perder  la  coda,  e  pioggia,  e  vento 
Spruzzò  dal  buco,  e  d'  un  impiastro  puro 
Unse  talmente  il  volto  a  chi  '1  tenea, 
Ch'  egli  non  uomo,  anzi  sterco  parca. 

xxxin 


Lascia  la  coda  il  buon  Morando  presto,  : 

Heiù,  quia  incolatiis  sum,  gTidando  forte.  i 
Amon  eh'  era  de  li  altri  '1  più.  rubesto, 

Su  l'altra  vacca  giunge  quivi  a  sorte;  ! 

A  Bovo  tolto  avea  la  scopa  e  '1  cesto,  j 

E  quasi  al  suo  stallon  diede  la  morte  ;  ! 

Ma  non  vede  Rainer,  che  per  la  coda  j 

Tien  anco  la  sua  vacca,  e  via  la  snoda.  ' 

XXXIV 

SpiccoUa  via  di  netto  in  un  sol  crollo 
Con  la  facilità  eh'  ad  un  pollastro  , 

Smembrar  vidi  talor  dal  busto  il  collo  ; 
Onde  '1  tapin  senza  garbin  e  mastro  [ 

Andò  pur  giù  da  banda,  e  rivprsoUo  j 

Col  suo  destrier  in  guisa  di  pilastro; 
Né  ancx)  Rainer  per  quel  tirar  con  forza 
Puote  star  saldo,  ma  giù  cadde  ad  orza. 


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Orlandino  —  Capitolo  2  29 


XXXV 

La  coda  e'  ave  in  man,  saltella  e  guizza. 
Come  Hol  far  una  Inserta  monca. 
PZccoti  Bovo  al  lungo  de  la  lizza, 
Coire,  eli'  ha  tolto  a  Salomon  la  conca  ; 
Quello  il  persegue,  e  finge  averne  stizza,' 
E  tanto  or  slunga  il  passo,  or  la  via  tronca, 
Cli'  altìu  Io  giunse,  ove  Ivvon  gran  briga 
Prende  sul  can'o  col  suo  istesso  auriga. 

XXXVI 

Ma  Namo  per  combatter  faccia  a  faccia, 
Volto  al  contrario,  fa  di  coda  briglia: 
Ivvon  di  paglia  grande  copia  abbraccia, 
E  tutta  in  capo  al  buon  Namo  scompiglia; 
Eìrli  sommerso  non  sa  che  si  faccia. 
Crollasi  tutta,  ed  ha  la  barba  e  ciglia, 
La  bocca,  il  naso  pien  di  busche  e  polve,  (33) 
Ed  in  un  fascio  a  terra  si  provolve. 

XXXVII 

Ee  Salomohe,  quando  Namo  vide 
Sepolto  in  un  pagliajo  andare  a  teiTa, 
Non  dubitar,  baron,  gridando  ride, 
E  con  Ivvon  comincia  un'  aspra  guerra  ; 
Quello  sul  caiTo  al  basso  gifi  si  asside, 
E  pugni  e  calzi,  e  quk  e  là  disserra; 
Che  Bovo  ancor  intorno  lo  lavora, 
Stigando  (34)  questo  a  poppa,  e  quel  a  prora. 

XXXVIII 

Morando,  Otton,  Danese,  con  Kampallo 
Son  attaccati,  stretti  in  una  calca, 
E  van  facendo  intorno  im  strano  ballo, 
Mentr   uno  addosso  all'altro  pi  fi  si  calca; 
Ciascun,  per  non  tomar  giù  da  cavallo, 
Col  cui  al  basto,  quanto  pò,  cavalca  ; 
E  presi  si  han  per  piedi,  mani,  e  braccia, 
E  scavalcarsi  insieme  ognun  procaccia. 


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30  Orlandino  —  Capitolo  2 

XXXIX 

Rampai  si  volge  del  Danese  al  mulo, 
Che  co'  denti  gli  tiene  Y  asinelio  ; 
Fallo  lasciar,  e  V  asinetto  su  lo 
Girar  di  testa,  fece  un'  atto  bello  ; 
Urta  del  naso,  e  colse  in  mezzo  al  culo 
Della  cavalla,  e  sente  odor  in  quello, 
Odor  grato  a'  stalloni,  e  mentre  il  lauibe 
Trovasi  aver,  di  quatti'o,  cinque  gambe. 

XL 

AUor  con  la  sua  voce  assai  sonora 
Quel  musico  gentil  chiamò  mercede. 
Poi  dritto  per  giosti*ar   anch'  esso  esplora 
Quella  targa  investir  eh'  anti  si  vede, 
Stk  su  duo  piedi,  ma  Rampallo,  allora 
Spietato  e  duro,  tosto  «  gli  provede,  '* 
Salta  del  basto  e  d'  un  legnalo  in  colmo    , 
Quanto  puote  portar  carcollo  d'  olmo. 

XLI 

E  '1   mastro  di  capella,  c'avea  cura 
Accomodar  la  voce  a  l' istrumento, 
Non  stette  saldo  a  quella  battitura, 
Come  al  martello  non  sta  falso  argento  ; 
La  chiave  di  Bè  lungo  forte  e  dura 
Fatta  Bè  molle  si  ritrasse  di'ento. 
Si  come  la  limaca  far  si  sole, 
Quando  s' incontra  a  chi  beccar  si  vole. 

XLII 

La  risa  non  vi  narro  delle  donne, 
Che  ciò,  fingendo  non  guardar,  vedeano, 
E  chi  cercato  ben  sotto  le  gonne 
AUor  avesse,  forse  che  rideano 
Con  altra  bocca  fra  le  due  colonne, 
Ove  molte  formiche  discoiTeano 
Per  brama  di  mangiar  non  pan'  o  vino, 
'        Ma  sòl  di  fra  Bernardo  il  scapuccino. 


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Orlandino  —  Capitolo  2  31 


LXIII 

Berta  sol  è  colei,  che  mai  non  ride  ; 
Anzi  lo  riso  d'  altri  piti  Y  offende  ; 
Tace  di  for  ma  divento  smania  e  stride, 
Che  r  ira  quinci  amor  quindi  Y  incende, 
Carlo  che  di  luntano  star  la  vide 
Cosi  sospesa  gi-an  piacer  ne  prende, 
Ella  s'  accorge  e  via  si  tolse  presta, 
Fingendo  dol  di  madre,  o  pur  di  testa, 

LXIV 

Fugge  alla  ciambi-a  ;  e  come  da  1  costume 
D'  amanti  ;  al  letto  buttasi  con  fretta  ; 
Ben  si  dimostra  al  guardo  al  torbo  luxnc  ; 
Ch'  una  man  fredda  al  cor  le  dà  gran  stretta; 
E  se  di  pianto  al  fine  un  largo  fiume 
Non  vi  rompea  l'ardor  della  saetta 
L'  arrebbe  incesa  comò  for  si  sole 
D' un  legno,  che  cent'  anni  coque  il  sole, 

XLV 

Levasi  al  fine,  e  un  paggio  di  dieci  anni 
Chiama,  eh'  un  Cherubin  non  fc  piti  bello 
Tutt'era  adorno  in  strafoggiati  panni, 
jy  ini  capriolo  pih  leggiadro  e  snello  ; 
Chiedelo  Berta,  volta  in  gi^andi  affanni, 
E  comanda,  dicendo  or  va  dongello, 
Va  ratto  ratto  in  piazza  e  tra  le  squadre 
Cercando,  fo  che  vegna  a  me  tuo  padre. 

XLVI 

Non  ti  pensar  chel  fonte  le  risponda. 
Anzi  qual  presto  gatto  giù.  descende. 
Acciò  chi  sia  'l  citeVo  non  s'  asconda. 
Dirollo,  poi  chò  'l  senso  qui  vi  pende. 
Quest'angioletto  da  la  chioma  bionda, 
Che  'n  grembo  a  Vener  qual'  Adone  splende, 
Rugier  da  Risa  nomasi,  eh'  è  figlio 
Del  prò  Rampallo  bianco  quant'  un  giglio. 


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32  Orlandino  —  Capitolo  2 


XLVn 

Qual  giglio  qiial  ligustro  è  '1  suo  candore, 
Co  gli  occhi  negri  ed  ha  capo  romano, 
Di  sguardo  lieto  d'  animoso  core, 
Di  ben  quadrato  petto,  gamba  e  mano. 
Taccio  la  sua  destrezza  il  suo  valore, 
Grato  a  ciascun  più  grato  a  Carlo  mano. 
Che  da  Rampai  suo  padre  il  volse  in  dono 
E  quel  ornò  del  brando  ed  aureo  sprono. 

XLvm 

Non  cessa  dunque  mai,  non  mai  s'  attrìga, 
In  fin  che  trova  il  padre  al  stolo  drento, 
Esso  cogli  altri  uscito  era  di  briga, 
Ch'  eran  caduti  in  quel  torniamento. 
Quando  vide  '1  figliuolo,  che  s' intriga 
Fra  li  cavalli  senza  alcun  spavento  ;  (35) 
Pensi  qualunque  padre  se  gran  pena 
Cacciogli  '1  sangue  al  cor  for  d'  ogni  vena, 

XLIX 

Scridalo  forte  e  al  tornar  V  affretta, 
Come  1  severo  padre  al  figlio  sole  ; 
Egli  securo  d'  arme  non  sospetta, 
Taglia  del  padre  V  ultime  parole, 
Venite  padre,  dice,  che  v'  aspetta 
Madonna  Berta  che  parlar  vi  vole; 
Poscia  si  volge  e  scampa  ritornando, 
Rampallo  il  segue  a  piede  sol  («ol  brando, 


Verso  il  palazzo  vola  quel  barone, 
E  con  Rugier  fu  inanzi  a  quella  diva; 
La  qual  vedendol,  presta  in  tal  sermone 
Proruppe,  in  volto  neghitosa  e  schiva; 
0  belle  prove  che  vostre  persone 
San  far  in  giostre;  voglio  che  si  scriva 
Cotesti  vostri  fatti  nelli  annali, 

f  Dì  Franza  a  quelli  de' Roman  eguali, 

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Oblandino  —  Capitolo  2  83 


LI 

Chi  v'ha  si  ben  instnitti?  dite:  quale 
Fu  si  bon  vostro  mastro  di  brocchero? 
Dricciar  potrassi  un  can-o  triumfale 
Agli  alti  capitan  del  nostro  impero. 
O  franchi  cavallier,  che  con  le  scale 
Su  gli  asini  sì  balzan  di  ligiero, 
Che  benedetta  sia  la  gi-azia  vostra, 
Poi  che  m'  ornati  d'ima  simil  giostra. 

LH 

Qual  mera^Hglia  poscia,  se  l' ispani 
Vi  dicon  Bottaglion,  (36)  Baghe  di  vino  ; 
Voi  di  bravar  sol.  boni,  gli  altri  sti'ani 
Chiamati,  alle  villen,  paglie^  ciichino  (37) 
Quand'  è  poi  tempo  di  menar  le  mani, 
Sete  peggior  del  sesso  feminino, 
E  pe  1  vostro  supè  ben  spesso  accade, 
Ch'  Italia  vi  ritien  nel  fil  di  spade. 

LHI 

Rampallo  eh'  allor  vede  per  grand'  ira 
La  donna  dir .  quel  che  non  sa,  che  dica, 
Sorride  alquanto  e  'n  parte  si  ritmi 
Ove  d'  udirla  pone  ogni  fatica, 
Finché  smaltisca  quella  voglia  dira, 
Che  la  memoria  ed  il  parlar  intrica, 
Ma  raquetata  poi  tal  vento  e  pioggia, 
Egli  parlando  piano  a  lei  s'  appoggia. 

LIV 

Madonna,  vi  ringrazio  eh'  io  sia  tale. 
Cui  dir  si  poscia  ciò  che  dir  vi  piace  ; 
V'accerto  ben,  che  sei  sia  ben  o  male 
Quel  eh  'n  giostra  intervien  ])er  me  si  tace, 
Anch'io  giostrai  su  quel  vii  animale 
Per  non  esser  fra  gli  altri  il  contumace, 
Quando  che  chiar  vi  faccio  e  manifesto; 
L'Imperator  esser  cagion  di  questo. 


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84  Orlandino  —  Capitolo  2 

LV 

Ver  è  perchè  ciò  faccia  dir  non  so, 
Ne  for  che  Carlo  altra  persona  il  sa; 
Q^od  autem  habeo  tantum  hoc  tihi  do, 
Ch'  un  vero  mio  pensier  a  me  anco  '1  dk  ; 
Vero  anzi  nò  ma  dubbio,  dirlo  vo. 
Perchè  la  cosa  molto  queta  va 
Lo  Re  per  noi  questo  tal  scherzo  fé  ; 
Per  mal  non  già,  clie  v'  ama  quanto  se. 

LVI 

Si  come  avviene,  par  eh' ognun  s' appaglii 
Di  far  r  amico  scorocciarsi  alquanto, 
Ma  non  gridate  più,  che  da  imbriaghi 
Cotal  giostra  non  de  proceder  tanto  ; 
Sarà  chil  scotto  innanzi  sera  paghi 
Se  non  me  'nganno  e  poi  darassi  vanto, 
Quel  che  si  vanta  sempre  lo  spagnolo, 
Aver  vittoria  un  tratto  senza  duolo. 

Lvn 

Se  noi  baghe  di  vino  e  bottaglioni 
Chiamano,  dican  questo  a  quei  di  Pranza 
Per  che  di  Carlo  e'  dodeci  baroni 
Sono,  for  che  la  stirpe  di  Maganza, 
Scesi  da  Roma  da  que' Scipioni, 
Coraeli  Fabii,  o  d'altra  nominanza, 
Che  Cesare  espugnando  in  questa  parte 
Lasciovvi  assai  del  popolo  di  Marte, 

LVUI 

E  di  cotesto  possio  fai-vi  fede 
Col  testimon  del  vescovo  Turpino, 
Ch'un  libro  vecchio  e  autentico  possedè^ 
Lo  qual  Silvestro  scrisse  a  Costantino, 
Ove  la  nostra  origine  si  vede  ; 
Mongrana,  Chiaramonte  e  di  Pipino, 
Non  siamo  Ispani,  Franchi,  ne  Alemani, 
Non  arabeschi  nò;  ma  Taliani, 


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Orlandino  —  Capitolo  2  35 

LIX 

Italia  bella,  Italia  fior  del  mondo, . 
E  patria  nostra  in  monte  e  in  campagna, 
Italia  forte  arnese  che,  secondo 
Si  legge,  ha  spesso  visto  le  calcagna 
Deir  inimici,  quando  a  tondo  a  tondo 
Ebbe  tal  or  Tedeschi,  Franza;  e  Spagna. 
Che  se  non  fusser  le  gran  parti  in  quella, 
Dominarebbe  il  mondo  Italia  bella. 

LX 

Berta,  eh'  ode  il  germano  esser  cagione 
Di  quel  tal  scherzo  d'asini  da  basto. 
Ma  che  giostrar  si  de  poi  con  ragione, 
Non  fece  di  parole  altro  contrasto. 
Ma  chiede  sol  perchè  non  v'è  Milone 
Ai-raato  de  villani  al  vero  pasto. 
Perchè  se  sei  vilan  e  voi  star  bene, 
Recipe  un  pezzo  d' olmo  su  le  schiene. 

LXI 

Rampallo  disse  a  lei  :  mi  meraviglio, 
Madonna,  assai  di  questo  che  non  venne 
Or  or  m'avento  a  lui  perchè  consiglio 
Pigliar  volomo  insieme  del  solenne 
Contrasto  ch'esser  deve:  or  stanne  figlio 
Qui  con  madona  e  detto  ciò  le  penne 
Spiegando  a'  piedi  l' alte  scale  scende, 
E  alla  stanza  di  Milon  si  stende. 

Lxn 

Ma  ritorniamo  al  rustico  certame 
De'  paladini  fatti  mulatieri; 
Or  voto  il  carro  avea  Iwon  di  strame, 
E  d'  altro  schermo  gli  era  già  mestieri, 
E  col  suo  vecchio  bove  fea  letame. 
E  mentre  co  le  spalle  i  cavallieri 
Contendon  lui  col  carro  traboccare. 
Si  corse  al  cui  del  bove  a  riparare. 


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S6  Orlandino  —  Capitolo  2 


LXin 

Ivi  suppose  ambe  le  man  con  fretta, 
Pensate  qual  finttada  vi  racolse, 
E  fece  un,  non  gik  d'acqua  benedetta, 
Asperges  me^  che  Bovo  proprio  accolse 
Del  volto  in  mezzo;  e  poscia  qual  saetta 
Pien'anco  i  pugni  di  quel  puzzo  tolse, 
E  così  dritto  il  bon  arcier  il  scocca, 
Ch'  a  Salamon  stoppò  gì'  occhi  e  la  bocca. 

LXIV 

EUi  abbatuti  più  da  la  vergogna, 
Fuggon  for  del  steccato  immantinente, 
Carlo  gli  fa,  per  più  scherno  e  vergogna. 
Sbatter  gli  piedi  e  man  di-ieto  la  gente. 
Lo  mulo  del  Danese,  eh'  in  Bologna 
Anzi  a  Parigi  stato  era  studente. 
Ficca  la  testa  in  giù  da  valent'  huomo, 
E  col  cui  alto  fkcevi  un  bel  tomo. 

LXV 

Fkcevi  un  tomo  tale,  eh  '1  Danese 
Una  stretta  da  mulo  ebbe  a  la  panza  ; 
Morando  con  Otton  venne  a  le  prese. 
Ed  ambo  di  cascar  stann'  in  balanza. 
Iwon  ;  eh'  era  sul  carro,  qui  comprese 
Ch'  alla  vittoria  poco  tempo  avanza 
Caccia  lo  bove  e  tanto  il  driccia  e  punge, 
Ch'  ove  son'  abbracciati  al  fin  si  giunge. 

LXVI 

E  qui  con  quella  soga,  eh'  al  gran  trave 
Noda  il  bifolco  e  stringe  paglie  o  feno, 
Acconcia  un  laccio^  e  poi  eh'  acconcio  l' bave 
Lor  osservando  va^  ne  più  ne  meno, 
Ch'  altrui  lusinga  e  move  il  pie  soave, 
S' un  fugito  cavai  segue  col  freno  ; 
Fin  eh'  a  1'  orecchia  o  altrove  da  di  mano 
Torna  la  brigUa,  e  poi  gli  è  duro  e  strano. 


ti  _ 


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Oriandino  —  Capitolo  2  3f  | 


V 


Lxvn 


Così  Ivvon  mlentr'  a  fatica  muove 

Il  carro  s'  accostava  a  li  baroni,  i 

Poi  visto  il  tratto  gitta  il  gi-oppo,  e  dove                                                     [ 

Segnato  avea,  la  corda  su'  galoni  '                   \ 

Cadendo  tira  e  quei  legati  smove,  ;• 

Traendoli  sul  can-o  da  gli  arzoni,  ; 

Come  talor  si  vede  stanco  e  lasso  f 

Lo  villanel  tirar  di  legna  un  tasso.  ; 

Lxvin 

Ben  vi  so  dir,  che  gli  sudò  la  braga, 
Nanti,  c'avesse  il  carro  su  le  scale,  ; 

E  se  di  lor  ogn'  un  stretto  non  caga  ; 
Convien  che  for  coreggie  al  manco  exale. 
Non  mai  veduto  fu  cosa  più  vaga. 
Che  gli  ha  legato  sì  le  braccia  e  Tale, 

Che  non  si  moven  più,  se  fussen  zocchi  (38)  1 

I]  se  si  moven  punto  moven  gli  occhi.  i 

LXIX  ! 

Or  qui  de  trombe  piti  di  cento  intorno 
Comincia  il  tararan  con  gran  rumore  ;  ; 

Vittoria  ciascun  grida  d' ogn' intorno  ;  l 

La  vecchia  de  la  tiù-ba  salta  fore, 
E  nuda  come  nacque  col  suo  corno 
Or  sona  forte  ;  or  grida  in  tal  tenore  ; 
I\^on,  viva  Ivvon  ;  viva  Bordella  ; 
Ch'empie  di  croste  e  yoda  la  scarsella. 

LXX 

Poi  spicca  un  salto  e  balzasi  sul  bove, 
Quella  vacca  leggiadra  benché  vecchia, 
E  quinci  il  carro  triiunfante  smove. 
Tanto  con  le  calcagna  il  bue  puntecchia 
Ciascun  di  Ivvon  viste  le  prove. 
Buttargli  fior  e  frondi  s'apparecchia 
E  così  stando  de  prigion  in  mezzo. 
Uscì  for  del  steccato  a  pezzo  a  pezzo. 


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38  Orlandino  —  Capitolo  2 


LXXI 

Dunque  ti  dico  o  savio  e  spuda  senno; 
Ch'  esser  ti  pare  un  potta  modenese  ; 
Che  qualche  fiata  le  persone  denno, 
Tutto  che  nobil  sian,  far  del  cortese. 
Ecco  del  suo  signore  eh' a  un  sol  cenno; 
Han  fatto  Bovo,  Otton,  Namo,  Danese; 
E  tu  ti  sdegni  rustico  vilano 
Aver  se  non  il  dio  de'  gì'  orti  in  mano  : 


FINISCE 
IL  SECONDO  CAPITOLO 


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bRLANDINO  ; 


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COMINCIA 
IL  TERZO  CAPITOLO 


XJhamo  la  coda  aver  del  rubicondo; 
Ch'  eri  nel  fin  del  canto  dissi  a  caso  ; 
La  piccarci  (39)  di  santa  Città  al  tondo 
Acciò,  eh'  ad  ambi  e'  volti  avesse  il  naso, 
Quanto  so  ben  :  che  s' io  pescassi  a  fondo 
Di  questi  santi  ippocriti  nel  vaso. 
Vi  troverei,  che  '1  ciel  tutti  li  perda, 
Non  muschio  esser  il  suo,  ma  pura  merda. 

n 

Tu  mi  dirai  lettor,  eh'  io  sia  scorretto, 
E  eh'  en  parlar  anzi  cagar  mi  slargo  ; 
Rispondo:  che  se  '1  buco  così  stretto 
Stato  fosse  d' alcun,  com'  era  largo. 
Ne  Giuvenal  ne  Persio  aVrebber  detto 
Le  sporche  mende  altrui  cogl' occhi  d'Argo. 
Perchè,  come  poti*assi  dir  la  causa 
Di  qualche  puzzo  e  non  ti  render  nausa  ? 


V  -.1 


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40  Orlandino  —  Capitolo  3 


m 

Voi  tu  saper  qual  sia  la  cosa,  che 
Cercando  non  ti  curi  trovar  gik? 
Quesf  è  :  quando  a  V  oscuro  non  si  ve, 
Ch'  un  soldo  a  te  caduto  e  quk  e  Ik 
Or  cerclii  co  la  mano  e  or  col  pe, 
Fin  che  la  mano  in  qualche  stronzo  va: 
Tosto  la  odori,  e  ti'ovi  quel  che  nò 
Trovar  volevi,  e  il  suo  cercar  fé  ciò. 

IV 

Ch'  io  voglia  dir  su  questo,  ben  contare 
Potrei,  ma  uscito  ni'  è  for  di  cervello. 
Tal  atto  spesso  avvien  in  predicare 
Del  libro  (40)  arbiti-io  a  qualche  fraticello, 
Tu  Todi  su  le  spalle  a  Dio  montare, 
E  cacciar  per  un'  ago  il  suo  Gambello, 
Ma  uscita  non  ha  poi,  ne  sa  trovarla, 
Chi  ascolta,  poco  intende,  e  men  chi  parla. 


Torniamo  dunque  al  testo,  che  la  tort-a 
Mi  sente  più  di  stizzo  che  di  lardo, 
Ma  voglio  qui  pigliar  la  via  più  corta, 
Per  non  giunger  Orlando  troppo  tardo, 
Qui^n  Turpin  la  storia  sua  trasporta 
In  Africa,  scrivendo  del  gagliai-do 
Almonte  primo  figlio  d'  Agolante, 
D'animo,  forza  e  di  beltJi  prestante, 

VI 

Le  gran  prove  che  fece  e  la  soprana 
Virtù  eh'  al  mondo  sparse  per  avere 
D'Ettore  il  nobil  brando,  Durindana,. 
E  come  mai  noi  potè  possedere, 
Fin  che  non  descendessc  ne  la  tana 
D'un  mago  Atlante,  il  quale  con  minere 
Di  più  metalli  e  col  suo  Farfarello 
Fé  in  quattro  mesi  un'  incantato  anello. 


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Orlandino  —  Capitolo  3  41 

VII 

Quel  iticantato  aiiello^  cui  k  figlia 
t)ì  Gahifrone  inòltò  tempo  dopo 
Ebbe  con  seco  a  grande  meraviglia, 
Celandosi  d'  alti'ui  quavid'  era  uopo, 
E  ruppe  ogni  alti'o  incanto,  che  venniglia 
V'era  una  pietra  dal  sin  Etiopo. 
Poi  si  ritoma  il  mio  dottor,  seguendo 
Di  Berta  dir,  a  cui  mie  rime  i'  spendo. 

vm 

Ella  sì  per  amor,  e  si  perdi'  era 
Donna,  come  son  l'alti*,  impaziente, 
Per  una  sua  fidata  messagiera 
A  cui  scoperto  avea  la  fiamma  ardente, 
Manda  pel  sf^gio  Duca  di  Bavera, 
E  seco  ragionando  il  fé  repente 
Portar  al  suo  fratello  un'  ambasciata  5 
Alquanto  (Vun  sdegnetto  avvelenata, 

IX 

Sorrise  Carlo  seh'^a  altra  risposta, 
Tacendo  nftWaì  lìsponde  Un  gran  signore. 
El  quandt»  annebbia  gli  occhi,  senza  sosta 
Scampa  nel  porto  che  '1  mar  fa  rumore; 
Ma  se  '1  guardo  ridente  miri,  (41)  accosta, 
Accostati,  ti  dico,  che  dal  cuore 
L'occliio  sempr'  è  messaggio  o  lieto  o  torbo  ; 
E  questo  imprende  ogn'  un  fora  eh'  up  orbq. 


X  H 


Adunque,  sazio  del  giostrar  mendace, 
Bandisce,  rinnovando  e'  patti,  il  yerq  : 
Wd  per  servar  tra  soi  baroni  pace, 
Anco  per  nova  festa  e  gioco  intero  ; 
Come  signor  che  '1  popol  suo  compiace  ; 
Fa  bando  ch'ogni  principe,  e  guerriero 
Non  porti  a  lato  spada,  stocco  o  maccia 
Ma  con  le  lanze  sol  guerra  si  faccia. 


A 


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42  Orlandino  —  Capitolo  3 

XI 

Questa  fii  la  cagion,  che  due  figliole 
Avea  Namo,  Ai'meUna  e  Beatrice  ; 
S'  ambe  fusser  al  mondo  belle  sole, 
Ciascun  le  vole  e  meritarle  dice. 
Danese  ebbe  la  prima  V  altra  vole 
Amon,  se  può,  ma  Y  ira  emulatrice 
Dei  Maganzesi   tenta  Carlo  e  Namo 
Che  r  abbia  il  conte  ti'aditor  Ginamo. 

xn 

L'editto  dunque  fu  a  ciascun  grato, 
Sol  ai  signori  di  Maganza  spiacque; 
Ad  ogni  sceleragine  e  peccato 
Questa  canagUa  maledetta  nacque  ; 
Vorria  veder  di  Carlo  e  gente  e  stato 
Sommerso  in  terra  o  'n  le  marittime  acque, 
Gli  capi  d'  esti  cani  sì  malvagi. 
ti  Manfi-edon,  Ginamo  e  Bortolagi. 

xin 

Buttò  Ginamo  il  brando  via  con  sdegno, 
Ch'avelenato  avea  lo  ribaldone, 
Fra  loro  congim'ati  era  dissegno, 
Ch'egli  ferisca  cautamente  Amone, 
Tenendosi  lor  certi,  eh' ad  un  segno 
Sol  di  stoccata  morirà  '1  barone, 
E  che  sol  data  sia  la  colpa  al  brando, 
Pur  c'abbian  poi  Beatrice  al  suo  comniando. 

XIV 

Scingesi  ognun  la  spada  con  gran  fretta, 
Per  non  opporsi  al  bando  imperiale, 
Ecco  'I  Danese  al  sono  di  trombetta. 
Con  Tasta  diitta  attende  chi  Tassale. 
Stava  una  torma  de  spagnoU  stretta. 
De'  quali  Falsiron  è  caporjile, 
E  anco  era  concorde  con  Maganza, 
Di  scavalcar  i  paladin  di  Franza, 


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Oblandino —  Capitolo  3  43 

XV 

Elli  gih  non  sapean  tal  trama  ordita, 
Di  che  contro  Danese  va  Iwone; 
Morando  similmente  fa  pai-tita 
Dal  luogo  suo  condendo  in  ver  Bovone  ; 
Bovone  contra  lui,  eh'  ognun  s  aita 
Mandar  il  suo  contrario  al  sabbione. 
Ma  stetter  tenni  questi  quattro  in  sella, 
E  iron  r  aste  rotte  alla  mia  stella. 

XVI 

La  stella  di  Saturno  o  sia  pianeta 
E  quella,  che  mi  fk  d'  uomo  chimera, 
Lo  qua!  non  ebbi  ma'  ne  avrò  mai  queta, 
La  mente  in  fantasie  matin  e  sera. 
Ciò,  dico,  perchè  officio  è  del  poeta 
GioA'ar  e  dilettar  con  tal  maniera 
Di  stile,  eh  '1  lettore  non  s'  attedia, 
E  ciò  fa  Dante  nella  sua  comedia. 

xvn 

Quel  Dante,  sai  ?,  lo  qual  Omer  tosca,no 
xVppelIar  deggio  sempre,  come  ancora 
Virgilio  è  detto  Omero  mantovano. 
Per  cui  la  patria  mia  tanto  s'  onora, 
E  chi  '1  Peti'arca  fa  di  lui  soprano. 
Nel  arte  matematica  lavora. 
Che  Dante  vola  più  alto,  e  questa  dico, 
Col  testimonio  di  Giovanni  Pico. 

XVIII 

Lo 'quale  disse  ch'ambi  hanno  l'onore; 
Questo  di  senso  e  quello  di  parole, 
Vero  e  che  quant'  al  frutto  cede  il  fiore, 
Quanto  del  sol  il  lume  ad  esso  sole, 
Cotanto  d'  ogni  stile  il  bel  candore 
Concede  a  quella  vasta  e  orrenda  mole 
D'un  alto  ingegno  d'un  concetto  tale, 
Ch'oltra  T  ottavo  cerchio  spiega  l'ale. 


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44  Orlandino  —  Capitolo  3 


XIX 

Tal  dico  ancor,  eh' un  Chine  di  Josquino,  (42) 
Si  coinè  astiai  più  vai  di  tante  e  tanti 
Canzone  e  niadricai  del  Tamburi  no, 
O  merdagalli  gli  appellar  alquanti  ; 
Cosi  pai'nii  che  Dante  alto  e  divino 
Si  lascia  pò  le  spalle  gli  altrui  canti, 
Che  quanto  piii  de  l'opre  vai  la  fede, 
A  Beatrice  tanto  Laura  cede. 

XX 

Lettor,  sta  queto  e  tien  più.  corto  il  naso, 
Lode  di  Dante  non  biasman  Francesco: 
Credil  a  me,  se  Scotto  e  san  Thomaso 
Ebber  l'onor  dinnanzi,  or   un  tedesco, 
O  sia  di  Franza,  Erasmo  (43)  aperse  il  vaso, 
Lo  qual  de'  frati  il  stile  barbaresco 
Avea  rinchiuso  sì  che  nullo  odore 
V\h  si  sentia  d'  alcun  primo  dottore. 

XXI 

Molta  scienzia  i  trovo  d'  ogni  sorte, 
Ma  pochi  bon  scrittori  e  men  giudicio; 
Però  col  tempo  s'  aprino  le  porte 
Di  saper  sceglier  la  virtù  dal  xacio  ; 
O  sante,  o  benedette,  o  degne  scorte 
A  conoscer  di  Christo  il  beneficio. 
Ma  perchè  forse  i'  passo  gli  confini 
Ora  torniamo  ai  quattro  paladini. 

xxn 

Ma  che  faranno,  che  non  hanno  spate, 
E  sol  un  breve  tronco  in  man  gì'  resta 
Ecco  '1  piacer  degl'  m^i  e  bastonate, 
Che  dannosi  co'  fusti  su  la  testa, 
Rideno  ciò  vedendo  le  brigate, 
Riden  e  quelli  che  si  dan  la  pesta; 
Fra  tanto  ancora  di-  più  apprezziati 
Baron'  insieme  sonosi  tacati. 


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Orlandino  —  Capitolo  3  45 


xxni 

Vinti  (44)  franzesi  e  tanti  altri  spagnoK 
Si  vanno  inconti'o  con  lor'  aste  al  segno  ; 
Diece  toscani  e  cinque  romagnuoH. 
Sfideno  insieme  quindeci  del  Regno  (45)  ; 
Tutti  ad  un  tempo  questi  armati  stoli 
Pongon  e'  colpi  dov'  è  lor  disegno  : 
Grand'  è  '1  polvino,  il  sono,  il  grido,  il  sti'epito 
Del  pazzo  volgo,  e  de  le  trombe  il  crepito. 

XXIV 

Ar  investii'  de  1'  aste  ecco  e'  tronconi 
Volan  in  cielo  e  molti  son'  in  terra; 
Alzan  le  piante  in  luogo  de'  pennoni, 
E  già  si  vien  alla  piacevol  guerra; 
Qui\d  a  le  pugna  giocasi  e  bastoni,  I 

E  questo  quello,  e  quello  questo  atterra: 
Non  hanno  spade,  brandi,  mazze,  o  stocchi, 
Qual  dà  col  pugno  e  qual  col  deto  (46)  in  gli  occhi. 

XXV 

Mentre  si  lide  accosto  di  qualchuno. 
Trenta  Lombardi,  e  trenta  Maganzesi 
CoiTcndo  fan  di  polve  V  aere  bi-uno. 
Ma  di  Maganza  vinti  son  distesi 
E  di  quel  scorno  ride  ciascaduno  ; 
Sol  de'  Lombardi  cinque  Novai-esi 
Tre  Bergamaschi,  e  da  Cremona  un  paro 
Non  ebber  al  cascar  alcun  ripai-o  (47). 

XXVI 

L'aperta  sua  vergona  ebbe  a  dispetto 
Ginamo  di  Magonza,  e  Bertolagi. 
Mossero  trenta  conti  e  lì  in  cospetto 
Di  Carlo  mano  e  tanti  uomini  saggi, 
Contra  Lombardi  vanno,  che  'n  obbietto 
Non  han  se  non  le  pugna  e  bon  coraggi 
Spiacque  Tatto  villano  al  re  Cartone, 
Ed  accennò  Rampallo,  e  '1  forte  Amone. 


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46  Orlandino  —  Capitolo  3 

xxvn 

Rampollo  abbassa  un  legno  molto  grosso, 
E  verso  Bertolagi  va  rincliiiiso  ; 
In  mezzo  del  la  faccia  V  ha  percosso, 
E  un  tomo  fagli  far  col  capo  in  ginso. 
Ruppesi  d'una  spalla  il  nervo  e  Tosso, 
Pensate,  s'  el  mastin  restò  confuso. 
Similmente  Amone  senza  scale 
Smontar  fece  Ginamo  suo  rivale. 

XXVUI 

Ivvon,  Bovo,  Danese  con  Morando, 
Spartiti  l'un  dalFalti-o,  quasi  fiacclii, 
Enti'oron  nella  torma  fulminando, 
E  fanno  a  questo  a  quello  gli  occhi  macchi. 
Chi  \aiol  di  pugni,  n'  liave  al  suo  comando  ; 
Se  av^^en,  che  addosso  V  unghie  Amon  gli  attacchi, 
Già  vinti  n'  ha  mandato  al  sabbione, 
Empiendo  il  capo  lor  di  stordigone. 

XXIX 

Chiunque  for  di  sella  si  ritrova 
Mister  gli  fa  eh'  uscisca  de  la  (48)  sbarra, 
Sei  paladini  già  son  alla  prova, 
E  con  le  pugna  fan  pugna  bizzari'a  ; 
Ma  par  che  a  lor  adosso  il  mondo  })iova. 
Che  Falsiron  è  quello  che  li  abbaiTa, 
Abban-ali  mandando  molti  in  frotta, 
Poi  eli' ebbe  ognun  di  loro  Tasta  rotta. 

XXX 

Qua!  li  percuote  adrieto  e  qual  davante, 
Chi  nelle  spalle,  e  eh' hi  le  gambe  i  piglia. 
Al  povero  Morando  in  un  istante 
Del  suo  (^avallo  tratta  fu  la  briglia^ 
Ivvone  fatto  è,  d'uomo  d'anne,  un  fante, 
E  come  in  teiTa  sia  si  meraviglia. 
Danese  n'  ha  cinquanta,  che    1  ritiene, 
In  fin  che  diede  in  ten*a  de  le  rene. 


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L. 


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Orlandino  —  Capitolo  3  47 


XXXI 

Giamai  non  fu  veduto  un  tal  combattere, 
Per  cui  si  slegua  (49)  il  popolo  di  ridere  : 
Là  vedi  Bovo  e  piedi  e  mani  sbattere, 
Sol  per  puotersi  dal  rumor  dividere  : 
Qua  su  e  gii\  Rampallo  tende  a  battere, 
Ma  la  gran  calca  puotelo  conquidere  : 
Bovo,  eh'  ognun  il  tocca,  pista,  e  vapola 
In  ten-a  ne  le  cinge  (50)  al  fin  s' incapola. 

XXXII 

Morando,  il  cui  cavallo  non  ha  freno, 
Di  trotto  al  suo  dispetto  con-e  intomo  : 
Vole  attrigarlo  e  or  la  man'  al  creno, 
Or  a  r  orecchia  il  prende,  ma  ritomo 
Non  fa  la  bestia,  eh'  ad  un  juioco  seno 
Al  fin  si  resta,  e  del  patron  con  scomo 
Prese  un  boccon  la  rozza  di  quel  strame, 
E  insieme  mastigando  fea  letame, 

xxxm 

Così  mangiando  insieme  e  stercorando 
Fa  che  la  risa  intrica  le  trombette  : 
Ei  eh'  è  sfdiernito  vennesi  tm-bando, 
E  d'  ucciderlo  tosto  si  promette, 
Pone  la  destra  per  cavar  il  brando, 
Ma  no  '1  ritrova  onde  confuso  stette. 
Stringesi  ne  le  spalle,  e  for  di  lizza 
Escie  pien  di  vergogna  e  più  di  stizza 

XXXIV 

Già  sol  de'  Paladini  Amon  è  in  sella  ; 
Tirano  li  altri  a  drieto  lor  cavalli 
Col  capo  chino  e  rossa  la  masselhi, 
Gridando  il  volgo  intorno  dalli  dalli. 
Gode  Maganza  e  il  Spagnol  saltella. 
Ed  anco  improverando  drieto  valli. 
Onde  re  Carlo  n'  ebbe  gran  dispetto. 
E  fu  per  porvi  fin  senza  rispetto. 


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48  Orlandino  —  Capitolo  3 


XXXV 

Convien  eh'  a  molti  ancora  ciò  dispiaccia 
Vedendo  tanti  contrastar  si  pochi, 
Amon  soletto  fassi  dar  la  piaccia 
E  cangia  in  un  momento  cento  lochi, 
Spicca  le  piastre  e  sol  con  Y  ungie  sti-accia, 
E  fa  col  pugno  i  visi  negri  e  fiochi, 
E  pm*  fu  gik  per  far  de'  piedi  testa, 
S'  era  la  lanza  di  Rainer  men  presta. 

XXXVI 

Però  che  in  quello  corso  che  fa  im  cervo, 
Quand'  ha  deposto  de  le  corna  il  peso, 
Vien  ratto  col  suo  fusto  di  bon  nervo, 
Ed  un  Piccai'do  in  terra  ebbe  disteso. 
Poi  segui  '1  Namo  eh'  un  Spagnol  protervo 
Spinse  for  di  1'  arzone  capo  peso, 
Ottone  corre  ugual  a  Salomone 
Quel  batte  un  Savoin,  quest  un  Vascone. 

XXXII 

Cotesti  quattro  in  un  momento  a  piede 
Posero  quanti  occorser'  a  cavallo. 
Or  spera  Falsiron  che  sian  eredi 
Del  premio  i  soi  Spagnoli  senza  fallo  ; 
Io  son  in  porto,  disse,  già  mi  cedi 
Carlo  r  onore  eh'  ho  ridotto  il  ballo 
Al  voto  nostro  in  scherno  de'  fi-anceschi, 
Ch'  ognun  di  lor  non  sa  ciò  che  si  peschi. 

xxxvin 

Punge  '1  destriero  e  dinccia  Y  asta  al  ciglio, 
E  contra  a  Salamone  si  disserra  ^ 
Lo  qual  senz'  ulla  in  mano  die  di  piglio 
A  quatro  spanne  d' asta  eh'  era  in  terra. 
Sta  saldo  a  Falsirone  ma  '1  periglio 
Del  inegual  contrasto  giù  Y  atterra. 
Con  simile  vantaggio  Balugante, 
Fece,  eh'  el  ciel  mostrò  Rainer  le  piante. 


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Orlandino  —  Capitolo  3  49 


xxxrx 

O  belle  prove,  grida  il  Duca  Namo,  * 
Che  fare  sanno  '1  vantator  Spagnoli  ; 
liiportarete  il  ^dttorioso  ramo, 
Mercè  la  frode  e  li  tramati  doli  : 
Risponde  Falsirone  :  or  presi  al  amo 
Avemo  pur  di  Marte  li  figliuoli  : 
Secondo  il  nome  tuo  fai,  disse  Ottone, 
Poi  ruppeli  sul  capo  il  suo  bastone. 

XL 

Ma  Balugante,  e*  ha  lo  fusto  integro  ; 
Percotelo  nel  fianco,  e  'n  teiTa  il  getta  ; 
Molf  era  il  falso  Falsiron  allegro, 
E  por  di  sella*  Namo  studia,  e  affretta. 
Amon  che  per  stracchezza  omai  vieii  })egro 
Ne  avea  cinquanta  intorno  a  grande  stretta. 
Onde  qui  spiacque  Y  atto  sì  Aallano 
A  Parigini,  e  via  pifi  a  Carlo  mano. 

XLI 

Lo  qual,  volgendo  V  occhio  alto  e  soperbo, 
Chiede  perchè  non  vi  è  Milon  d'Angnmte. 
Bovo  eh'  era  vicino,  disse  :  io  serbo 
In  altro  tempo  (pieste  ingiurie  tante. 
Senza  rispetto  per  lo  giusto  verbo  ; 
C  hanno  confuso  il  gioco  a  te  davante. 
Or  lodano  pm-  te,  eh'  al  tuo  comando 
Non  si  ti'ovammo  a  lato  mazza  o  brando. 

XLH 

Mentre  Bovo  e'  Spagnoli  ancider  ^'^ole, 
E  Carlo  provedervi  si  dispeme, 
Rampallo  già  di  Berta  alle  parole 
Entrato  era  '1  palazzo  di  Milone. 
Corre  alla  ciambra  (51)  come  correr  sole 
L'  amico  a  1'  altro,  e  grida,  ah  vii  poltrone  ! 
Che  fai  nel  letto  ;  e  mentre  il  sconcia  e  tira 
Ode  eh'  acerbamente  egli  sospira. 


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50  Orlandino  —  Capitolo  3 


XLHI 

Aimè  !  che  veggo  ?  e  perchè  lagni  tu  V 
Non  odi  tu,  Milone  V  per  la  fé, 
Che  da  fanciulli  sempre  tra  noi  fu, 
Chi  ti  move  a  dolerti  ?  dillo  a  me. 
Ahi!  quanto  duro  questo  panni  e  più, 
Che  di  prudenzia  egual  non  hai,  di  te, 
Pm-  quel  proverbio  al  saggio  sol  si  tìi. 
Tema  di  traboccar  chiunque  sta. 

XLIV 

Ben  traboccato  son,  rispose  quello, 
Ne  sollevarmi  piti  giamai  vi  spero. 
Deh  fato  ingiusto  e  di  pietà  rubello  ; 
Che  sì  cangiato  m'  hk  di  bianco  'in  nero. 
Potea  fortuna  pifi  crudel  flagello 
Di  questo  ritrovarmi,  o  cavaliero  ? 
Chi  mi  consiglia  dunque  ?  e  che  varrannni 
S'  alcun  contra  '1  desio  consigliaramnii  : 

XLV 

Partiti  dunque,  che  non  è  curabile 
Lo  mal  che  'n  le  medolle  i  sento  pungere, 
Ogni  altra  peste  creggio  (52)  esser  sanaliile 
A  mille  vie  di  cibo  taglio  e  ungere  ; 
Amor  sol'  è  quel  tosco  inevitabile 
Cui  morbo  alcun  egual  non  si  può  giiuioere 
Né  vi  si  trova  al  mondo  un  sol  rimedio, 
For  che  morir  d'  affanno  e  lungo  tedio. 

XLVI 

Stette  Rampallo  in  quel  parlar  si  fisso 
Che  tutto  il  volto  venne  contrafatto  ; 
Tu  m'  hai,  disse,  fratello  quasi  ucciso, 
E  posto  a  tal  che  for  di  me  son  tratto. 
Per  qual  sì  altero  e  sì  legiadro  viso 
Puote  smarire  un  animo  sì  fatto. 
Tu,  che  di  saviezza  non  hai  pare, 
Ti  lassi  dunque  in  tanto  error  cascare  ? 


i 


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GoQgiè. 


Obl ANDINO  —  Capitolo  3  51 

XLVn 

E  chi  è  costei  ?  saria  forse  Costanza, 
O  più-  di  Namo  la  figliuola  bella  ? 
Ne  creder  voglio,  che  facci  mancanza, 
Di  Carlo  amando  Berta  la  sorella. 
Tant'  alto  chi  ponesse  sua  speranza, 
PoiTÌa  sperar  dal  ciel  ti-ar  ogni  stella. 
Milon  non  puote  continersi  allora, 
Ma  senza  pensar  altro,  saltò  fora. 

XLvm 

Arcana  cogit  amor  conjiteri, 
Disse  r  Omero  nostro  mantoano. 
E  cosi  allor  Milone  i  suoi  pensieri 
Scoj^erse  al  fido  sozio  a  man  a  mano. 
Ma  eh'  era  gli  occhi  d'  ella  tanto  alteri. 
Che  porvi  speme  già  cred'  esser  vano  ; 
E  pur  se  non  gli  vien  tal  fiamma  tolta. 
Ornai  dal  coi*po  V  alma  sua  sia  sciolta  ; 

XLIX 

Ne  che  sa  imaginare  modo  e  via. 
Onde  speri  sfocarsi  il  miser  core. 
Per  lo  non  aver  quel  si  desia, 
E  r  inusato  e  inegual  amore, 
Lo  tosco,  lo  velen  di  zolosia 
Già  1  conduranno  al  simile  furore, 
Che  tolse  a  Phili,  Piramo,  e  Didone 
La  vita  stessa,  non  che  la  ragione. 

L' 

Ranipallo  cotal  detto  fiso  ascolta 
Ed  ascoltando  rupe  un  largo  pianto. 
Trarlo  di  quella  mente  iniqua  e  stolta 
Con  boni  avisi,  già  non  si  dia  vanto. 
Non  mai  verragii  tanta  pena  tolta, 
Se  non  allontanandol  da  lei  tanto. 
Che  non  la  veda  ;  e  così  a  poco  a  poco 
Spera  ritrarlo  dal  maligno  foco. 


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52  Orlandino  —  Capitolo  3 

LI 

Dunque,  comincia  il  saggio  ad  invitarlo, 
Se  gir'  in  Barbarla  seco  gì  agrada.,.., 
Ma  non  si  tosto  mosse  ad  confortarlo, 
Ecco  improviso  al  lungo  di  la  strada 
Cpnendo  viene  il  nuntio  di  re  Carlo, 
E  dice,  che  Milone  senza  bada 
Si  trovi  annato  in  piazza  con  la  lanza, 
Per  rifrancar  V  onor  perso  di  Franza. 

LH 

Milon  eh'  ascolta  V  ambasciata,  presto 
Salta  di  letto,  e  chiede  Y  annatura. 
Con  lieta  fronte  copre  il  senso  mesto, 
E  calca  il  petto  la  mordace  cura. 
Va,  disse  al  nuntio,  dilli,  che  mi  vesto. 
L'anni,  quantunque  manco  di  natura. 
Perchè  una  lenta  febre  al  mio  dispetto 
M'  avea  ridutto  alquanto  sopra  il  letto. 

Lin 

Mentile  che  '1  messagiero  si  diparte, 
Rampallo  toma  al  suo  ragionamento  : 
Voi  tu,  disse,  fratello,  ruinarte  ? 
Voi  tu  si  pazzo  gir'  al  tomiamento  ? 
Sveglieti  di  tal  furia,  mentre  1'  arte 
D'amor  ragion  in  te  non  anco  ha  spento. 
Molti  son'  e'  remedi  al  novo  male. 
Ma  lo  'nvecchito  (53)  al  tutto  vien  moi-fcxle. 

LIV 

Non  ti  scordar  la  fama  tua,  barone. 
Non  il  sj^lendore,  non  quel  savio  petto. 
Se  tu  non  hai  di  te  compassione. 
Ben  r  arrai  manco  di  1'  altrui  diffetto. 
Ritorna  virilmente  alla  ragione, 
Ne  voler  darti  a  femina  soggetto. 
Perchè  tu  perdi,  seguitando  amore, 
Te  stesso,  Carlo,  e  l'acquistato  onore. 


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Orlandino  —  Capitolo    S  53 

LV 

Tu  reggeresti  Y  universo  mondo  ; 
Ed  una  feminella  ti  governa? 
In  tuo  servigio  forte  mi  confondo 
Vedendo  quella  gloria  tua  soperma 
Vilmente  sottoporsi  a  'n  capo  biondo 
D'  una,  non  anco  so,  s'  ella  discerna 
Il  ner  dal  bianco,  tenera  fanciulla, 
Tolta  testé  di  fasce  e  de  la  culla. 

LVI 

Tu  pur  hai  milli  essempi  avanti  gli  occhi, 
Quanto  mal  vien  dal  sesso  muliebre  : 
Nulla  dimanco,  in  guisa  de'  ranocchi, 
Siamo  in  tal  lango  sin  alle  palpebre, 
Né  conoscemo  F  arti,  e  li  fenocchi 
Ch'  usano  quelle  in  Y  amorosa  febre, 
Fin  che  proviamo  poi,  che  queste  scroie 
Bastanti  sono  d'  arder  mille  troie. 

Lvn 

0  misero  chi  segue  la  lor  traccia  ! 
Ch'  en  se  di  ben  non  han,  for  che  le  forme, 
Donde  scolpita  vien  Y  umana  faccia, 
Quantunque  in  luogo  putrido  e  defomie. 
O  misero  chi  darsi  si  procaccia 
In  preda  ad  una  belva  e  mostro  enonne  ! 
Cagione,  da  eh'  è  '1  mondo,  d'  ogni  male, 
Crudele,  invidiosa,  e  bestiale. 

Lvm 

Mentre  Rampallo  tende  a  confortarlo. 
Ecco  su  vien'  un'  altro  ambasciatore. 
NaiTa  la  doglia  e  ira  de  re  Carlo, 
Che  '1  Spagnol  esser  debba  \ancitore. 
Milon,  udendo  ciò,  per  aiutarlo 
E  riportar  col  suo  Y  altrui  splendore. 
Non  altro  al  cavalliero  vi  risponde, 
Corre  alla  stalla,  e  tutto  si  confonde. 


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54  Orlandino  —  Capitolo  3 


LIX 


Salta  in  arzone  tosto,  e  l' asta  piglia  ; 
Urta  '1  corsier,  galoppa,  e  non  dimora. 
Berta,  eh'  attende,  fassi  meraviglia 
Ch'  omai  non  vien  ;  perchè  Y  amante  un'  ora 
Esser  mill'  anni  gim-a,  e  assotiglia 
L' ingegno  sì,  che  tienesi  talora 
Veder  quel  che  non  vede,  e  poi  se  1  vede, 
Tant'  è  '1  piacer,  che  ciò  veder  non  crede. 

LX 

Tessuto  avea  con  la  sua  man  arguta. 
Una  gierlanda  d'  araorissim'  erba, 
Qual'  è  r  Ascentio,  e  incendiosa  Ruta, 
E  la  morte  di  Socrate  sì  acerba  ; 
Ma  perchè  al  naso  è  grave  la  cicuta. 
Con  rose  il  mal  odore  disacerba. 
Poi  cautamente  diedel  a  Rugiero, 
Che  ratto  quella  porti  al  cavaUero. 

LXI 

H  qual  anco  non  era  in  piazza  giunto, 
Quando  Rugier,  avendo  V  ale  al  piede, 
Volando  va,  ne  si  dimora  punto, 
Infin  che  di  luntano  il  sente  e  vede. 
Chiamagli  drieto,  e  poi  che  V  ebbe  aggiunto  ; 
Guardasi  prima  in  cerco,  e  qui  gli  diede 
Con  umile  saluto  lì\ffirlanda. 
Dicendo  la  persona  cfte  la  manda. 


Non  avampò  mai  polverosi  ratto. 
Quando  riceve  la  bombai-da  il 
Come  subitamente  il  conte  tratto^ 
Fu  di  sì  acerba  doglia  in  lieto  j 
Non  più  vole  col  ciel  tregua  ne 
E  sì  d'  ogn'  altro  ben  gli  cale  poco, 
Che  sempre  soffrirebbe  starne  privo, 
Pm-chè  sol  Berta  onori,  e  mqrto,  e  vivo. 


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Orlandino  —  Capitolo  3  55 


Lxin 

Imponesi  qiiel  dono  al  bel  cimerò, 
Bascia  '1  fanciullo,  e  segue  la  sua  via. 
Ben  col  destiìero  va,  ma  col  pensiero 
Vola  di  questa  in  quella  fantasia  ; 
Studia  de  F  erbe  intender  il  mistero, 
Né  mai  si  feima  in  una  allegoria  ; 
E  già  qualche  indovino  aver  delibra. 
Che  d'  un  secreto  tal  gli  apra  la  fibra. 

LXIV 

Non  tanta  commentarla  (54)  sopra  '1  Sesto, 
Decreti,  Decretali,  e  Pisanelle, 
Di  Galaplu'on  la  figlia,  e  tutto  '1  resto 
.^^^ificarunt  fratres  e  sorelle. 
Quanta  facea  Milone  su  quel  testo 
De  le  confuse  erbette  e  rose  belle  ; 
Ne  mai  vi  ha  fine,  come  fa  '1  Scotista 
Conti-a  r  utrum  et  probo  del  Tomista. 

LXV 

Finge  chimere,  sogni  e  fantasie. 
Quali  non  pose  mai  Merlin  Cocaio, 
Lo  qual  di  Cingar  sotto  le  bugie, 
Scrisse  che  più  mai  fece  alcun  notaio, 
D'  alcuni  menchionazzi  le  pazzie, 
(■he  intendon  rari,  e  io  son  il  primaio 
Che  r  ho  provate,  e  forse  ancora  scritte 
Fra  genti  negri,  macilenti,  afflitte. 

LXVI 

Ma  pervenuto  già  dov'  è  '1  bagordo, 
Voltosse  a  lui  ciascuno  a  grand'  onore. 
Lo  pazzo  volgo,  di  veder  ingordo. 
Senza  pensarvi  su,  vien  a  rumore  ; 
Alle  cui  voci  e  gridi  fatt'  è  sordo. 
Co'  circostanti  1'  alto  imperatore. 
Milon  tocco  '1  destrier,  e  quello  in  alto 
Ben  \ÌQti  piedi  spicca  un  doppio  salto. 


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56  Ohlandino  —  Capitolo  3 


Lxvn 

Percosse  '1  ciel  un  sono  via  mischiato 
Di  varie  voci,  trombe,  plausi,  e  comi, 
Quand'egli  fece  il  salto  smisurato, 
E  reverentia  ai  biondi  capei  adorni 
Delle  dongelle,  ove  '1  suo  dono  grato 
Esser  stato  mirando,  e  come  adorni 
Ben  r  elmo  del  suo  dolce  amor  Milono, 
Bei-ta  sola  si  trasse  ad  im  balcone. 

Lxvin 

Chiamasi  accanto  la  sua  camerera, 
La  quale  de  le  donne  contra  Fuso, 
C  hanno  la  lingua  in  dir  vie  pifi  leggiera 
Del  deto  a  Y  ago,  alla  conocchia,  al  fuso, 
De'  suo  secreti  consapevol  era, 
Tenendo  un  buco  aperto  V  altro  chiuso. 
Dimme,  Frosina  mia,  che  parti  d'  elio  ? 
Fu  mai  ne  '1  più  gagliardo,  ne  '1  più  bello  ? 

LXIX 

A  le  sue  forze,  a  la  sua  pulcritudine 
Ben  mostra  nato  sia  d'  un  Marte,  e  Venere. 
O  s'  egli  seglie  ben  1'  amaritudine 
De  r  erbe  e  fior,  e'  ha  in  capo  acerbe  e  tenere . 
Verd'  è  V  amor,  ma  se  vicissitudine 
Non  ha,  qual  è  dolor  che  più  s' ingenere 
Acerbo  e  più  mortai  in  ciascun'  anima  ? 
Qual  fier  destino  più  'n  bel  volto  exanima? 

LXX 

Così  mentr'  ella  si  rallegra  e  duole 
E  mescie  il  dolce  insieme  con  1'  amaro, 
Vien  detto  al  gran  Milone,  che  la  prole 
Spagnàrda,  e  Maganzesca  scavalcaro 
D'  accordo  e'  più  gagliardi,  perchè  vole 
Ginamo  tributando  col  denaro 
E  quest'  e  quello  capitan  spagnolo 
Restar  in  lizza  vincitore  solo. 


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Orlandino  —  Capitolo  3  57 

LXXI 

Milon  prudente  al  volgo  non  risponde, 
Ma  volto  il  freno  ad  un  vecchio  palacelo, 
Enti-avi  dentro  e  for  di  certe  fronde, 
Tras'  un  lungo  truncone  eh'  al  suo  braccio 
Grosso,  verde,  nodoso  corisponde, 
Per  mostrar  che  1  diamante  come  un  giaccio 
Potrebesi  spezzare  con  quel  stecco 
Contra  1  senso  di  Plinio  senza  '1  becco. 

Lxxn 

Gitta  la  lanza,  e  con  un  sti^an  saluto 
Voi  salutarne  mille,  non  che  un  matto. 
Quando  la  turba  lunge  ebbe  '1  veduto 
Col  codicil  senza  notar  contratto, 
Ridea,  dicendo,  quest'  è  ben  douto 
Che  'n  miglior  forma  il  scritto  sia  ritratto. 
Or  Balugante  lascia  star  Amone, 
Veduto  eh'  ebbe  in  lizza  entrar  Milone. 

Lxxm 

L'  asta  eh'  accortamente  avea  sei-vata 
In  più  oportuno  tempo  sin  allora. 
Tosto  ripiglia,  e  in  Milon  dricciata. 
Spera  il  menchion  di  sella  trarlo  fora. 
Milon  che  '1  vede,  leva  il  cigUo  e  guata 
Piima  colei,  che  tanto  l' innamora, 
Poi  contra  Y  arrogantia  che  gli  viene. 
Abbassa  il  legno  con  sue  forze  piene. 

LXXIV 

Tacque  ciascuno,  e  tien  la  bocca  aperta 
xVl  smisurato  incontro  de'  duo  tori. 
Di  Balugante  fu  la  botta  incerta, 
Perchè  la  lanza  affise  troppo  fori. 
Ma  ben  Milone,  che  si  tien  all'  erta 
Per  bel  principio  de  i  presenti  onori, 
DiedeU  un  urto  tale  col  stangone. 
Che  mezzo  il  sotterò  nel  sabione. 


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usFatf^ 


58  Orlandino  —  Capitolo  3 

LXXV 

Poi  quella  turba  de  li  congiurati 
Rompe  col  tronco  in  resta,  e  li  disj>erde. 
In  quattro  colpi  trenta  scavalcati, 
L'  on  sopra  1'  altro  andar  distesi  al  verde, 
L'  altii  confusamente  rammeschiati, 
Chi  r  elmo,  eh'  il  braccial,  chi  '1  lasta  perde, 
Come  sol  far  il  can  mastino  eh'  apre 
Un  qualche  storno  di  barbute  capre. 

LXXVI 

Gìk  più  di  cento  surgono  di  sabbia, 
E  for  di  lizza  sbalorditi  vannosi. 
Quivi  si  prova  del  baston  la  rabbia, 
E  molti  r  ossa  racconciare  fainiosi. 
Corrono  in  rota,  come  gatti  in  gabbia, 
Quelli  spagnoli,  e  al  scampare  dannosi, 
Perchè  non  hanno  tergo  molto  agevole, 
Cui  si  confaccia  unguento  sì  spiacevole. 

Lxxvn 

Bernardo  di  Maganza  e  Falsirone 
C  han  steso  Namo  con  lanzate  a  terra, 
Per  conti-aporsi  al  crudo  perticone 
Ch'  e'  congiurati  dona,  e  tutti  ateiTìi, 
Gli  vanno  adosso  insieme  per  gallone  (55), 
Mentr'  egli  incauto  alti-ove  piglia  gueri-a  ; 
Dannogli  con  due  lanze  un  colpo  duro. 
Ma  puotono  inclinar  più  tosto  un  muro. 

Lxxvm 

Non  creder  che  Milone  si  contamine 
Del  colpo  di  gran  forza  e  poca  glori n  ; 
Volgesi  a  loro,  e  quel  suo  medicamine 
Di  Falsirone  impose  alla  memoria  : 
Stendesi  al  piano  ;  ma  sotto  velamine 
Di  acquistare  contro  Amon  vittoria, 
Bernardo  torna  a  lui  con  V  asta  al  cubito, 
Ma  di  Cariddi  in  Siila  cadde  subito» 


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Orlandino. —  Capitolo  3  59 

LXXIX 

L'  astuto  Amoii  sì  seppelo  scansai-e 
Che,  mentre  il  colpo  di  Bernardo  scon*e, 
Con  tanta  furia  un  pugno  gli  ebbe  a  dare, 
Ch'  un  monte  rotto  a\TÌa,  non  eh'  una  torre, 
Ma  Satanaso  volsel  aiutare, 
Ch'  Amon  puote  del  colpo  mal  disporre  ; 
Coglie  il  cavallo,  e  sfiaccagli  la  testa. 
Ed  egli  nel  vibrar,  spallato  resta. 

LXXX 

Spiacque  tal  caso  a  Carlo,  spiacque  al  popolo, 
Ch'  Amon  si  mostra  esser  d'  un  braccio  inutile. 
Quel  pugno  avria  spezzato  un  sasso,  un  scopolo. 
Ma  verso  un  traditor  fii  vano  e  lutile. 
Or  sopra  ciò  non  pifi  rime  v'  accopolo  ; 
Amon  è  in  terra  di  giostrar  poco  utile, 
Fuwi  raccolto,  e  chiamasi  eh'  il  medica. 
Concialo  il  mastro,  ed  a  le  piume  il  dedica. 

LXXXI 

Milon  già  più  non  fa  di  1'  olmo  lanza. 
Ma  ben  da  un  capo  il  piglia  con  due  mani  : 
Or  qui  comincia  la  piti  bella  danza 
Che  mai  si  vede  ai  fen-aresi  piani, 
Quando  la  biscia  entrata  nella  stanza 
Di  mille  millia  rane  in  que'  pantani. 
Chi  sii,  chi  giù,  chi  al  lungo,  chi  al  traverso, 
Fugge  scampando  con  dirotto  verso. 

Lxxxn 

Non  fu  giammai  bastone  agevol  tanto 
In  cacciar  cani  di  cocina  fora, 
O  castigar  un'  ostinato,  quanto 
Era  quei  di  Milon,  eh'  in  men  d'  un  ora 
Sgombrò  tutto  '1  steccato  d'  ogni  canto. 
Non  vi  restando  un  sol  soletto  allora. 
Pensate,  se  Carlone  e  Bei-ta  gode, 
E  s^  Givamo  e  Falsiron  si  rode, 


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60  Orlandino  —  Capitolo  3 

Lxxxm 

Amor  e  forza  il  tenne  in  sella  fermo, 
Qua!  scoglio  in  mar  da  Y  onde  combattuto  ; 
Or  per  dar  fine  al  mio  gi-idai*  infermo, 
Allenta,  o  Musa,  il  canto  del  laguto. 
Che  da  Grisoni  non  facendo  schermo, 
Qui  sonar  d'  arpa  voglio  in  nostro  aiuto, 
E  sol  raggio  del  sol  non  m'  è  nibello. 
Spero  di  loro  fame  un  gran  macello. 


FINISCE 
IL  TERZO  CAPITOLO 


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Orlandino 


i- 


71 


COMINCIA 
IL  Ql  AUTO  CAPITOLO 


\JvEh  stridulo  cantar  eh'  una  cicada 
Muove,  quando  su  '1  palo  il  cui  dimena, 
Fa  Y  arpa  mia,  eli'  assai  poco  m'  aggrada, 
Mentre  m' aggraffio  '1  sangue  d'ogni  vena  (56), 
E  pur  con\den  tornaraii  su  la  strada, 
E  farvi  udir  un'  altra  mia  sirena  ; 
Ch'  un  carro  sona,  il  qual  mal  onto  e  tardo 
Si  duole,  che  '1  patron  gli  mangia  il  lardo. 

n 

Ma  se  talor  cantando  ella  scapuzza, 
Candido  mio  lettor,  qual  tu  ti  sei, 
Perchè  dolerti  ?  anch  a  signori  muzza 
Qualche  eoiTcggia  in  mezzo  a  quattro  o  sei. 
S' io  mangio  male,  il  fiato  poi  mi  puzza, 
Mjmgiate  qziae  apponuntur  fratres  mei^ 
Chiama  1  vangelo  ;  benché  tal  precetto 
Servato  vien  da  molti  al  suo  dispetto. 


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62 


Orlandino  —  Capitolo  4 


m 

Stette  Milone  solo  nel  stecato 
Come  tal  volta  sol  far  il  leone, 
Che  fra  lo  stolo  d'  altre  bestie  entrato, 
O  fa,  o  finge  far  del  compagnone  ; 
Ma  quelle  in  fuga  volte  gli  dan  lato, 
Di  qua  di  là  cercando  alcun  macchione  ; 
Ed  egli  solo  resta  in  un  istante, 
Quelle  mirando  a  se  scampar  davante. 

IV 

Ne  piffaro,  ne  tromba,  ne  cornetto, 
Tacquer  alla  vittoria  del  barone. 
Grida  ciascuno  e  grande  e  pargoletto 
Intorno  a  lui,  Milon^  viva  Milone. 
Ed  ecco  di  lontan  con  molto  affetto 
Contro  gli  vien  V  imperator  Carlone, 
Lo  quale  col  gran  stolo  contra  valli, 
E  l'acquistato  dono  e  premio  dalli. 


Balzato  era  di  sella  il  cavaliero 
Vista  la  nobil  schiera,  eh'  a  lui  vene, 
Sciolvesi  r  elmo,  e  gittalo  al  sentiero, 
E  prono  in  terra  V  alta  gloria  ottiene. 
Così  la  santa  umilità  di  Piero 
Merto  '1  papato  dopo  le  catene, 
E  '1  ciel  dopo  la  croce  ;  onde  mi  vanto 
Cli'  io  lo  chiamo,  in  veritade.  Padre  santo. 

VI 

Passato  avea  già  Febo  T  orizonte. 
Portandone  da  T  altra  parte  il  gionio, 
Lo  Siniscalco  enti-ato  era  nel  onte 
E  fumide  coquine,  ove  d' intorno 
Sguateri,  cuoghi,  e  fominelle  pronte 
Iranno  de  vari  cibi  il  luogo  adorno. 
Ed  ove  cani,  gatte,  crudo  e  cotto 
Sonano  un  campo  d'  arme  quand'  è  sotto. 


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i 


Orlandino  —  Capitolo  4  63  '^ 

I 


VJI 

Chi  cuoce  latesini,  e  chi  figati, 
Chi  volge  in  speto  quaghe,  oche,  fasani  ; 
Qui  son  caponi  a  hirdo  impergotati  (57), 
Qui  taglian  polpe  e  dan  V  osse  alli  cani  ; 
Qual  macina  sapori  delicati, 
Qua!  fa  pastelli  ed  altri  cibi  strani  ; 
Ch'  il  foco  iimanti,  e  chi  dietro  lo  tira  ; 
L'  odor  del  fumo  fin  al  ciel  s'  aggira. 

vni 

Fra  questo  tanto  cento  paggi  belli, 
De'  quali  è  eajìo  il  provido  Rugiero, 
Ornati  di  costumi  pronti  e  snelli, 
Scorren  di  qua  di  Ik  col  pie  leggero. 
Portando  banche,  scanni,  urne,  e  vaselli, 
Razzi,  tapeti,  e  ciò  che  fa  mistero, 
Taccio  r  argens  e  d'  oro  la  credenza, 
E  ciò  oh'  ogni  alto  Roy  (58)  non  può  star  senza. 

IX 

Berta  eh'  el  grande  onor  e  pompa  vide 
Fatta  per  Carlo  al  suo  diletto  amante, 
Piena  d'  amar  dolcezza  e  piange  e  ride. 
Or  lieta,  or  triste,  or  molle,  or  d'  adamante. 
Ragion  piCi  nulla  può,  eh'  amor  s'  asside 
Vittorioso  in  lei  saldo  e  costante. 
Però  delibra,  vuole,  e  ferma  il  chiodo 
Pai'lare  con  Milon  ad  ogni  modo. 

X 

De'  tutti  gli  animali  non  è  '1  più 
Impaziente  d'  una  amante  dorma  ; 
Ch'  ogni  rispetto  lascia  e  manda  giù 
Di  Lete  al  fiume,  ove  dentro  1'  assonna. 
Poscia  1  desìo  le  sale  tanto  in  su, 
Ch'  in  capo  non  si  vede  aver  la  gonna  ; 
E  tanto  il  folle  suo  pensier  la  punge, 
Ch'  al  fin  si  trova  da  se  stessa  lunge. 


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B4 


Orlandino  —  Capitolo  4 


XI 

Chiama  Frosina,  e  tosto  le  comanda 
Ch'  a  se  faccia  venir  il  bel  Rugiero  : 
Frosina  Y  ubedisce,  e  d'  ogni  banda 
Cerca  e  ricerca  il  nobile  scudiero  ; 
Ma  nulla  fa  che  1  Siniscalco  il  manda 
Co  li  altri  paggi,  e  ognun  ha  '1  suo  doppiero, 
Di  ciambra  in  ciambra,  e  dan  Y  acque  a  le  mani 
A  re,  duchi,  marchesi,  e  castellani. 

xn 

Berta  che  rotto  vede  '1  suo  disegno, 
La  cosa  in  altro  tempo  differisce, 
Si  crucia  fra  se  stessa  e  n  ha  gran  sdegno  ; 
Ch'  arnor  pifi  che  mai  caldo  Y  assalisce  ; 
Onde  fatta  per  lui  pronta  d' ingegno. 
Trenta  belle  dongielle  a  lei  s'  unisce, 
Ch'  entrar  delibra  in  sala  con  tal  pompa, 
Che  se  Milon  ha  cuor  di  pietra,  il  rompa. 

xin 

Gik  mille  torze  da  gli  aurati  travi 
Pendoli  accesi,  e  fan  di  notte  giorno. 
Carlo  fra  cento  capi  onesti  e  gravi 
Entra  nel  apparato  tanto  adorno. 
Quivi  usurari,  preti,  frati,  o  schiavi 
Non  ponilo  far  un  minimo  soggiorno. 
Tutti  scacciati  sono  alla  malora, 
Ch'  en  tal  luoglii  non  deniio  far  dimora. 

XIV 

Ma  Febo,  e  Cintia,  e  tutte  Y  altre  stelle 
Ecco  da  lunge,  in  Y  ampia  sala  entraro  : 
Berta  e  Beatrice  son  delle  più  belle, 
Ch'  el  fiato  a  milli  amanti  allor  cavaro. 
Carlo  venendo  incontro,  accetta  quelle. 
Al  cui  comando  tutte  s'  assentaro. 
Ed  esso  in  cima  del  convito  sede. 
Ove  li  discobendi  al  lungo  vede. 


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Orlandino  —  Capitolo  4  65 


XV 

Stanno  le  donne  a  petto  de'  baroni, 
E  sonan  gli  organetti  co'  pedali  (59). 
Cinto  s'  avea  Cupido  a  li  galoni 
Duo  gran  turcassi  colmi  di  più  strali. 
Volan  e'  paggi,  e  cento  bandigioni 
De  cervi,  lepri,  vituli,  cingiali 
Portan  di  su  di  giù  per  lunghe  scale, 
Come  convien  d'  un  rege  al  carnevale. 

XVI 

Stava  Milon  rimpetto  alla  sua  Bei-ta, 
Pensa  qual  fogo  tra  quegli  occhi  nacque 
Egli  di  lei,  ed  ella  di  lui  più  certa 
Si  fa,  quanf  in  amarsi  ad  ambi  piacque  ; 
Quivi  con  cenni  occulti  fann'  offei-ta 
De'  cuori  loro,  e  questo  a  quel  compiacque  ; 
Rampollo  se  n'  avede,  e  più  Frosina, 
Rampollo  .a  lui,  Frosina  a  lei  vicina. 

xvn 

Così  r  uno  per  Y  altro  si  distrugge 
Nei  cauti  8guai:di  e  'n  quel  sembiante  opposto. 
Spugna  di  sangue,  che  lor  vene  sugge, 
Son  gli  occhi  loro,  il  cui  lume  discosto 
Giammai  non  va  dal  suo  voler,  ne  fugge, 
Ma  più  sempre  al  desio  si  fa  disposto. 
E  tanto  lor  instiga  ed  urta  amore, 
Ch'  ivi  non  s'  ama,  anzi  pur  s'  arde  e  more. 

xvin 

0  insidioso  aspetto  muliebre, 
Quando  che  piaccia  a  gì'  occhi  di  che  '1  mira. 
Ma  quanto  più  bel  parti  in  le  tenebre, 
Ove  '1  splendor  de  li  doppier  Y  aspira 
Vedi  le  labbra,  il  collo,  le  palpebre 
D'  Elena,  di  Faustina,  o  Deianira, 
^  E  chi  contempla  quelle,  già  non  crede 
Puoter  de  tal  beltade  farsi  erede. 


»^'       iiéì -'■'TifniÉiiih^ 


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66  Orlandino  —  Capitolo  4 


XIX 

E  se  risponde  mai  cotal  bellezza 
Ch'  un  core  Y  altro  aggi*ada,  e  gli  occhi,  gli  occhi, 
O  pensier  dolce  più  della  dolcezza, 
Qual  femio  stato  eh'  ivi  non  trabocchi  ? 
Non  è  sì  grata  e  sì  soav^e  frezza, 
Che  dolcemente  in  loro  amor  non  scocchi  ; 
Ma  non  si  partan  già  questo  da  quello, 
Che  non  fu  mai  del  suo  magior  flagello. 

XX 

Era  la  fame  gik  smarita  e  persa, 
Le  mense  e  le  vivande  son  rimosse. 
Una  sonora  musica  e  diversa 

Di  tre  laugutti  (60),  e  due  viole  gi-osse  ? 

Trasse  al  concento  ogni  anima  dispersa,  j 

Ch'  ognun  si  sente  liquefarsi  V  osse.  | 

Qui  voci  umane  giunte  a  quelle  corde 
Mostrar,  che  '1  ciel  di  lor  men'  è  concorde. 

XXI 

E  pur  ti'ovo  eh'  alcuni  vecchi  padri 
Biasmar  di  concordanze  cotal  pratica; 
Non  so,  lettor  se  chiaramente  squadri, 
Esser  stata  la  mente  sua  lunatica. 
Ver'  è  eh'  e'  gargionetti  esser  legiadri 
Fur  grati  più  ne  la  scola  socratica 
Di  tante  note,  che  appellaro  buse. 
Quasi  sei  buco  a  loro  non  s' incuse. 

XXII 

Dicean,  che  molle,  vago,  effeminato, 
L'  animo  rende  questa  melodia  ; 
Come  se  '1  pescar  fezza,  in  bucco  lato  (61) 
Non  via  più  molle,  effeminato  sia. 
Vedi  tu  quel  ipocrita  velato 
Di  santimonia,  come  va  per  via? 
Non  f  accostar,  figliuolo,  perchè  porta 
Nel  corno  il  feno,  ed  ha  sotto  la  storta.  (62) 


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ORLANDINO  —  Capitolo  4  67 


xxm 

Clii  danna  il  canto,  voi  che  chiaro  il  dica, 
Qualunque  biasma  il  canto  ha  del  coione. 
Se  grata  e  gruve  ed  utile  fatica 
Fu  quella  di  Virgilio  e  Cicerone, 
Già  non  fia  manco,  mentre  s'  affatica 
Per  noi  losquin  comporre,  e  Gian  Motone  (G3)  ; 
Itene  dunque,  sporchi,  al  vostro  ufficio, 
Ch'  è  di  sterco  purgar  Y  altrui  ospicio. 

XXIV 

Poscia  eia'  ebber  sonato  la  stanghetta-. 
La  mora,  il  fons  biens  del  tempo  vecchio  (63), 
Carlo  depose  la  regal  bachetta. 
Acciò  eh'  ha  rispettosi  fusse  specchio  : 
In  bel  giuppone  cavasi  con  fretta. 
Dicendo  :  orsi\  signori,  i'  ni'  apparecchio 
Voler  danzar  ;  così  mi  segua  ognuno. 
Poi  voglio,  eh'  el  suo  ballo  aggia  ciascuno. 

XXV 

E  ciò  parlando,  viene  alla  regina, 
Che  gi-avemente  alzò  prima  le  ciglia  ; 
Poi  si  rileva,  ed  umile  s' inchina 
Al  alto  imperator,  eh'  a  man  la  piglia 
Li  altri,  che  stan'  intenti  alla  rapina. 
Seguendo  lui,  ciascuno  s'  assotiglia 
Prender  il  meglio,  ó  quel  che  meglio  pare, 
E  così  allor  cominciasi  a  danzare. 

XXVI 

Cominciaci  a  danzare  a  son  de'  piferi  . 
Con  un  cornetto  fra  lor  aggi'adevole. 
Al  cui  sono  que'  volti,  anzi  luciferi. 
Quel  cospetto  di  donne  losinghevole, 
Que'  drappi  d'  or  larghi  ed  odoriferi, 
Que'  passi,  qnell'  incesso  convenevole. 
Gli  occhi  de'  spettatori  sì  teneano 
Ch'  innanimatc  statue  vi  pareano. 


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68  Orlandino  —  Capitolo  4 


XXVII 

Quivi  ben  conveniva  quel  si  nomato 
Cornetto  padoano,  Zan  Maria  (64)  : 
Non  fu,  non  è,  non  mai  sarà  lodato 
Meglior  di  lui,  anzi  eh'  egual  gli  sia  ; 
Lo  qual,  come  si  dico,  si  ha  mangiato 
La  lingue  d'  ogni  augello,  e  1'  armonia. 
Silvestro  vagli  a^^presso  e  'n  suo  gemiano 
E  quel  Trombon  vomito  di  Bassano  (65). 

XXVIII 

Ma  per  sonar  gagliarde^  e  lodesane^ 
Piferi  mantovani  aggian  il  vanto. 
Tu  senti  quelle  lingue  ])iù  che  umane 
In  mile  millia  rimandar  un  canto  : 
Tu  vedi  poscia  for  di  quelle  tane 
Su  '1  Po  saltar  villane  d'  ogni  canto  ; 
Che  per  balzar  in  alto,  e  rotolarsi, 
Ogni  altra  stirpe  a  lor  non  può  guagliarsi. 

XXIX 

Mentre  qui  dunque  suonano  a  misura, 
Rampollo  invita  Berta,  e  dalle  mano. 
Pai*ve  a  Milone  strana  cosa  e  dura, 
E  chiamalo  fra  se  crudo  inumano  ; 
Ma  Venere  per  lui  eh'  anco  procura, 
Gli  pose  in  cuor  un  atto  assai  soprano, 
Di  Berta  prese  a  man  la  camarera. 
Dico  Frosina,  e  va  co  li  altri  in  schiera. 

XXX 

Or  nel  serrar  de  mani  si  coni ))r onde, 
Danzando,  s' in  amor  sperar  si  dove. 
Qui  de  la  donna  il  cuore  V  uomo  intende, 
La  qual  è  di  natura  dolco  e  love. 
Se  stretta  stringer  debbia,  dubbia  pende, 
Al  fin  lunga  repulsa  se  par  gravo, 
Temendo  che  Y  amante  non  si  sdegni, 
E  più  non  segua  gli  amorosi  segni. 


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Orlandino  —  Capitolo  4  69 


XXXI 

Qui  gli  occhi  ambasciatori  al  tener  cuore. 
Dichiarano  lor  grazie  e  lor  bellezze. 
Qui  cresce  piti  Y  audacia  e  più  1'  ardore, 
Quanto  più  niancan  V  ire  e  le  dui-ezze. 
Amor  insegna  qui  di  qual  valore, 
Di  qual  effetto  sono  le  sue  frezze, 
Pel  cui  vigore  ogni  Cimon  Galese  (66) 
Di  rustico  divien,  dolce  e  cortese. 

xxxn 

Speranza  è  la  nutrice  de*  pensieri, 
Tanto  eh'  i  guardi  e  deti  gara  fanno. 
Sotto  '1  fallace  lume  de'  doppieri. 
Doppie  bellezze  in  viso  le  donne  hanno. 
Però  più  tira  amor  di  cento  arcien  ; 
Qual  empie  d'  allegrezza  e  qual  d'  affanno, 
E  molte  un  cotal  foco  hann'  alla  coda. 
Che  'l  fiato  V  escie  for,  non  che  la  broda. 

xxxm 

0  misere  donzelle,  o  stolte  madri, 
Ch'  avete  sì  le  danze  a  gran  diletto, 
S'  amor  d'  onor  è  in  voi,  questi  leggiadri 
Giochi  di  cortigian  siavi  a  dispetto. 
Un  bel  rubar  ci  fa  sovente  ladri, 
Ch'  ove  è  la  causa,  seguevi  V  effetto  ; 
E  questo  in  ballo  awien,  che  rufSana 
Si  fa  la  madre,  o  la  figlia  putana, 

xxxiv 

Frosina  avea  pietà  di  sua  madonna  ; 
Or  esser  tempo  d'  aiutai'la  vede  ; 
Tira  Milone  a  dietro  una  colonna, 
Mentre  che  '1  gioco  libero  procede  : 
Venite  mecum^  disse,  e  non  v'  assonna 
Viltà  di  cuor,  che  voglio  fan^i  erede 
Del  più  ricco  tesoro  eh'  aggia  '1  mondo, 
Che  r  occhio  di  fortuna  vi  è  secondo. 


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70  Orlandino  —  Capitolo  4 


XXXV 

Egli  non  sa,  ma  ben  fa  congettura 
Sopra  r  amor  di  Berta,  onde  la  segue. 
Un  trepidante  afltetto,  una  sciagura 
Lo  batte  sì,  eh'  ei  pare  si  dilegue. 
Volgesi  dietro  spesso,  ed  ha  paura, 
Ch'  alcun  osservatore  no  '1  persegua  (67). 
Al  fin  giunti  alla  camera  di  Berta, 
Frosina  dentro  il  caccia,  pronta,  esperta. 

XXXVI 

Benché  a  Milone  un'  atto  temei'ario 
Gli  paia  star  di  Berta,  nel  cubicolo, 
Nulla  di  meno  vede  necessario 
Esser  a  chi  ama,  sponersi  a  pericolo. 
Frosina  innante  il  fa  suo  secretario, 
E  senza  troppo  lungo  diverócolo 
Gli  aperse  lai'gamente  il  grande  ardore 
Di  sua  madonna,  e  come  per  lui  more. 

XXXVII 

E  che  continuanjente  s'  auge  e  lania 
Per  lo  crudel  arciero  che  la  stimula  ; 
E  eh'  ale  volte  vienle  tal  insania, 
Che  a  gran  fatica  in  volto  la  dissimula: 
Insognasi  di  notte,  langue  e  smania, 
Chiamando  lui  signor  e  dolce  animula  ; 
Onde»  per  rimoverle  un  tanto  assedio, 
Convien  che  d'  esso  lui  venga  '1  rimedio. 

xxxvni 

Qai  ciò  eh'  ebbe  Milone  a  lei  rispondere. 
Lasciamolo  star,  eh'  ognun  il  può  comprendere, 
Non  molto  fiato  fa  mestier  effondere 
A  chi  col  solfo  1'  esca  voi  incendere. 
Torno  a  Rampallo,  che  non  punte  ascondere 
A  Bei-ta  il  tutto,  anzi  le  fece  intendere, 
Cosi  danzando  e  ragionando  insieme. 
Le  fiamme  di  Milon  per  lei  sì  estreme. 


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Orlandino  —  CAPiTOf.o  4  71 


XXXIX 

Berta  eh'  a  V  esca  prende  foco  e  vento, 
Quivi  a  Rampallo  gih  non  voi  celarlo  : 
Narragli  accoiiamente  il  suo  tonnento, 
E  che  per  prova  mai  non  può  scacciarlo. 
Ma  non  finitte  il  loro  parlamento, 
Che  la  sua  danza  tennina  re  Carlo, 
E  voi  che  la  seguente  abbia  Milone, 
E  poi  di  grado  in  grado  ogni  barone. 

XL 

Milon  ?  ov'  è  Milon  ?  ciascun  dimanda  ; 
Ma  nulla  fan,  eh'  altrove  sta  rinchiuso. 
Cli*  egli  si  trovi,  Carlo  allor  comanda, 
Al  cui  precetto  van  chi  su,  chi  giuso. 
Bampallo  astutto,  e  sospettoso  manda 
Poi  eh'  ebbe  posto  giù,  siccome  è  1'  uso. 
Berta,  Rugier  il  figlio  a  ritrovarlo, 
E  dirli,  che  con  fretta  il  chiama  Carlo. 

XLI 

Lo  accortignolo  e  pratico  dongiello 
Danzar  lo  vide  dinanzi  con  Frosina: 
Ratto  fece  un  pensier  il  giottarello. 
Che  gito  fusse  a  goder  la  rapina  ; 
Onde  correndo  va  dritto  a  penello 
Dov'  erano  alla  ciambra,  e  qui  s' inchina 
Per  ascoltar  al  uscio,  ma  non  ode 
Del  basso  lor  parlar,  se  non  le  code. 

XLH 

Urta  la  porta  ben  due  fiate  o  tré, 
Ode  Frosina,  e  pallida  si  sta: 
Torna  Rugiero,  e  scotela  col  pè  : 
Milon  temendo  sotto  il  letto  va. 
Bussa  il  fanciullo,  e  chiamavi,  chi  è  ? 
Frosina  disse  allor,  chi  batte  Ik? 
Io  son  Rugiero  ;  è  qui  signor  Milone  ? 
Ditegli  che  lo  chiama  il  re  Carlone. 


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72  Orlandiko  —  Capitolo  4 

XUII 

Di  su,  di  giù  lo  cerco  in  ogni  loco, 
Né  in  ciel,  ne  in  ten-a  possio  ritrovarlo  : 
A  la  regal  famiglia  sin  al  cuoco 
Imposto  fu,  che  debbian  dimandarlo. 
Di  che  se  indizio  n'  hai,  dimmel  un  poco, 
Ch'  instantemente  chiedelo  re  Carlo. 
Io  che  danzar  con  teco  in  sala  il  vidi, 
Mi  penso,  te  saper  ove  '1  s'  annidi. 

LXIV 

Non  men  Frosina  pronta  che  J^agac^, 
Bisponde  :  va  donzello,  e  dilli  presto. 
Come  Milone  nel  suo  letto-  giace. 
Che  per  la  giostra  d'  oggi  è  franto  e  pesto. 
Allor  Rugier  non  fé  del  contumace, 
Ritorna  in  sala  e  con  volpino  gesto 
Parla  ch*  ognun  intende,  aver  trovato 
Milon  stracco  nel  letto  suo  corcato. 

XLV 

Tal  scusa  accetta  Carlo  e  chi,  chi  sordo 
Non  è  a  saper  '1  martial  costume. 
Perchè  le  bastonate  del  bagordo 
(  accian  sovente  a  V  ozioóe  piume. 
Dunque  la  festa  seguesi  id'  accordo, 
Là  qua!  non  finirà  che  U  bianco  lume 
Del  gionio  ti-overalli  anco  a  saltare, 
Come  ben  spesso  in  corte  suolsi  fare. 

XLVI 

Frosina  timidetta,  che  non  sa  ve, 
Come  la  sorte  di  Milon  succede, 
Chiudelo  in  ciambra,  e  seco  tien  la  chiave. 
Poi  su  la  danza  occultamente  riede: 
Bei-ta  che  quinci  spera,  e  quindi  pavc, 
Quando  tornar  a  se  Frosina  vede, 
Fatta  zelosa,  disse  in  voce  piana, 
C  hai,  fatto  con  Milou  brutta  puttana  ? 


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Orlandino  —  Capitolo  4  73 

XLVn 

Risponde  a  lei  Frosina  sorridendo: 
So  ben,  che  zelosia  vi  fa  ciò  dire. 
Non,  come  imaginate,  condescendo 
Sì  largamente  al  dolce  proferire. 
Mai  non  provai,  ma  ben  provar  intendo, 
Farsi  del  nostro  medico  guarire  ; 
Però  se  star  con  lui  mi  cale  e  giova, 
A  che  portarne  invidia  di  tal  prova? 

XLVm 

Non  dubitate,  o  credula  padrona. 
Del  vostro  mal  non  è  lunge  '1  rimedio. 
Pur  tutto  questo  eh'  ora  si  ragiona, 
Potria  col  tempo  fai-vi  qualche  tedio  ; 
Che  forse  alcuna  incognita  persona 
Ci  tenderia  nel  ascoltar  assedio. 
Meglio  sarà  eh'  andiamo  a  riposare, 
Che  r  alba  già  comincia  a  roscigiare. 

XLIX 

Ove  parli  eh'  andiamo  ?  disse  Berta  : 
Quella  rispose  :  a  letto,  che  '1  n'  è  1'  ora  ; 
Mi  fa  mistier  il  vostro  ben  avverta. 
Che  '1  vegliar  troppo,  il  viso  vi  scolora  : 
Disse  la  dama  :  questa  è  cosa  certa  ; 
Vengon  le  torce,  e  quindi  senza  mora 
Facendo  al  re  Carlone,  e  agli  altri  inchino. 
Verso  la  stanza  prendon  lor  camino. 


Rampallo  già  non  potè  più  indugiare. 
Si  mise  ragionando  acompagnarla. 
Fu  sempre  in  Francia  Y  uso  di  parlare 
Ciascun  con  qualche  dames^  e  basciarla: 
Né  qui  malizia,  né  sospetto  appare. 
Pur  che  non  voglia  ad  altro  provocarla  j 
Onde  tal  atto  molto  par  distrano 
In  queste  nostre  parti  al  taliano, 


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74  ORLANDINO  —  Capitolo  4 


LI 

Lo  qual  vedendo,  in  casa  sua  volere 
Basciar  alcun  francese  la  sua  moglie, 
Che  fai,  tosto  gli  parla,  o  bel  missere? 
Perchè  farti  signor  dell'  altnii  spoglie  ? 
Così  dicendo,  col  pugnai  il  fere. 
Togliendogli  non  pur  V  accese  voglie, 
Anzi  la  vita  istessa  ;  perchè  mecco  (69) 
L'italian  voi  esser,  e  non  becco. 

LH 

Or  dunque  vedi,  se  di  Cipria  (70)  il  figlio 
Conduce  ben  la  trama  e  non  s' intoppa  : 
Quantunque  porti  un  drappo  avolto  al  ciglio, 
Pur  r  arte,  e  la  malizia  non  gli  è  stoppa, 
L' arte  eh'  in  navigar  ogni  periglio 
Sprezza  de  l'onde,  quando  amor  è  in  poppa. 
Milon,  Rampallo,  e  Berta  nulla  sanno. 
Ed  ecco  insieme  al  fin  si  troveranno. 

Lin 

Non  ^  perchè  fusse  in  lor  patto  verano, 
Cupido  sol^è  il  mastro,  sol  il  guida  (71), 
Frosina  tiensi  certa,  ch'in  ninno 
Tal  secrettezza,  for  eh'  in  lei  s'  annida. 
Credesi  anco  Rampallo  esser  quell'  uno, 
In  cui  sol  Berta,  e  sol  Milon  si  fida. 
Vorria  Frosina  che  Rampallo  andasse, 
Egli,  che  Berta  lei  licenziasse. 

LIV 

Or  giimti  a  1'  uscio  per  entrarvi  drento. 
Apre  Fròsina,.j.onde  tremò  Milone  :  . 

Berta  diede  congedo  a  più  di  cento. 
Fra  paggi,  fra  donzelle,  fra  matrone. 
Ma  per  sfogar  in  parte  il  suo  tormento, 
Guida  con  seco  in  camera  il  barone. 
Frosina  chiude  1'  uscio,  e  quivi  Berta 
Fra  r  uno  e  1'  altra  sede  a  lingua  aperta. 


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Orlandino  —  Capitolo  3  76 


I 


[ 


I 


I 


LV 

A  lingua  apei-ta  e  faccia  vereconda, 
Un  petto  di  sospiri  e  pianti  sciolse. 
Rampai  stupisce,  eh'  ella  non  s'  asconda, 
Perchè  Frosina  in  terzo  luogo  volse, 
Milon  ascolta  il  tutto  sotto  sponda, 
E  sue  dolci  parole  ben  i-accolse. 
Or  qui  Frosina,  ed  or  Rampallo  pai*la, 
Cercando  con  speranza  consolarla. 

LVI 

Milon  comprende  Y  amistà  sì  rara 
Del  suo  Rampallo,  e  V  animo  di  Berta, 
La  qual  dicea,  eh'  avrebbe  morte  amara. 
Se  non  le  fia  concesso  far  offerta. 
Dovendo  maritarsi,  di  sua  cara 
Virginitade  a  quello  che  la  mei-ta  ; 
Pv  se  colui  che  già  V  ha  tolto  il  cuore, 
Anco  non  tolga  il  resto,  il  frutto,  e  '1  fiore. 

LVII 

Ne  al  sono  di  tal  voce,  ne  a  Y  invito 
Di  tal  dolcezza  puote  star  Milone, 
Che  ratto  di  là  sotto,  bello,  ardito 
Non  apparisse  in  un  d'  oro  giuppone. 
Eccomi  disse  :  allora  scolorito 
Stette  Rampallo  in  gran  confusione. 
Berta  sol  fece  un  gi-ido,  e  poi  si  tenne. 
Compreso  in  pai-te  il  bene  che  a  lei  venne. 

Lvin 

O  sola,  Milon  disse,  o  sola  quella, 
C  hai  posto  il  freno  a  un  cuore  sì  superbo. 
Così  volse,  non  so  che  buona  stella, 
Ch'  essendo  al  sesso  vosti'o  iniquo  acerbo, 
E  d'  una  mente  a  me  stesso  rubella, 
Or  sol  per  uno  vigor  mi  disacerbo, 
E  tanto  in  me  la  tua  sembianza  valse, 
Ch'  in  ghiaccio  m'  arse  il  core,  e  in  foco  m'  alse. 


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76  Orlandino  —  Capitolo  4 


UX 

Poscia  a  Rampallo  volto  ed  a  Frosìna, 
Mille  grazie  lor  rende,  e  poi  li  abbraccia: 
Berta,  che  a  morte  quasi  s'  avvicina, 
Mira  lui  fisso,  e  par  che  si  disfaccia 
Qual  cera  al  foco,  e  qual  al  sole  brina: 
Non  puote  star,  ma  sparse  ambe  le  braccia, 
Perchè  in  amor  non  cape  alcun  rispetto, 
Cinsegli  '1  collo,  e  strinsesil  al  petto. 

LX 

Or  mai,  disse,  ben  mio  dispona  il  cielo 
Di  me,  come  gli  giova,  e  la  fortuna: 
Sue  stelle,  influssi,  punti,  caldo,  e  gelo 
Non  temo  più,  quando  questa  sol  una 
Grazia  eh'  or  tengo  in  Y  amoroso  velo. 
Non  mai  tolta  mi  sia,  perchè  ninna 
Altra  non  voglio  eccetto  che  vederti. 
Ed  a  mia  vita  e  morte  sempre  averti. 

XLI 

Perchè  già  non  potrebbe  più  addolcìrme 
La  morte  in  altro  tempo,  che  s' io  moro 
In  queste  voglie  mie  stabil  e  firme, 
Morir  per  te,  mio  spirto,  mio  tesoro. 
Qual'  esca  dolce  può  meglio  nudrirme 
Di  questo  pianto,  e  sì  grato  martoro  ? 
Io  mi  consumo,  e  ciò  mi  piace  e  giova. 
Purché  '1  mio  ben  da  me  non  si  rinnova. 

LXII 

Itene  prochi  (72)  ornai,  mi  sete  a  noia. 
Destina  il  ciel  eh'  io  sia  d'  un  tanto  eroo.    . 
Tal  nasca  d'  ambi  noi,  eh'  unqua  non  moia 
Sua  faina  da  Y  Occaso  al  sen  Eoo. 
Tal  fia  quel  figlio,  qual  mantenne  Troia 
Mentre  che  visse,  o  qual  vinse  Acheloo 
Nasca  di  noi  tal  Cesare,  tal  Marte, 
Che  de'  suoi  fatti  s'  empiano  le  carte. 


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Orlandino  —  Capitolo  4  tt 

Lxm 

Milon  ai  dolci  accenti  per  rispondere 
De  la  sua  diva  già  movea  la  bocca, 
Quando  alla  porta  venne  a  lor  confondere 
Non  so  qual  voce,  e  chi  repente  chiocca. 
Milon  temendo  tornasi  nascondere  ; 
Rampallo,  che  lo  vede  in  fida  rocca. 
Apre  la  porta,  ed  è  clii  1  chiama  presto, 
Che  a  sorte  gli  toccava  il  ballo  sesto. 

LXIV 

Partesi  dunque  tosto  il  cavaliero 
Per  non  fallir  di  Carlo  al  ordinanza. 
Frosina  vagli  dianzi,  e  col  doppiero 
La  semplicetta,  fin'  ove  si  danza, 
Accompagnollo  insieme  col  scudero. 
Eampallo  se  ne  ride,  che  'n  la  stanza 
Di  Bei-ta  era  Milon  restato  solo  ; 
Pensate  se  star  puote  il  rosignolo  ! 

LXV 

Or  ivi  dimque  amor  in  un  steccato 
Ha  ricondotto  quelli  gladiatori  ; 
Ma  innanzi  eh'  al  duello  insanguinato 
Si  vegna  da  quei  duo  feroci  tori. 
Assai  vi  fu  che  dii*e  ;  al  fin  cascato 
L'  un  sopra  V  altro,  ivi  convien  che  mori  ; 
E  quelle  botte  fur  di  tal  possanza, 
Che  Berta  ne  portò  piena  la  panza. 

LXVI 

O  ciel  benigno,  assai  qui  ti  conviene 
Esser  gagliardo  in  ifabbricar  Orlando, 
Il  qual  non  sol  si  cria  de'  lombi  e  rene, 
Ma  r  alto  genitore  voi,  che  quando 
Scorre  '1  vivace  sangue  da  le  vene, 
Forma  nel  vaso  matrical  pigliando, 
Ogni  tua  stella  di  benigna  tempre 
S' inchini  A  lui,  oh'  in  gloria  duri  «énipre, 


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78  Orlandino  —  Capitolo  4 

Lxvn 

Forza,  bontà,  prudenzìa,  e  cortesia, 
Scendano  in  lui  su  da  Y  eteme  idee. 
Che  discacciando  Y  orco,  e  arte  ria, 
De  strige  (73)  e  fate,  e  innumere  medee, 
Formino  il  corpo,  ed  aprino  la  via 
Ove  queir  alma  in  mezzo  alle  tre  dee 
Infonda,  per  ristor  di  tutto  T  mondo. 
Alto  intelletto,  e  immaginar  profondo. 

Lxvm 

Santificato  dunque,  e  non  fatato 
Fu  Orlando  ne  le  viscere  materne, 
Ch'  esser  non  puote  da  ferro  impiegato  (74), 
Come  ordinor'  in  lui  le  menti  eterne 
Quantunque  i'  poscia  dal  celeste  fato 
Fatato  nominarlo,  che  Y  inferne 
Fate  non  Y  affator,  che  d' affatare 
Forza  non  han,  ma  sol  di  affaturare. 

LXIX 

Tu  mi  dirai,  lettor,  eh'  io  son  lombarbo, 
E  piti  sboccata)  assai  d'  un  bergamasco  ; 
Grosso  nel  proferir,  nel  scriver  tardo. 
Però  dal  tosco  facilmente  i'  casco. 
Io  ti  rispondo,  che  se  Y  antiguardo, 
E  retroguardo  mio,  che  è  '1  sacco  e  fiasco, 
Non  fiisse  la  fortezza  di  Durazzo, 
Forse  sarei  Petrarca,  e  Gian  Boccazzo. 

LXX 

Io  qui  non  cerco  fama,  e  men  la  fame  ; 
Quella  mi  fugge,  e  questa  mi  vìen  dietro. 
Anzi  m'  entra  nel  ventre,  e  fa  letame 
Dm'O  così,  eh'  io  canto  un  strano  metro  ; 
E  se  mai  vien,  che  presto  alcun  mi  chiame. 
Quando  quel  sasso  for  del  buco  i'  spetro, 
Mi  levo  amaramente  con  la  coda 
Smaltita  in  quatti'o  giorni  ferma  e  soda. 


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Orlandino  —  Capitolo  4  79 

LXXI 

Non  cerco  fama  nò,  ch'io  n'ho  pur  troppo, 
E  tal  mi  crede  questo,  eh'  io  son  quello. 
Guardatevi  dal  sguerzo,  gobbo,  e  zoppo. 
Signori  miei,  che  V  è  di  Dio  rubello. 
Benché  '1  zoppo  non  corre,  va  galoppo. 
In  fin  ch'intenda  il  nome  mio  novello, 
Ben  maladico  lui,  che  se  '1  mi  scopre, 
Da  voi,  signori  mei,  non  mi  ricopre. 

Lxxn 

E  se  pur  noto  fia,  perchè  scontento 
Viver  mi  deggia,  causa  non  ritrovo  ; 
Anzi  di  superstizia  il  guarnimento 
Ho  riprovato,  e  tuttavia  riprovo. 
E  chi  mi  addimandasse,  s'io  mi  pento 
Cangiar  il  basto  vecchio  per  il  novo, 
Io  ratto  gli  rispondo,  domine  ita^ 
Mi  doglio  esser  mai  stato  a  cotal  vita. 

Lxxin 

La  causa  dir  non  voglio,  anzi  m' incresce  . 
Che  tutti  omai  slam  figli  di  putana  ; 
E  benché  mi  vien  detto,  che,  qual  pesce. 
Io  son  for  d'  acqua,  e  talpa  for  di  tana, 
Questo  parlar  non  oggidì  riesce, 
Ma  meglio  assai,  qtcod  scriptuìn  est  de  rana^ 
La  qual  viver  non  sa  for  del  pantano, 
Come  senza  robar  n'  anche  '1  villano. 


FINISCE 
IL  QUARTO  CAPITOLO 


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IOrlandino 


COMINCIA 
IL  QUINTO  CAPITOLO 


0 


DONNA  mia,  e'  hai  gli  occhi,  e'  hai  l'orecchie 
Quelli  di  pipastrel,  queste  di  bracco, 
Non  vedi  come  amor  per  te  m' invecchie. 
Tal  che  Saturno  fatto  «on  di  Bacco  ? 
Non  mi  guardar  e'  aggia  le  scarpe  vecchie, 
No  '1  boccalone,  la  schiavina,  il  sacco  ; 
Ch'  io  son  tale  però  qual  non  fu  mai, 
E  se  tu  '1  provi,  forse  piangerai. 

n 

Che  s'  una  fiata  mi  concedi  un  baso 
In  quella  guancia,  qual  persutto,  rossa, 
Ed  anco,  eh'  un  sol  tratto  i'  ficca  '1  naso. 
In  cui  non  dico  gik,  ma  in  quella  fossa 
Di  tue  mammelle  sin  al  bosco  raso, 
Uhi  Platonis  requiescunt  ossa^ 
Forse  più  con  le  schiene,  che  col  fiato. 
Il  mio  sonar  di  piva  ti  fia  grato. 


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Orlandino  —  Capitolo  5  81 

m 

Tornata  era  alla  stanza  già  Frosina, 
Ove  Milon  avea  rotta  la  porta 
Di  sua  madonna,  e  fatta  tal  mina, 
Che  di  mai  racconciarla  si  conforta. 
Sopra  un  forciero  il  letto  suo  destina, 
E  tutta  notte  di  vegghiar  sopporta, 
Menti'e  gli  amanti  giocan  alle  braccia, 
Dicendo  col  suo  cuor  :  btion  prò  gli  farcia. 

IV 

Fugge  la  breve  notte  col  solacelo, 
E  dicono  gli  augelli,  che  '1  vien  giorno. 
La  pro^dda  Frosina  e'  ha  V  impaccio 
Veder  eh'  i  duo  non  abbian  qualche  scorno, 
Vassine  al  letto,  e  trovali  eh'  in  braccio 
DoiTiendo  1'  un  di  1'  altro  fan  soggiorno  ; 
Destali  pianamente,  e  dalli  avviso 
Che  '1  sole  troveralli  all'  improvviso. 


Con  r  empito  e  prestezza,  con  cui  sole 
Milon  saltar  a  T  arme  for  di  letto, 
Quand'  ha  sopra  di  se  la  grave  mole 
Di  copie  armate,  e  stanne  con  sospetto, 
SfeiTasi  amaramente  dal  bel  sole 
De'  soi  pensieri,  e  lascia  ogni  diletto. 
Prende  la  spada,  ed  anche  un  bascio  tale, 
Che  fu  principio  poi  d' un  lungo  vale. 

VI 

Sol  soletto  mille  stanze  passa 
Finché  pervenne  a  1'  uscio  del  suo  loco  ; 
Spingelo  presto,  1'  urta,  batte,  e  quassa  ; 
Non  è  che  1'  apra  ;  onde  tutt'  arse  in  foco  : 
Corre  col  piede,  e  '1  cardine  fracassa, 
Che  risona  d'  un  strepito  non  poco  : 
H  camerier  non  trova,  ed  ei  corcato. 
Subitamente  si  fu  addormentato. 


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82  Oblamdino  —  Capitolo  5 


vn 

Turpin  quindi  si  parte  ad  Agolante, 
Che  passar  in  Europa  si  destina  ; 
Chiede  Mambrino  seco,  ed  arma  tante 
Copie  di  bella  gente  saracina, 
Che  spera  in  tempo  breve  por  le  piante 
Su  '1  collo  a  Carlo,  con  sua  gran  mina. 
Dopo  scrive  d'  un  dio  Demogorgone, 
Ch'  era  sopra  alle  fate  e  fatasone. 

vm 

Dipinge  il  suo  giardino  su  nei  monti 
Rifei,  d'  oro  e  d'  argento  fabbricato  : 
Narra  le  ripe,  i  fiumi,  T  ombre,  i  fonti, 
Ed  un  palazzo  d'  ambra  edificato  : 
Narra  di  molte  capillate  fronti, 
Figliuole  di  fortuna,  e  del  gran  fato, 
Fra  le  qual  ninfe,  o  fate  altri  T  appella, 
Era  Morgante,  e  Alcina  sua  sorella. 

IX 

Narra,  Demogorgon  aver  per  moglie 
Pandora,  de  le  fate  la  più  bella, 
Donde  nascon  le  pene,  afianni  e  doglie, 
E  di  lor  empion  questa  pai-te  e  quella 
Di  tutto  1  mondo,  ed  egli  par  eh'  invoglie 
Far  al  suo  modo  il  tempo  ed  ogni  stella. 
Volge  Turpino  lo  stile  poi,  narrando 
Un  caso  di  Milone,  atro  e  nefando. 


Or  che  far  deve  Berta  essendo  gravida, 
E  1  ventre  di  dì  in  dì  le  vien  più  tumido  V 
Si  pente  mille  volte,  che  tropp'  avida 
Fu  di  mischiar  col  dolce  caldo  T  umido  : 
Teme  '1  fratello,  e  sempre  più  vien  pavida. 
Col  volto  scolorito  e  Y  occhio  tumido. 
Solo  Frosina  è  sola  fida  ancilla. 
Che  con  a\asi  rendela  tranquilla. 


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Orlandino  —  Capitolo  5  €3 

XI 

Fidel  anelila  non  fa  già  Dìambra, 
Ch'  empir  la  sua  lassivia  non  potendo, 
Entrò  di  sua  madonna  nella  ciambra 
Di  notte,  ove  Y  ancise,  lei  stringendo 
Nel  collo  co  le  man.  S'  una  sicambra, 
O  mora  (75)  fosse  stata,  eh'  io  m"*  incendo 
D' ii-a,  di  rabbia,  quando  mi  rammento, 
Una  Tais  aver  Lucrezia  spento. 

xn 

Rampallo  da  Milone  seppe  il  tutto  ; 
Teme  al  amico  più  eh'  a  se  medemo, 
Vedel  esser  in  faccia  smorto  e  brutto, 
Come  in  un  eolmo  di  dolor  vedemo  ; 
Nulla  dimanco  acciò  eh'  egli  distrutto 
Non  resti,  o  morto  per  affanno  estremo, 
Levai  sovente  con  pai-lar  salubre. 
Rendendolo  men  tristo  e  men  lugubre. 

xm 

ly  udirsi  più  la  facultk  vien  tolta. 
Proverbio,  eh'  ogni  gioimo  non  è  festa  : 
Torno  al  palazzo  va  Milon  tal  volta. 
Che  '1  desio  di  vederla,  lo  molesta  ; 
Ma  nulla  fa,  eh'  ella  sen  sta  sepolta. 
Si  come  donna  vergine  ed  onesta  ; 
Ond'  egli  più  che  mai  sospira  e  langue, 
E  più  non  ha  color,  vita  ne  sangue 

XIV 

Ecco  '1  dolce  piacer  sì  tosto  e  breve, 
(J  hanno  sovente  insieme  i  ciechi  amanti. 
Se  giustamente  equiparar  si  deve 
A'  succedenti  affanni  e  lunghi  pianti. 
Eccoti  amante,  s'  esto  amor  è  leve, 
Che  cangian  in  un  momento  in  lutto  i  canti  ; 
E  poi  che  t' ha  condutto  al  teso  laccio. 
Fugge  1  protervo,  e  lasciati  'n  impaccio. 


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84  Oblakdino  —  Capitolo  5 


XV 

Mentre  cektauiente  passa  il  fatto, 
E  1  grosso  ventre  ancor  non  dk  sospetto,  ì 

Giunse  a  Parigi  un  cardinal  diffatto. 

Che  a  grande  onore  fu  da  Carlo  accetto.  ■ 

Papa  Adrian  il  manda  molto  ratto,  ! 

Per  tosto  opporse  al  stol  di  Macometto, 
Lo  qual  possedè  gik  Cicilia  tutta  ; 
Mezza  Calabria  in  foco  è  gik  distrutta. 

XVI 

H  capitan  di  questi  turchi  e  mori 
È  re  Guaniero,  frate  di  Agolante,  i 

Quel  Agolante  che  d' imperatori 
Del  mondo  è  il  più  superbo  ed  arrogante. 
Costui  li  cristiani  d' Italia  fori 
Scacciar  voma  per  vendicar  Barbante 
Suo  padre,  il  qual  ancise  Carlo  Mano 
Per  Grallerana  nel  (*.ontado  ispano. 

xvn 

Or  al  consiglio  Carlo  si  ricorre 
Per  contrapporsi  al  foco  gik  ideino: 
Qui  lo  senato  in  un  pensier  concorre, 
Che  '1  gran  Milone,  sommo  paladino, 

Com'  è  sua  cm-a,  vogliasi  disporre  * 

Fornir  la  impresa  contra  il  Saracino. 
Pensate,  in  qual  tiavaglio  allor  trovossi  ! 
Non  ha  pensier,  che  tutto  no  1  disossi. 

xvni 

Fra  questo  tanto,  mentre  il  duca  Amone 
Sentesi  di  la  spalla  molto  male,  j 

Ginamo  di  Maganza  si  dispone  ^ 

Voler  per  mezzo  di  quel  cardinale 
Impetrar  Beatrice  da  Carlone 
Per  mogUe  sua,  né  voi  premio  dotale  ; 
Anzi  per  contradote  a  carte  schiette, 
Maria  et  mordes  dar  a  lei  promette. 


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Orlandino  — ,  Capitolo  5  86 

XIX 

n  saggio  Namo,  eh'  è  padre  di  quella, 
Temendo  fra  Maganza  e  Chiaromonte 
Non  pululasse  costion  (76)  novella, 
Al  duca  non  pendendo  più  eh'  al  conte, 
Condusse  al  re  Carlone  la  dongella, 
Dicendo  che  cagion  di  eotant'  onte 
Esser  già,  non  volea,  ma  eh'  egli  stesso 
Dia  lei  marito  come  par  ad  esso. 

XX 

Milon  odendo  ciò,  guarda  in  traverso 
Ginamo  se  talor  lo  'ncontra  in  via. 
Egli  che  di  quei  traiti  (77)  è  '1  più  perverso. 
Guardasi  ben  la  pelle,  e  tuttavia 
Va  praticando,  e  con  modo  diverso 
Drieto  a  Milone  tien  sempre  la  spia, 
Sì  per  intender  cliiaro  il  suo  consiglio. 
Sì  per  saper  cavarsi  di  perigUo. 

XXI 

Ecco  la  gara  in  piede,  ecco  1  travaglio 
Levato  già  per  colpa  di  libidine  ; 
Ma  Carlo  voi  frenar  de'  brandi  il  taglio. 
Che  sempre  alloggia  Marte  con  Cupidine  : 
Tacco  alla  coda  subito  un  sonaglio 
Di  maganzesi  a  molta  sua  formidine. 
Perchè  destina,  eh'  ambi  duo  giostrando, 
Chi  vince  abbia  la  donna  al  suo  comando. 

xxn 

Or  qui  Ginamo  perde  ogni  speranza. 
Sapendo  ben,  che  '1  pregio  fia  d'  Amone  : 
Va  innanzi  Carlo,  e  seco  Maganza, 
Pontieri,  e  tutta  Y  altra  nazione  : 
Pensa  smarrir  bravando  il  re  di  Franza, 
E  dicegU  su  '1  volto,  che  cagione 
Non  ha  di  far  a  lui  cotanto  torto. 
Per  un  Amon  stroppiato  e  mezzo  morto. 


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86  Orlandino  —  Capitolo  5 


xxm 


Milon  eh'  ode  il  rumore  stando  in  piazza, 
Ratto  su  per  le  scale  vien  sbalzando, 
P]  fra  la  folta  turba  anti  si  cazza 
Con  tre  famigli,  e  cinto  ha  sotto  il  brando  ; 
Sente  che  1  traditor  forte  minazza, 
Sen  non  avrk  Beatrice  al  suo  comando. 
Non  r  avrai  tu  già,  se  pria  non  giostri. 
Disse  Milon,  e,  quel  che  sei,  non  mostii. 

XXIV 

Ginamo  a  quel  parlai*  si  volse  indrieto, 
Vede  Milon,  e  ratto  si  scolora. 
Come  Macario,  più  de  li  altri  inqueto, 
Risponde  alteramente  :  alla  bon  ora  ; 
Non  siamo  morti  nò  ;  ma  starti  queto 
Farestu  meglio,  e  non  destar  chi  dorme. 
Anzi  pur^vegghi  (78)  troppo,  disse  il  conte. 
In  far  a  Chiaromcmte  oltraggi  ed  onte. 

XXV 

Macario  e'  ha  la  lingua  for  di  denti, 
Tenendo  su  la  spalla  la  man  destra. 
Rispose  :  per  la  gola  tu  ne  menti, 
E  per  ferirlo  subito  s'  addestra. 
Milon  non  stette  a  dir,  tu  ne  stramenti  (79), 
Anzi  un  roverso  con  la  man  sinestra 
Menò  sì  ratto,  eh'  un  polti'one  zaffo 
Non  ebbe  mai  da  un  bravo  il  più  bel  schiaffo. 

XXVI 

Levasi  Carlo  tostamente  in  piede. 
Che  già  duo  millia  spade  esser  cavate, 
E  contra  quattro  sol  vibrar  le  vede. 
Milon,  che  'n  mezzo  tanti  brandi  e  spate 
Era  con  tre  famigli,  vi  provvede 
Ben  tosto  in  quelle  genti  al  mondo  nate 
Per  tradir  sempre  ed  ingi'assar  la  terra 
Di  sangue,  ed  ov'  è  pace^  porvi  guerra. 


L- 


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Orlandino  —  Capitolo  5  87 

xxvn 

Con  quella  rabbia  eh'  un  leon  tra  cani 
Vidi  cacciarsi  sotto  Giulio  a  Roma, 
Smembrandovi  mastini,  bracchi,  alani 
Con  la  virtù  sì  altera,  e  mai  non  doma  ; 
Così  Milon  fra  quei  lupi  inumani 
Convien,  che  '1  brando  in  lor  mal  giorno  proma. 
Troncando  spalle,  busti,  gambe,  e  braccia 
Ed  ov'  è  '1  stolo  denso,  ivi  si  caccia. 

xxvm 

Ma  duo  de'  soi  scudieri  crudelmente 
Già  son  in  mille  pezzi  andati  a  terra  ; 
Lo  terzo  si  ritu-a  virilmente 
Appresso  il  suo  patrone,  il  qual  non  erra 
Over  spai-tir  la  testa  in  fin  al  dente, 
O  fin  al  petto,  e  tanti  giìi  n'  atterra, 
Ch'  un  monte  n'  ha  d' intorno  in  sangue  merso 
Chi  tronco  de  la  testa,  e  chi  a  traverso. 

XXIX- 

Re  Carlo,  di  gridar  già  fatto  roco 
Bandendo  e  minacciando  or  questo,  or  quello, 
Addirasi  talmente,  che  di  foco 
Parca  nel  volto  aver  un  Mongibello  : 
Onde  ricorse  del  bastone  al  gioco. 
Rompendo  qua  e  là  più  d'  un  cervello  ; 
Ma  nulla,  o  poco  fa  la  sua  presenza, 
Ove  non  è  rispetto,  e  men  clemenza. 

XXX 

jy  ogni  altro  più  Macario  di  Susanna 
Ferir  le  schiene  di  Milon  s'  affretta, 
Il  qual,  secondo  il  merto,  lo  condanna, 
E  fa  del  suo  mentir  aspra  vendetta  ; 
Perchè  la  lingua  e  i  denti  nella  canna 
GU  caccia  d'  una  punta  benedetta. 
Onde  '1  meschin  ne  cade,  ed  una  palma 
Di  Ungua  sbocca  fora,  e  'n  sieme  1'  alma. 


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88  Orlandino  —  Capitolo  5 


XXXI 

Poscia  ferir  Bernardo  non  s'  arresta, 
Fendendolo  dal  capo  fin  al  petto, 
E  vibra  una  stoccata  così  presta, 
Cli'  a  Dudo  passa  il  ventre,  e  ad  Ugoletto. 
A  un  altro  fa  due  parti  della  testa, 
A  un  altro  un  braccio,  a  un  altro  taglia  netto 
Dal  busto  il  capo,  e  molti  alla  cintura 
Tronca,  se  pasta  fosse  V  armatura. 

xxxn 

Più  di  mille  n'  ha  morto,  e  gli  altri  caccia 
E  taglia,  e  tronca,  e  crudelmente  svena  ; 
Volano  gli  elmi  con  le  teste  e  braccia 
Mentre  punte,  fendenti,  e  scarsi  mena. 
L' imperatore  tuttavia  minaccia, 
E  batte  col  troncon  ;  ma  non  raffrena 
L'ira  però,  ne  raì)bia  di  Milone, 
Che  'n  tal  eiTor  si  manca  di  ragione. 

Kxxni 

Cessa  Milon,  dicea,  non  far  ti  dico. 
Io  tei  commando,  lascia  di  ferh-e, 
Se  non,  spera  d'  avermi  tal  nemico, 
Qual  studia  giorno  e  notte  altrui  punire. 
Milon  cotal  parole  men  d'  un  fico 
Allor  potea  stimar  in  quel  schei-mire  ; 
Onde  non  1'  ascoltando  caccia  quelli 
Giù  per  le  scale  in  guisa  de  stornelli. 

xxxiv 

Un  sopra  Y  altro  al  fondo  de  le  scale, 
A  venti,  a  trenta  vanno  rotolando  : 
Milon  sgombra  di  lor  tutte  le  sale, 
Fin  su  la  piazza  i  traditor  cacciando  ; 
Dil  che  re  Carlo  in  tanta  furia  sale, 
Perch'  ei  non  ubbidisce  al  suo  comando, 
Ch'  allor  allor  gli  fa  bandir  la  testa, 
S'  andar  giù  del  paese  non  s' appresta. 


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Orlandino  —  Capitolo  5  89 


I 


l 


XXXV 

Un  termine  gli  dk  sol  d'  una  notte, 
Perchè  gik  Febo  scampa  con  la  luce  : 
Or  que'  tapini  i)er  caverne  e  grotte 
Ove  ne  sol  ne  luna  mai  traluce, 
Sonsi  appiatati,  e  temon  altre  botte, 
Che  Chiaramente  e  quel  sì  fiero  duce, 
Che  li  ha  scemati  più  di  mezza  parte. 
Ivi  non  li  arda  in  tutto,  e  li  disquarte. 

XXXVI 

In  quella  istessa  notte,  o  crudel  rabbia! 
Cadde  Milone  in  tanta  bizzaria. 
Che  cento  maganzesi,  come  in  gabbia. 
Venne  assaltare  dentr'  un  osteria  : 
Non  vi  si  parte  mai  fin  che  non  li  abbia 
Mandati  tutti  a  pezzi  in  beccaria  ; 
Eravi  Manfredon,  padi'e  di  Gano, 
Cui  trasse  il  core  di  sua  propria  mano. 

xxxvn 

E  'n  la  medesma  notte  si  lo  affise 
Nel  mezzo  de  la  piazza  con  la  testa, 
E  un  breve  scritto  sopra  quelli  mise, 
Che  dice  :  ancor  il  tuo  Carlo  mi  resta. 
Oltre  di  questo  in  cotal  notte  uccise 
Un  capitan,  chiamato  il  gran  Tempesta, 
Lo  qual  con  la  sbii-aglia  in  men  d'  un'  ora 
Cacciò  Milon  di  questo  mondo  fora. 

xxxvm 

Ornai  di  sangue  sazio  in  queir  instante 
A  venti  suoi  compagni  dà  combiato  (80). 
Fra  quali  v'  è  Terigi,  quel  bon  fante. 
Che  '1  giorno  in  sala  sempre  al  fido  lato 
Stette  del  suo  padron  a  Carlo  avante  ; 
Ed  or  per  ubedirlo,  s'  è  spiccato. 
Costui  fu  dopo  a  Orlando  sempre  caro, 
E  di  sue  cose  fido  secretaro. 


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90  Orlandino  —  Capitolo  5 


XXXTX 

Milon  si  parte  solo,  e  gli  altri  lassa, 
Né  mai  per  lor  preghiere  seco  i  volse  ;  .     J 

Sotto  1  regal  palazzo  intorno  passa,  j 

E  dietro  a  quel  per  un  sentier  si  volse, 
Fin  che  di  pietre  e  sassi  ad  una  massa 
Venuto,  di  salirvi  cura  tolse  \ 
Montavi  arditamente  a  1'  alta  cima, 
E  come  entri  'n  palazzo,  seco  stima. 

XL 

Vede  spuntar  di  fora  un  certo  trave,  • 

Levasi  in  alto,  e  quel  saltando  giunge,  j 

E  benché  d'  arme  si«.  carcato  e  grave, 
Pur  forza  con  amor  là  suso  il  pugne. 
Salito  è  molto  spazio,  e  gik  non  pavé 
Ficcar  gli  piedi,  e  de  le  mani  Y  ugne 
Per  buchi  e  per  fissure  di  quel  mm'o. 
Tanto  che  giunse  ad  un  balcon  sicuro. 

XLI 

Trova  qui  dentro  un  logo  bisognoso  i 

A  r  uomo,  quando  '1  ventre  scarca  e  leva  ; 
Quindi  partito  da  la  notte  ascoso 
Va  queto,  queto,  e  mentre  un  pie  solleva, 
U  altro  tien  sì,  che  men  sia  strepitoso, 
In  fin  che  giunse  ove  Berta  piangeva, 
La  qual  in  ciambra  già  non  può  doi-niire. 
Ma,  sei  piacesse  a  Dio,  voma  morire. 

XLH 

Milon  accenna  a  V  uscio  leggiermente. 
Berta  sentendo  trema  di  sospetto. 
Cliiama  Frosina,  ma  colei  non  sente, 
Onde  Milon  per  esser  dentro  accetto. 
Disse  qual'  era,  e  Berta  immantenente, 
Sènza  pensarvi,  salta  for  di  letto, 
Corre  alla  porta,  aprendola  di  botto, 
É  (Jui  comincia  un  lagrìmar  dirotto. 


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Orlandino  —  Capitolo  5  91 

XLin 

Ma  poscia  che  Milon  ad  invitarla 
Si  mise,  per  condurla  seco  in  bando, 
Ella  cadendo  in  terra,  più  non  parla, 
Che  perse  ogni  vigor  a  tal  dimando. 
Voi  pur  il  cavaliero  confortai-la. 
Che  fai'  non  voglia  contra  '1  suo  comando  ; 
Ma  nulla  fa,  che  'n  viso  impallidita 
Lei  vede,  for  di  mente  esser  uscita. 

XLIV 

Frosina  dorme,  ne  '1  rumor  ascolta. 
Che  1  pianto  dianzi  fatto  con  madonna 
In  un  profondo  sonno  Y  ha  sepolta. 
Milone  d'  un  lenzolo,  e  d'  una  gonna 
In  un  fardello  tosto  fa  ricolta. 
Poscia  gagliardo  toltasi  la  donna 
Sul  collo,  via  la  porta  con  gran  fretta, 
Già  sazio  contra  Carlo  di  vendetta. 

XLV 

Grià  sazio  di  vendetta  contra  Cai-lo, 
Che  fé  dopo  '1  macello  tal  rapina  ; 
Ma  sol  amore  non  può  saziarlo, 
C  ha  posto  a  quella  ninfa  pellegrina. 
Politasi  1  dolce  peso,  ne  lasciai-lo 
Mai  volse  infin  eh'  al  logo  s'  a^'vicina, 
Dond'  or  ne  venne  per  la  finestrella, 
E  quivi  giunto,  in  ten-a  pose  quella. 

XLVI 

Ma  non  sì  tosto  giù  posata  Y  ebbe, 
(he  riede  al  saggio  lor  il  spirito,  e  '1  sangue. 
Aperse  gli  occhi,  e  Y  animo  le  crebbe  ; 
Dove  sei,  vita  mia,  dicendo,  langue. 
Milon  risponde  :  donna,  omai  ti  debbe 
Tornar  il  bel  color  al  volto  esangue  ; 
Tessi  pur  tele  Carlo,  s'  ei  sa  tessere  ; 
S'  è  amor  per  noi,  chi  contra  voi  essere. 


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92  Orlandino  —  Capitolo  5 


XLVn 

Gruidarti  meco  voglio,  se  '1  ti  piace, 
E  trarti,  eh'  oggi  è  tempo,  di  periglio. 
Sol  Dio  m'  è  testimon,  quanto  mi  spiace 
Doverti  condur  meco  in  tal  esiglio. 
Ma  per  locarti  alfin  ove  aia  pace, 
Far  voglio  da  leon,  non  da  coniglio, 
E  dei  saper  ch'assai  minor  è  '1  danno 
Di  pover  libertà,  che  un  fier  tiranno. 

XLvm 

.  Così  parlando,  tuttavia  le  cinge 
La  gonna  intomo,  seco  anti  recata. 
Gonna  non  già  di  quelle  eh'  oro  pinge. 
Ma  da  portar  sotto  bei  manti  usata. 
Poscia  le  copre  il  capo,  e  sì  la  finge, 
Che  'n  altra  donna  par  esser  mutata; 
Ne  Bei'ta  in  guisa  alcima  più  parca. 
Ma  Fillide,  Neera,  o  Gralatea. 

XLTX 

Qui  poi  di  terra  il  gran  lenzolo  piglia, 
E  quel  divide  in  fascie  lunghe  e  strette. 
Annoda  i  capi  lor,  e  qui  s'  appiglia 
Con  le  man  Berta,  da  Milon  ben  rette  : 
Cala  per  quella  corda,  e  s'  assottiglia 
Ferma  tenersi  fin  che  in  terra  stette  ; 
Milon  drieto  le  manda  il  drappo  d'  alto, 
Ed  animoso  venne  giù  d'  un  salto. 


Qual  timidetta  agnella  che  '1  pastore 
Del  lupo  da  le  zanne  abbia  redenta, 
Non  anco  cessa  palpitarle  il  core, 
Ne  mai  Y  orribil  tema  si  rallenta  ; 
Così  Berta  seguendo  il  suo  rettore, 
Par  sempre  eh'  alle  spalle  Carlo  senta, 
Chi  la  persegua,  e  sposso  a  drieto  guarda, 
Onde  di  correr  forte,  mai  non  tarda. 


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Uu 


Orlandino  —  CAPrroLO  5  99 

LI 

Girato  avea  gik  mezza  notte  il  cielo, 
Che  passo  passo  vannosi  le  stelle  : 
Anco  non  era  caldo,  ne  anco  gelo, 
Ma  la  stagion  quando  le  viti  belle 
Son  carche  d'  uve,  ed  ogni  ramo  e  stelo 
Di  rosso  e  giallo  par  che  '1  mondo  abbelle  ; 
Milone  finalmente  giunge  al  mm'o 
De  la  cittade,  molto  grosso  e  duro- 

UI 

Montavi  sopra,  ed  ha  pur  seco  il  panno, 
Del  quale  un  capo  tiene,  Y  altro  giuso 
A  Berta  manda,  cui  pareva  un  anno 
Ogni  momento  uscir  di  loco  chiuso  ; 
Ma  svelsela  Milon  di  quel  affanno, 
Che  su  la  trasse,  e  poi  con  essa  giuso 
Calò  del  muro  fora  in  su  la  sabbia  ; 
Di  bosco  uccelli  già,  non  più  di  gabbia. 

Lin 

Tutta  la  notte  vanno  senza  posa. 
Dal  timor  spinti,  e  da  speranza  tratti  ; 
Pur  dove  qualche  poggio,  o  via  petrosa, 
Per  cui  Berta  convien  che  giù  s*  appiatti, 
Milon  incontra,  già  non  si  riposa. 
Ma  in  collo  se  la  reca,  e  su  per  ratti 
Monti  lei  porta  come  fido  amante, 
Se  azzaio  (81)  fusse  dal  capo  alle  piante. 


LIV 


Scoprendosi  poi  Y  alba  for  d' un  monte  ; 
rova  un  bollano  adosso  una  cavalla. 
Lo  qua!  s'  aflretta  d'  arrivar  a  'n  ponte, 

d'  un  senato  tratto  al  fiume  calla, 
lilon  chiamagli  drieto,  e  eh'  éi  dismonte, 
>ega  e  riprega,  ma  1  villan  non  falla 
Dal  suo  costume  rozzo  e  discortese. 
Niente  Y  ascolta,  e  la  via  corta  prese. 


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94  Orlandino  —  Capitolo  5 

LV 

Prese  la  via  più  corta  vemo  il  fiume, 
Che  a  guazzo  quello  trapassar  vorebbe  : 
Allor  Milon,  s'  avesse  a  piedi  piume, 
Awentasigli  drieto  e  giunto  V  ebbe, 
Ove  cosi  correndo  anco  ressume 
La  cura  d' insegnarli,  come  debbe 
Caritativamente,  e  con  ragione. 
Di  quella  donna  aver  compassione. 

LVI 

Mi  maraviglio  ben  del  cavaliero 
Che  usar  volesse  tanta  pazienzia  ; 
Perch'  esser  al  villan  crudo  e  severo. 
Altro  non  è,  se  non  bontà  e  clemenzia  : 
Anzi  dirò,  eh' un  fusto  grosso  intiero 
E  quello  che  gli  spira  gran  prudenzia  ; 
Dalli  pur  bastonate  sode  e  sti-ette. 
Che  non  si  ha  di  guarirlo  altre  ricette. 

Lvn 

Passava  Giove  per  un  gi-an  villaggio 
Con  Panno  (82),  con  Priapo,  e  Imeneo  (83)  ; 
Trovan  eh'  un  asinelio  in  sul  rivaggio 
Molte  pallotte  del  suo  sterco  feo. 
Disse  Priapo  questo  è  gran  danneggio  : 
En,  domine  fac  homines  ex  eo. 
Surge  villane^  disse  Giove  allora: 
E  '1  Aallan  di  que'  stronzi  saltò  lora. 


F^.  LVIIl 


Ed  in  quel  punto  istesso,  quanti  pani 
Fu  di  letame  o  d'  asin,  o  di  bove, 
Inmrrexerunt  totidem  villani 
Per  tutto  '1  mondo  a  far  delle  sue  prove, 
Cioè  pronte  in  rubai-  aver  le  mani, 
E  maledire  il  ciel,  quando  non  piove, 
Esser  fallaci,  traditor,  maligni. 
Di  foco  e  forca  per  soi  merti  digni. 


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Orlandino  —  Capitolo  5  95 

LIX 

Aspettami,  ti  prego,  caro  amico, 
Dicea  Milon,  e  non  aver  spavento  ; 
Ma  quel  poltrone,  d'  ogni  ben  nemico, 
Vedendo  eh'  egli  '1  tien  nel  vestimento, 
Lasciami,  disse  allor,  lascia  ti  dico  : 
Non  so  chi  sei  ;  tu  n'  hai  spogliato  cento. 
Io  ti  comprendo  ben,  che  ladro  sei. 
Rubasti  l'arma,  il  brando,  ancor  colei. 

LX 

Non  men  di  me  comprendesi  villani, 
Esser  di  voi  soldati  la  più  parte. 
Se  vi  lasciate  calcular  le  mani 
Dai  chiromanti  nostri,  che  san  1'  arte 
Di  zappe  ed  altri  libri  rusticani 
Meglio,  che  portar  picca  sotto  Marte  ; 
Eppur,  quantunque  bravi  insuperbiti. 
Tutti  sete  villani  stravestiti. 

LXI 

E  ciò  parlando,  trasse  una  sua  daga 
Lucida  quanto  avea  sotto  '1  calcagno  ; 
Milon  eh'  è  di  natura  sempre  vaga 
Più  presto  dar  che  tor  Y  aitimi  guadagno  ; 
Or  dignamente  ad  un  furfante  impaga. 
Volendolo  purgar  d'  acque  di  bagno. 
Afferra  ne  la  coda  la  cavalla. 
Ed  ambi  drente  un  fosso  d'  acqua  avvalla. 

Lxn 

Quel  sciagurato  in  guisa  di  ranocchio 
Resta  nel  fango,  e  la  giumenta  uscisce. 
Ecco,  disse  Milon,  sazia  pidocchio, 
Ch'  awien  ad  un  villan  eh'  insuperbisce  : 
Rubaldo  che  tu  sei  :  perder  un  occhio 
Dovria  chi  del  tuo  mal  non  ti  punisce  : 
Or  pesca  ben  e' hai  modo  di  pescare, 
Ed  io  frattanto  voglio  cavalcare. 


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96  Orlandino  —  Capinolo  5 

Lxm 

E  detto  ciò,  riprese  la  giumenta, 
Non  per  la  coda  più,  ma  nel  capestro  : 
Berta,  clie  n'  ha  fastidio  e  si  toi*menta 
Per  lo  premier  incontro  assai  sinestro,  ■ 

Salir  su  la  cavalla  non  fu  lenta, 
Maledicendo  quel  villan  alpestro  : 
Milon  va  innanzi,  e  fa  dello  stafferò, 
Tirandosila  drieto  pel  sentiero. 

LXIV  ^• 

Tutto  quel  giorno  e  la  notte  seguente  ; 

Non  mai  di  caminar  elli  cessaro.  | 

Berta  sempre  alle  spalle  Carlo  sente,  | 

Ne  crede  di  scansarlo  aver  riparo  ;  \ 

Però  vanno  di  trotto  con  la  mente 
Chimerizzando,  infin  eh'  essi  arrivaro 
D'una  grossa  fiumara  in  capo,  dove 
Scoprono  Y  alto  mar  eh'  ivi  si  move. 

LXV 

Lungo  alla  «piaggia  volgon  il  sentiero,  j 

Lasciando  in  sabbia  lor  vestigi  sculti  : 

Ne  molto  vanno  eh'  un  simile  a  Piero,  ■ 

Vecchietto  pescator  allì  ami  occulti  J 

Vedono  trar  nel  legno  suo  leggiero  j 

Appesi  con  inganno  i  pesci  stulti.  : 

Se  in  te,  gridò  Milon,  avrai  boutade, 
Tu  ci  darai  mangiar  per  caritade. 

LXVI 

E  Cristo  poi  ti  l'enda  guiderdone, 
Dandoti  quella  destra  del  navigio. 
Che  diede  Gianni,  Jacomo,  e  Simone, 
Quando  alleluia  trasser  di  litigio. 
Risponde  il  vecchio  :  quest'  è  ben  ragione  ; 
E  ratto  a  terra  volge  lo  remigio, 
Ove  arrivato^  for  di  barca  scese. 
Portando  il  pesce  quanto  mai  ne  préée.- 


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Orlandino  —  Capitolo  5  97 

Lxvn 

Poi  scote  aceortamente  d'un  acciaio, 
E  d' una  selce'  il  foco  su  le  fronde  ; 
Milon  che  vede  ciò,  porta  un  legnaio 
De  pruni  e  de  vei^lti  colti  a  Y  onde, 
Acceso  il  foco,  Berta  a  più  d'  un  paio 
Di  pesci  cava  l' intestine  immonde  ; 
Milon  alla  cavalla  trae  la  sella. 
Sedeva  suso,  e  tiene  la  patella. 

Lxvm 

Stride  su  1  foco  il  pesce  dentro  V  olio 
E  Pallade  si  scampa  da  Mulcibero. 
Belila  tien  stimulato  sotto  1  dolio 
Fronde  di  tamariso  e  di  giunibero  : 
Vln  muffo  e  forte,  e  pan  di  faba  e  lolio 
Poscia  espedisce  quel  vecchietto  libero. 
Milon  si  abbraccia,  e  gli  occhi  spesso  tange, 
Come  uom  che  soi  peccati  al  fimao  piange. 

LXIX 

Onde  Berta  sen  ride,  e  si  cpnsola 
Vedendo  quel  tant'  uomo  fatto  coco, 
A  cui  pel  filmo  e  gli  occhi  e  il  naso  cola, 
E  brugiasi  le  gambe  al  troppo  foco. 
Milon  che  ben  V  intende,  una  pai'ola. 
Piangendo  tuttavia,  disse  per  gioco  : 
Tre  cose  V  uomo  cacciano  di  casa, 
H  finno,  il  foco,  e  la  moglie  malvasa. 

LXX 

Berta  risponde  :  e  pm*  non  cura  1'  uomo 
Spiccarsi  dalle  spalle  tal  urtica  ; 
Cotanto  dolce  fu  Y  acerbo  pomo, 
C'Adam  gustò,  porgendo  al' Eva  antica. 
Che  benché  sol  per  lei  di  propria  domo 
Scacciato  fusse,  parvegli  fatica 
Lasciar  la  causa  drieto  del  suo  male. 
Perchè  dura  è  ragion  al  sensuale. 


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98  Orlandino  —  Capitolo  5 

LXXI 

Così  ti  vien  Milon,  che  perula  fame 
D' indi  non  po'  levarti  questo  fiinio. 
Egli  risponde  :  son  le  belle  dame, 
Chi  ci  han  posto  alla  coda  questo  diuno  ; 
Berta  ne  ride,  e  senza  voglie  grame 
Su  '1  pesce  spàrge  ornai  di  sale  un  grumo. 
Lo  qual  già  cotto  rende  saporito, 
E  poi  lo  mette  in  tavola  su  1  lito. 

Lxxn 

Quel  vecchierello,  a  gentilezza  dedito, 
Arrecavi  le  sue  vivande  povere  ; 
Egli  non  ha  de'  campi,  o  fondi  redito. 
Se  non  la  barca,  il  mar,  il  sole,  '1  piovere. 
Onde  di  simil  sue  ricchezze  predito, 
Quel  suo  vin  muflfblente  e  pan  di  rovere 
Appone  in  sua  presenzia,  e  dice  :  inopia 
Chi  mangia  di  cotesta,  mai  non  scopia 

Lxxin 

Quanto  mi  trovo,  tanto  nella  vostra 
Presenzia,  o  miei  padroni,  ho  qui  diflftiso. 
In  me  il  voler,  ma  no  '1  poter  si  mostra 
Di  far,  com'  è  tra'  vostri  pari  1'  uso  : 
Ma  svaria  molto  questa  voglia  nostra. 
Chi  tien  aperto  il  pugno,  chi  '1  tien  chiuso  : 
Tal  poco  n'  ha,  eh'  altrui  quel  poco  imparte  ; 
Tal  molto  n'  ha,  che  ruba  1'  altrui  parte. 

LXXIV 

S' io  avessi  in  arca  V  oro  di  Tiberio, 
E  li  pomi  del  di'ago  ch'ancise  Ercole, 
Credeti  a  me,  ciò  dico  a  vituperio 
De'  ricchi,  men  sarian  coteste  fercule. 
Questi  avarazzi  fanno  quel  suo  imperio 
Col  sparagnare  infin  alle  cesercule. 
Le  scope,  ed  altre  cose  frali  e  frivole. 
Che  per  disdegno  tutte  non  descriyole. 


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Orlandiko  —  Capitolo  5  99 

LXXV 

E  s'io  potessi,  fondare!  tal  legge, 
Ciii  meglio  non  fondor  li  antichi  padri, 
Che  chi  è  signore,  e  gli  nomini  corregge, 
Dricciar  faria  le  forche  a  pochi  ladri  : 
E  chi  la  robba  e  vita  sua  ben  regge. 
Verrebbe  al  sol  de'  loghi  oscuri  ed  adii  ; 
Ch'  oggi  virtù  sta  serva  del  dinaro. 
Come  '1  pover*  dottore  al  usm^aro. 

LXXVI 

Qual  legge  è  questa?  dissegli  Milone, 
Narraci,  ti  pregamo,  padre  c^ro. 
Voglio,  risponde,  che  niim  ladrone 
Abbia  d'  esser  appeso  alcun  riparo, 
Se  piglia  quel  d'  altrui  contra  ragione, 
Eccetuato  sol  ciò  e'  ha  Y  avaro  ; 
Anzi  vorrei,  che  '1  pover  s'  appicasse  ; 
Se  potendo,  1'  avaro  non  rubasse. 

Lxxvn 

Tu  vederesti  l'integri  catoni 
Più  grati  al  mondo,  e  dal  predon  sicuri  ; 
Tu  vedresti  V  improbi  Neroni 
A  povertade  men  crudeli  e  diu-ì  ; 
Tu  vederesti  li  empi  Licaoni, 
Pigliato  la  lor  parte,  non  più  furi  ; 
La  parte  sua,  che  sta  nell'  altrui  copia, 
Che  '1  tuo  superfluo  causa  la  mia  inopia. 

Lxxvm 

Che  maledetta  sia  l' ingorda  rabbia 
Di  questa  lupa,  e  chi  adorar  la  vole. 
Che  se  quante  son  miche  in  questa  sabbia, 
E  quanti  cascan  attonii  dal  sole  (84), 
Tanti  denari  awien,  che  '1  miser  abbia. 
Apre  per  anche  averne  mille  gole. 
Ne  pur  si  sazia  la  sua  mente  avara  ; 
Onde,  qual  sia  'n  piacer,  mai  non  impara. 


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JOO  Orlandino  —  Capitolo  5 

LXXIX 

Tal  biasxno  non  v'  adduco  senza  causa  ; 
Che  ho  fatto  d'  un  avaro  mille  prove. 
E  se  '1  mio  dir  non  vi  facesse  nausa, 
Direi  di  lui  la  miser  vita,  e  dove. 
Rispose  allor  Milone  :  io  faccio  pausa  ; 
Eccoti  da  mangiare  ;  che  1  mi  move 
L'aspetto  tuo  talmente,  ch'io  starei. 
Di^uno,  per  udirti,  giorni  sei.    , 

LXXX 

Qui  narra  il  vecchio  una  faceta  istoria 
D'  un  prete  fiorentino  tanto  avai-o, 
Ch'ai  fin  di  doglia  perse  la  memoria, 
Già  divenuto  pazzo  pel  denaro. 
Ma  voglio,  eh'  abbian  altri  questa  gloria 
Dirlo  meglio  di  me  ;  che  sol  m'  è  caro 
Venirne  finalmente  ad  Orlandino, 
Già  molto  al  nascimento  suo  vicino. 

LXXXl 

Ma  Caritunga  mia  chiedemi  a  cena  ; 
Tenetivi,  signori,  eh'  io  vi  lasso. 
Penso  mangiar  una  coniacchia  piena 
De'  sogni,  che  non  scrive  il  mio  Tricasso. 
Poscia  vo'  bere  d'  una  certa  vena 
D'  acque  distanti  a  quelle  del  Pamasso, 
Le  quali  a  molti  toglion  il  cervello. 
Ma  queste  li  denari  còl  mantello. 


FINISCE 
IL  QUINTO  CAPITOLO 


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Orlandino 


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COMINCIA 
IL  SESTO  CAPITOLO 


0 


SCURI  sensi  ed  affettate  rime, 
Qual'  è  chi  dica  mai  compor  Limemo  ? 
Tal  volse  del  Petrarca  sulle  cime 
Salir,  eh'  or  giace  in  teiTa  con  gi'an  scherno. 
Icaro  per  montar  troppo  sublime. 
Credendosi  avanzar  il  voi  pateiTio, 
Perse  con  Y  ai'te  Y  incerate  piume, 
E  venne  giù  dal  ciel  in  un  volimie. 

n 

Non  tutti  Sanazarri  ed  Ariosti, 
Non  tutti  son  Boiardi,  ed  altii  eletti, 
Li  cui  sonori  accenti  far  composti 
De  r  alma  Clio  negli  ederati  tetti. 
Tetti  sì  larghi  a  lor,  a  noi  sì  angosti  ; 
E  rari  son  pur  troppo  gli  entro  accetti: 
Però,  che  meraviglia,  se  '1  gran  sono 
Di  lor  sentenzie  in  tanto  pregio  sono  ? 


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102  Orlandino  —  Capitolo  6 

m 

Milon  da  poi  che  '1  vecchio  pose  fine 
A  la  novella  ài  quel  scarso  prete 
Dimandagli,  se  porto  in  quel  confine 
Vi  era  ;  mentre  Y  aure  sono  quete, 
Vorrebbe  oltra  passar  V  acque  marine, 
Dando  al  nocchier  le  solite  monete. 
Non  dubitate,  disse  '1  vecchio  allora, 
Lo  porto  non  lontano  qui  dimora. 

IV 

Disse  Milon,  se  quel  non  è  lontano. 
Voglia  guidai'ci  in  questo  tuo  battello  ; 
E  per  r  atto  gentil  e  più.  che  umano 
Che  fusti  a  darne  cibo  tanto  snello. 
Questa  giumenta  lascioti,  e  con  mano 
Proprio  la  sottoscrivo,  e  ti  suggello. 
Mille  mercè,  risponde  il  vecchio  :  senza 
Tanti  notari  prestovi  credenza. 


Entrati  pur  in  barca,  ch'in  un  tratto 
Voglio  condurvi  al  porto  qui  vicino. 
Lasciamo  qui  la  bestia,  che  diffatto 
Io  manderò  levarla  un  mio  cugino  ; 
E  penso  già  di  fame  bon  baratto 
Drento  di  Corsia  in  \m  carro  di  vino  ; 
Perchè,  vi  giuro,  mai  non  pesco  bene, 
Se  di  bon  vin  non  son  le  fiasche  piene. 

VI 

Cosi  parlando,  accostasi  alla  barca  ; 
E  Berta  il  vecchierel  prende  al  traverso  : 
Poi  d'  esso  peso  il  suo  legnetto  carca, 
Che  pargoletto  quasi  vien  sommerso. 
E  tolto  il  remo,  navigando  innarca 
Le  schiene,  com'  un  serpe  d'  oro  terso. 
Lo  qual  va  sdrucciolando  per  un  prato, 
S'  awien  che  1  pè  d' un  bue  V  abbia  calcato. 


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Orlandino  —  Capitolo  6  103 

vn 

E  col  soave  noto,  eh'  un  aquatico 
Mergo  tra  folghe  segue  alcun  pescicolo 
Nel  lito  e  primo  mar  de  l'Adriatico; 
.  Tal  va  per  V  onde  salse  il  trave  piccolo 

Sotto  il  governo  di  quel  vecchio  pratico,  ; 

Che  mai  di  mar  non  teme  alcun  pericolo:  '| 

E  per  levar  il  tedio,  e  fai-li  ridere,  ^ 

Cantar  comincia,  e  con  gran  voce  a  stridere.  S 

vni  I 

Ma  giunti  al  porto,  trovano  eh'  un  grande 
Legno  si  parte  verso  Italia  in  fretta. 

Accostasi  Milone,  e  su  vi  scende  i 

Con  la  campagna,  e  lascia  la  barchetta:  >? 
Non  è  chi  lui  conosca,  o  chi  '1  dimande,                                              •         1; 

E  pm*  d'  esser  compreso  ivi  sospetta.  ^ 

Sta  sempre  aiinato,  e  porta  cinto  '1  brando,  ; 

Come  sol  fai*  chi  ha  taglia  posto  in  bando  (85).  (• 

IX  i; 

Già  febo  l'aurea  testa  in  l'onde  attufFa:  r 

E  lascia  il  freddo  lume  alla  sorella,  i 

Quando  pel  vento  che  'n  le  poppe  buflfa,  i 

Issasi  7  velo^  come  '1  volgo  appella.  r 

Quel  grave  legno  spinto  1'  onde  acciuffa,  > 

E  rompe  '1  mar  che  intomo  gli  saltella:  V 

Fa  nov^  migHa  o  dieci  in  men  d'  un  ora,  : 
E  fende  ciò  che  'ncontra  1'  altra  prora. 


Soldati,  mercatanti,  preti,  e  frati. 
Eran  con  alti-a  gente  in  quel  naviglio  : 
Chi  guatta  il  fìer  Milon  da  gli  omer  lati  ; 
E  chi  '1  bel  volto  candido  e  vermiglio 
Di  Berta,  e'  han  d'  amor  i  gesti  ornati, 
Contempla  sì,  che  dàlie  già  di  piglio  ; 
Ma  la  presenza  di  Milon  robusto, 
Tien  in  cervello  ogni  lascivo  gusto. 


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104  Orlandino  —  Capitolo  6 

XI 

Or  un  signore  V  era  di  Calabra 
Con  trenta  ben  armati  soi  famigli  ; 
Brama  di  Berta  egli  basciar  le  labbra, 
E  agguccia,  per  rapirla,  giJi  gli  artigli. 
Milon  non  sa  quella  sua  mente  scabra, 
Bench'egli  co'  compagni  si  consigli, 
E  r  un  con  Y  altro  parli  ne  Y  orecchia, 
Ch' ognun  nel  ben  altrui  sempre  si  specchia. 

xn 

Farebbon  già  Y  assalto  ;  ma  che  1  giorno 
Sparirò  venga  in  tutto,  attenden  prima. 
Bèrta  con  altre  donne  fa  soggiorno 
Sotto  coperta  de  la  prora  in  cima. 
D'ogni  altra  cosa  pensa,  che  del  scorno, 
Lo  qual  in  lei  quel  tristo  far  estima; 
Onde  corcata* in  grembo  d'una  schiava, 
Col  sonno  le  sue  membra  ristorava. 

xm 

Milon  che  di  saper  volge  1  desìo, 
Se  di  Parigi  alcun  sapesse  nova, 
Dimanda  forte  :  ditemi,  per  Dio, 
S'  alcun  eh'  il  sappia  dir,  ti'a  voi  si  trova, 
E  vero,  eh'  un  Milon  malvagio  e  rio 
Ha  fatto  contra  Carlo  un'  empia  prova  ? 
Risponde  un  grande  vecchio  :  è  con  effetto  ; 
E  dir  te  lo  saprò,  se  n'  hai  diletto. 

XIV 

Chi  sia  cotesto  vecchio  in  fronte  grave, 
C'ha  lunga  barba,  ed  occhi  di  Saturno, 
Ninno  sa  di  quelli  enti*o  la  nave  ; 
Che  '1  finto  volto,  ed  anco  il  ciel  notturno 
Lo  asconde  lor,  ne  senton  che  '1  gran  trave 
Mosso  non  da  Levante,  o  da  Volturno, 
Ma  del  suo  spirto,  vola  in  tal  prestezza, 
Ch'  un  veltro  non  va  più,  anzi  una  frezza. 


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Orlandino  —  Capitolo  6  105 

XV 

Volendo,  mille  forme  cangia  '1  volto, 
Tant'  è  nel  arte  magica  pwito  ; 
Sciolge  d'  amor  il  vinto,  e  vinge  '1  sciolto, 
Affi-ena  i  fiumi,  e  chiama  i  pesci  al  lito  ; 
Fa  '1  matto  saggio,  e  '1  saggio  venir  matto, 
E  cava  Y  ombra  d'  Orco  e  di  Oocito  ; 
La  lana,  stelle,  foco,  piante,  e  marmi 
Costringe  alla  violenza  di  soi  carmi. 

XVI 

Ma  '1  negromante,  degno  di  gran  lodo, 
Oprar  non  sa,  se  non  in  ben  tal  arte. 
Fauni,  folletti,  ed  incubi,  che  'l  vodo 
Cerchio  tra  1  foco  e  terra,  e  la  gran  parte 
Tengon  del  centro  mezzo  al  nostro  sodo. 
Tutti  scongium  a  sue  sacrate  carte  ; 
Demogorgoni,  arpìe,  fate,  e  strige. 
Sepolcri,  ombre,  sibile,  caos,  e  stige. 

xvn 

Sa  quanto  alcun  mai  seppe  d'  erbe,  o  piante. 
Non  d'  aconito  pur,  tasso,  e  cicute, 
Ma  mille  e  mille,  che  furon  innante 
Non  mai  da  nigromante  alcun  sapute. 
Taccio  '1  magnete,  ferro,  ed  adamante  ; 
Sa  di  metalli,  e  pietre  ogni  virtute  ; 
Onde  nascoso  tien  d'  argento  ed  oro 
Ne'  monti  di  Carena  um  gran  tesoro. 

•  xvm 

Ne  monti  di  Carena  entro  le  grotte 
Sta  '1  seggio  suo  di  smalto  e  sasso  fino. 
Atlanta  ha  nome,  che  di  mezza  notte 
D'una  sibilla  nacque,  e  di  Merlino. 
Or  con  turbato  cor  e  voglie  rótte 
Lasciato  avea  de  l'Africa  '1  confino 
Per  un  a&ello^  il  qual  fece  ad  Almonte, 
Che  poscia  gli  dovea  far  danno  ed  óiite. 


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106  Orlandino  —  Capitolo  6 

XIX 

Or  dunque  posto,  eh'  egli  sol  per  arte 
Saper  potesse,  aver  anti  Milone, 
Noi  sa  però,  che  rado  apre  le  carte 
De'  spirti  rei,  se  non  per  gran  cagione. 
Ver'  è,  che  dianzi  Giove  opposto  a  Marte, 
Dissegli,  che  di  lui  nasce  un  barone. 
Il  qual.  Orlando  detto,  iion  avria 
Egual  d' ingegno,  forza,  e  cortesia. 

XX 

Ora  per  soddisfar  al  suo  dimando, 
Ch'  è  di  saper  quel  che  sapendo  poscia 
Ne  pianga,  odendo  Y  impeto  nefando, 
Non  credo  più  nefando  esser  mai  poscia. 
Di  Carlo,  anzi  Neron,  in  ciò  che  '1  brando 
Così  vibrò,  eh'  ancor  al  ciel  1'  angoscia 
E  gli  urli  van  per  1'  ampia  uccisione 
D'  uomini  fatta  in  scherno  di  Milone. 

XXI 

La  causa  che  m' indusse,  poiché  attenti, 
Vostra  mercè,  vi  veggio,  vo'  fondarvi 
Assai  più  innanzi  mìei  ragionamenti, 
Venir  in  Francia,  e  poco  tempo  starvi, 
Fu  la  prolissa  guerra,  i  fier  lamenti, 
La  trista  occision  de'  grandi  e  parvi. 
Che  ratto  de'  patir  la  vostra  Europa 
Da  gente  tartaresca  ed  etiopa. 

xxn 

Chi  fia  di  tanto  mal  cagion?  Amore. 
Amor  che  sempre  fu  la  peste  lorda 
De'  miseri  mortali  :  ah,  in  quant'  errore 
Ci  spinge  questa  fiamma  tant'  ingorda  ! 
Odo  già  l'alte  strida,  il  gran  rumore 
D'arme,  ch'aggira  in  foco,  e  '1  ciel  assorda; 
Che  dove  fischia  amor,  cosi  fier  anigue,    . 
Subito  appare  ferro,  foco,  e  sangue.  , 


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Oblàndino  —  Capitolo  6  107 

xxm 

Già  8Ì  rinnova  quel  furor  vetusto, 
Che  'l  mondo  trasse  quasi  al  primo  cap, 
Quando  '1  lascivo  Paride  ed  ingiusto 
Chiamossi  dietro  Y  empio  Menelao, 
H  quale  tutta  TAsia  ebbe  combusto, 
Ove  Patroclo,  Ettor,  Protesilao, 
Achille,  Troilo,  ed  altri  capitani 
Restar  tra  un  milion  d'  uccisi  ai  piani. 

XXIV 

Quanf  era  meglio,  che  1  conte  Milone 
Lasciato  avesse  Berta  liel  suo  letto. 
Carlo  testé  gli  rende  '1  guiderdone. 
Che  sua  famiglia  tutta  per  dispetto 
Distrugge  in  ferro  e  foco  ;  ma  un  leone 
È  per  stringer  a  lui  la  gola,  il  petto. 
Piti  non  avrà  V  ardir  di  Chiaramente, 
Che  '1  scampi  da  le  man  d'un  fier  Creonte. 

XXV      . 

Novo  Creonte  in  queste  parti  viene, 
Per  spander  tutto  il  cristiano  sangue. 
Carlo  fia  1  primo,  che  volga  le  schiene 
Al  negro  tosco,  e  fiscio  (86)  d'  un  tal  angue  : 
Non  gli  verrà  gridar  :  chi  mi  sovviene  ? 
Le  membra  stanno  mal,  se  '1  capo  langue. 
Italia,  Franza,  Spagna,  ed  InghilteiTa, 
Cupido  e  Marte  gitteranno  a  terra. 

xxyi 

Ahi,  maledetta  stirpe  di  Maganza, 
Ch'  or  godi  e  canti  per  Y  altrui  dolore. 
Non  sperar  già,  che  falsa  è  tal  speranza, 
Gioir  troppo  lontan  di  quel  favore. 
Posto  eh'  abbi  scacciato  for  di  Franza 
Di  Chiaramonte  la  radice  1  fiore  : 
Volge  la  rota,  ma  '1  destin  è  fermio. 
Ch'ai  fin  a  tua  mina  non  fia  schermo, 


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108  Orlandino  —  Capitolo  6 

xxvn 

0  stelle,  o  ptmti,  o  troppo  tardi  segni, 
Che  prometteti  sd  mondo  un  si  bel  sole, 
Aprite^  ch'oggi  è  tempo,  i  raggi  pregni 
Al  aureo  sedo,  a  l'aspettata  prolo. 
Nascan  li  quattro  di  vertù  sostegni, 
Per  cui  rumor  etemo  al  mondo  vole, 
Nasca  quel  forte  Orlando^  alto  coraggio, 
Einoddoy  e  1  mìo  Ruggier^  Gtiidon  Sehaggio. 

xxvm 

ly  Orlando  una  colonna  nascer  deve. 
Che  non  per  Roma,  anzi  sostien  il  mondo  ; 
Ma  de  Rinaldo  un  orso  tanto  grave. 
Che  di  sua  forza  il  ciel  sentir  fa  il  pondo. 
Ruggiero  il  sangue  d'  Este  in  se  riceve, 
D' ingegno  saldo,  e  di  virtù  profondo  : 
Ma  '1  mio  Guidone  infonderà  Gonzaga  (87), 
Per  cui  sol  nacque  la  tebana  Maga. 

XXIX 

Guidon  Selvaggio,  di  Rinaldo  frate. 
La  sora  di  Ruggier  avrà  per  moglie  ; 
Quindi  verrà  quel  inclita  bontate 
Gonzaga,  eh'  in  un  punto  il  mondo  accoglie  : 
Mantoa  famosa  per  il  primo  vate. 
Ma  più  famosa  pei  trofei  e  spoglie. 
Che  riportar  in  lei  Gonzaga  deve 
Dal  Gange  al  Nilo,  ed  iperborea  neve. 

XXX 

Parlava  lagrimando  il  negromante, 
Ed  era  per  narrar  il  gran  conquasso. 
Che  Carlo  a  Chiaramonte  il  giorno  avante 
Diede,  poscia  ch'intese  quel  fracasso. 
Dal  fier  Milón  fatto  in  un  istante  ; 
Ch'in  una  notte  mandò  quasi  al  basso 
Tutta  la  Casa  dì  Maganza;  e  Berta 
Rapita  aver  tenea  per  cosa  certa. 


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Orlandino  —  Capitolo  6  109 


XXXI 

Quando  Raimondo,  che  Raimondo  detto 
Era  quel  duca,  o  conte  calabrese, 
Lascivamente  Berta  nel  cospetto 
D'  uomini  e  donne  stretta  in  braccio  prese. 
Volendo  eli'  abbia  il  suo  pensier  effetto. 
Come  uom  villano,  perfido,  e  scortese. 
Bei-ta  che  dorme,  destasi  gridando  ; 
Milon  che  Y  ode,  tratto  ha  fora  il  brando. 

XXXII 

Corre  a  veder  la  causa  di  tal  voce  ; 
Ma  risospinto  fu  da  trenta  in  drieto  : 
Pensate,  s' ira  e  sdegno  il  cuor  gli  coce. 
Vedendo  farsi  un  atto  si  indiscreto  : 
Ma  r  aiTOganza  le  più  volte  noce  ; 
Salta  Milon  in  mezzo  di  quel  ceto, 
E  vi  comincia  a  dimenarsi  intorno, 
Quantunque  già  fosse  sparito  il  giorno. 

xxxin 

A  cui  la  testa,  a  cui  la  spalla  fende, 
A  cui  lo  braccio,  a  cui  la  gamba  tronca  : 
Berta  contra  Raimondo  si  difende. 
Che  a  caso  in  man  venuta  gli  è  'na  ronca  ; 
Ma  quel  ribaldo  in  un  batello  scende, 
Dietro  le  poppe,  simil  a  una  conca  ; 
Quatti-o  famigli  allor  prendon  in  fretta 
La  donna,  e  giù  la  mandan  in  barchetta. 

xxxiv 

Assai  contrasta  loro,  e  pur  si  vede 
Alfin  Berta  d'  un  ladro  esser  prigione. 
Chiama  piangendo  su  dal  ciel  mercede, 
Poiché  r  aiuto  è  vano  di  Milone, 
Lo  qual,  mentre,  cervelli  rompe  e  fiode,  . 
Gìh  presso  al  fin  de  Y  aspra  occisione. 
La  gl'ossa  nave  per  libeccio  vola, 
Ma  la  piccina  drieto  resta  sola. 


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110  Oblandino  —  Capitolo  6 


XXXV 

Perchè  tagliò  la  fune  il  fier  Kaimondo 
Di  quel  scliifetto  allor  che  Y  ebbe  drente  ; 
E  mancò  poco,  non  andasse  al  fondo 
La  picciol  barca,  già  ingrossando  il  vento. 
Or  qui  scriver  non  vogliovi,  secondo 
Turpin,  difiFusamente  qual'  evento 
Fu  di  Milone,  o  di  qual  mago  Atlante, 
Ch'  allor  allora  spai-ve  in  un  istante. 

XXXVI 

Ne  di  Milon,  il  qual  dopo  la  morte 
Sanguinolenta  di  que'  tapinelH, 
Ebbe  fortuna  tal,  che  le  ritorte, 
Arbore,  vela,  remi,  arme,  vaselli, 
Lo  stesso  legno  al  fin  andò  per  sorte 
Del  mai'  in  preda:  e  con  i  soi  fardelli 
Li  mercadanti  al  fondo  si  trovaro. 
Ne  lor  scampò  la  coppia  del  dinaro. 

xxxvn 

Pur  animosamente  il  cavaliero. 
Trattosi  1'  anne,  nudo,  come  nacque, 
Buttossi  di  fortuna  ne  Y  impero, 
Di  qua,  di  Ik  sbalzato  per  su  Y  acque. 
Al  fin  giunse  in  Italia,  ma  leggiero 
Di  forze  e  panni  su  la  rena  giacque  ; 
Poscia  levato  da  non  so  qual  fata, 
Seco  sen  stette,  e  1'  ebbe  ingravidata. 

xxxvm 

Di  costei  nacque  il  principe  Agolaceio, 
Come  '1  dottore  in  la  sua  Deca  scrive  ; 
Ma  ritorniamo  a  Berta  che  'n  impaccio, 
Di  quel  fellone  non  sa  come  '1  schive  : 
Egli  già  se  Y  avea  recata  in  braccio 
Per  adempir  le  voglie  sue  lascive  ; 
La  donna  che  schermirsi  piti  non  puote, 
D'  un  suo  coltello  sotto  lo  percuote. 


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Orlandino  —  Capitolo  6  111 

XXXIX 

Che  mentre  finge  aprir  le  gambe  a  quello, 
Ed  a  giostrar  corcasi  agiatamente, 
Cacciògli  ne  le  viscere  il  coltello, 
Raddoppiando  e'  colpi  virilmente. 
Quel  misero  ferirla  volse  anch'  elio 
D'  un  suo  pugnale,  ma  1  dolor  repente 
Di  morte  V  impedisce  ;  e  Berta  in  mare 
Spinselo  fora,  e  s'  ebbe  a  conservare. 

XL 

Or  sola  in  quel  vasello  va  sbalzando 
La  pudica  dongella  su  per  Y  onde. 
O  sommo  Dio,  parlava  lagrimando, 
Porgimi  la  tua  man,  che  non  s'  affondo 
L' infermo  legno  :  non  che  '1  mio  nefando 
Viver,  ne  le  mie  colpe  lorde  inunonde 
Mertin  pietà,  ma  quella  creatura, 
C  ho  in  ventre,  o  padre  eterno,  rassicura. 

XLI 

Da  te  ricorro,  non  a  Piero,  o  Andrea, 
Che  alti'ui  mezzo  non  mi  fa  mistero  : 
Ben  tengo  a  mente,  che  la  Cananea 
Non  supplicò  ne  a  Giacomo,  ne  Piero. 
A  te,  somma  bontk,  sol  si  credea, 
Gos'  io  sol  di  te  sol,  non  d'  altro  spero. 
Tu  sai  quel  che  mi  è  sano,  over  noioso, 
Fa  tu,  signor,  eh'  altri  pregar  non  oso. 

XIJI 

Ne  insieme  voglio  errar  col  volgo  sciocca), 
Di  soperstizia  colmo  e  di  mattezza  ; 
Che  fa  soi  voti  ad  un  Gotardo,  e  Rocco, 
E  più  di  te,  non  so,  qual  Bovo  apprezza, 
Mercè  eh'  un  fi-aticello,  al  Dio  Molocco 
Sacrificante  spesso,  con  destrezza 
Fa  che  tua  madre  su  nel  ciel  regina 
Gli  copre  il  sacrificio  di  rapina. 


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112  Oblandino  —  Capitolo  6 


XLin 

Per  ciò  che  di  pietà  «otto  la  scorza 
Fassi  grande  vendemia  di  dinari  ; 
E  col  altare  di  Marìa  si  ammorsa 
L'  empia  ingordigia  de'  prelati  avari. 
Ed  anco  la  lor  legge  mi  m-ta  e  sforza 
Ch'ogni  anno  nell'orecchie  altrui  dischiari 
Le  mende  mie,  eh'  io  son  giovin,  e  bella  ; 
E  il  fraticello  ch'ode,  si  flagella. 

XLIV 

Flagellasi  patendo  le  ferute. 
Che  mie  parole  di  lascivia  pregne 
Gli  danno,  le  qual  sono  tanto  acute 
Al  cor,  eh'  alfin  convien  eh'  egli  s' ingegne 
Con  vari  modi  e  lusinghette  astute, 
Ch'  io  di  tacer  la  fede  mia  gì'  impegne, 
E  qui  trovo  ben  spesso  un  confessore 
Esser  più  ruffiano  che  dottore. 

XLV 

Però,  signor,  che  sai  gli  cuori  umani, 
E  vedi  la  tua  chiesa  in  man  de'  frati, 
A  te  col  cor  contrito  alzo  le  mani, 
Sperando  esser  già  spenti  e'  miei  peccati  : 
E  se.  Dio  mio,  da  questi  flutti  insani 
Me  scampi,  che  mi  veggio  intomo  irati, 
Ti  faccio  voto,  non  prestar  mai  fede 
A  ch'indulgenze  per  denai*  concede  (88). 

XLVI 

Cotal  preghiere  carehe  d'  eresia 
Berta  facea,  mercè  eh'  era  tedesca 
Perchè  in  quel  tempo  la  teologia 
Era  fatta  romana  e  fiandresca  (89)  ; 
Ma  dubito,  eh' alfin  ne  la  Turcliia 
Si  troverà,  vivendo  alla  moresca; 
Perchè  di  Cristo  l'inconsutil  vésta 
Squarciata  è  sì,  che  più  non  ve  ne  resta. 


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Oblandino  —  Capitolo  6  118 

XLVn 

Non  volse  Dio  però  giiar^dai*  a  quella 
Perfidia  d'  una  donna  d' Alemagna  ; 
Ma  fece,  che  con  lei  la  navicella 
Pervenne,  ove  le  rijje  1'  onda  bagna. 
Qui  stanca  e  smorta  uscisce  la  dongella, 
E  tanto  va  per  monte  e  per  campagna, 
Di  Lombardia  passando  in  la  Toscana, 
Che  for  di  Sutri  (90)  giunse  ad  una  tana. 

XLvm 

Taccio  la  fame,  e  sete,  e  il  caldo  grande, 
E  lo  timor  de'  stupratori  e  ladri, 
Che  soffre  la  meschina  in  quelle  bande. 
Ove  son  molti  boschi  orrendi  ed  adri. 
Mangia  sovente  more,  cornie,  e  ghiande, 
Come  facean  gli  antiqui  nostri  padri  ; 
Acque,  se  non  di  fonti,  almen  de  stagni, 
Convien  che  sorba,  e  poi  eh'  altr'  ac(iua  piagni. 

XLIX 

Perchè  sempre  facendo  aspro  lamento 
Va  miseramente  contro  la  fortuna: 
Pur  finalmente  giunse  a  salvamento, 
Si  come  dissi  poco  avanti,  ad  una 
Spelunca,  ove  trovò,  che  molto  armento, 
Venendo  notte,  un  pecoraio  adduna. 
Deh,  padre  caro,  disse,  abbi  mercede 
Di  me,  eh'  omai  non  posso  star  in  piede. 


Quel  vecchio  allor  di  somma  cortesia 
Lascia  le  capre,  e  lei  benigno  accolse  : 
Onde  ne  vegna,  o  vada,  o  che  si  sia. 
In  quel  principio  chiederla  non  volse  ; 
Ma  dolce,  umano,  e  lieto  tuttavia, 
Ch'  ella  riposa,  un  suo  scrignolo  sciolse  ; 
Trassevi  pane,  cacio,  e  molte  frutta, 
E  Fumile  sua  mensa  ebbe  costrutta. 


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114  Orlandino  —  Capitolo  6 

LI 

Berta  eli'  lia  fame,  e  dentro  olii  la  suf^ge, 
Dico  lo  già  di  dieci  mesi  infante, 
A  quelle  rozze  fercole  confiigge. 
Che  '1  bon  pastore  1'  aiTecò  davante  : 
Quivi  la  fame  e  gran  dolor  se  'n  fugge, 
Cli'  avea  del  suo  perduto  caro  amante, 
E  benché  stia  sospesa,  e  in  volto  smoi'ta. 
Pur  tolta  r  esca,  molto  si  conforta. 

LII 

Ma  qui  diverte  e  naiTa  il  gran  dottore, 
Sì  come  di  Pavia  re  Desidero, 
Udito  d'  arme  in  aere  il  gran  rumore, 
Perchè  Agolante  vien  per  tor  lo  impero 
Di  Europa  a  Carlo,  e  farsene  signore, 
Mandagli  prestamente  un  messaggiero 
Per  farsegli  compagno,  e  Italia  poi 
Soggiogar  tutta  a  Longobardi  soi. 

LEI 

E  come  qui  Milone  capitando 
Trovò  sotto  Appenino  entro  le  grotte 
Un  popol  infinito,  eh'  aspettando 
Dal  ciel  aiuto,  s'  erano  ridotte 
Per  trarsi  omai  di  sotto  a  quel  nefando 
Re  Desiderio,  e  darli  tante  botte. 
Che  sia  poi  specchio  agli  altri  oltramontani. 
Che  non  s' impaccin  mai  con  italiani  (91). 

Lrv 

Quivi  Milon,  orando  lungamente, 
Trasseli  for  di  tenebre  alla  luce  : 
La  qual  ben  ordinata  e  bella  gente 
In  un  vallon  de  Iiisu})ria  riconduce  : 
E  come  una  cittade  grossamente 
Edificaro,  e  di  Milon  suo  duce 
Le  diero  il  nome  ;  dopo  il  volgo  insano 
Non  più  Milon^  ma  T  appellor  Milano, 


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Orlandino  —  Capitolo  6  115 

LV 

Quel  gran  Mìlan,  eh'  ha  tradimento  e  forza 
Vien  tolto  spesso  dalli  tramontani 
Al  nosti'o  italian  signore  Sforza, 
Onde  sempre  con  lor  siamo  alle  mani, 
Facendoli  lasciar  dieti-o  la  scorza. 
Che  poi  mangiati  son  da'  lupi  e  cani  ; 
E  ben  scriver  si  potè  su  le  mura, 
Italia  barharorum  sepultura, 

LVI 

Che  veramente  in  quell'  orribil  giorno 
Ch'  in  Giosaflfatto  sonerà  la  tromba, 
Facendosi  sentire  al  mondo  intorno, 
E  i  morti  saltaran  for  d'  ogni  tomba, 
Non  sarà  pozzo,  cacatoio,  e  forno. 
Che  mentre  il  tararan  del  ciel  rimbomba. 
Non  gitti  fora  svizzeri,  francesi, 
Tedeschi,  impani,  e  d'  alti-i  assai  paesi. 

Lvn 

E  vederassi  una  mirabil  guerra, 
Fra  loro  combattendo  gli  ossi  soi  : 
Clii  un  braccio,  chi  una  man,  chi  un  pie  afferra  ; 
Ma  vien  chi  dice  :  questi  non  son  toi, 
Anzi  son  mei,  non  sono  ;  e  su  la  terra 
Molti  di  loro  avi-an  gambe  de  boi. 
Teste  di  muli,  e  d'  asini  le  schiene. 
Siccome  all'  opre  di  ciascun  conviene. 

Lvm 

Così  col  mio  cervello  assai  lunatico. 
Fantastico  e  bizzan-o  sempre  i'  masino. 
Confesso  ben,  eh'  io  son  puro  gramatico^ 
Che  tant'  è  dire,  quanto  un  ptiro  asino  ; 
Assai  miglior  d'  un  puro  mattematico. 
Ma  peluche  i  capuzzati  non  mi  annasino, 
Io  credo  in  tutto  il  credo^  e  se  non  vale, 
Io  credo  ancor  in  quel  di  dottrinale. 


I 


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IOrlandinó 


^^^^  ♦- 


COMINCIA 
IL  SETTIMO  CAPITOLO 


Xja  donna,  che  dal  ciel  trasse  Y  origine 
Mi  riconduce  al  passo  convenevole 
A  qualunque  si  sferra  di  caligine 
Per  acquistarsi  un  stile  più  lodevole  ; 
Ma  r  abito  maligno  e  la  rubigine 
D'  un  incesso  balordo  e  strabocchevole, 
Difficil  mi  rende,  anzi  contrarie 
Le  vie,  che  mai  non  seppe  la  barbarie. 

n 

Ed  oggi  pur  a  nosti-o  vituperio 
Passate  son  di  ih  le  buone  lettere, 
Mercè  eh'  abbiam  commesso  un  adulterio 
Tal,  che  smarrite  sono  Y  arti  vetere. 
Veggio  fatto  volgar  fino  al  Salterio, 
Cantando  su  pei  banchi  ne  le  cetere. 
Ne  passa  per  taverna,  o  per  bottega 
Che  Plinio,  od  altro  simil,  non  si  lega. 


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Orlandino  —  Capitolo  7  117 

m 

La  fresca  aui-ora  più  che  mai  leggiadra 
Da  r  orizzonte  ornai  scotea  le  piume. 
Sorge  '1  pastore  a  beverar  la  squadra 
Di  sue  care  caprette  al  chiaro  fiume  ; 
Poi  leva  gli  occhi  al  cielo,  e  ben  lo  squadra, 
Che  schietto  nascerà  di  febo  il  lume  ; 
Di  che,  tolto  '1  bastone,  s'  assicura, 
E  for  guida  V  armento  alla  pastura. 

IV 

Berta  sola  rimane  alla  capanna. 
Ed  anco  dorme  di  stracchezza  piena  ; 
Pur  r  alma  entro  '1  pensier  tanto  s'  affanna. 
Che  non  s'  acqueta  la  sospesa  lena  ; 
Onde  nel  moto  d'  una  picciol  canna 
Ratto  si  sveglia,  e  sente  al  cor  gran  pena  ; 
Che  1  suo  Milone  a  lato  non  ritrova, 
E  qui  di  pianto  un  fiume  si  rinnova. 


Stavasi  dunque  tutta  penserosa, 
La  guanza  riposando  su  la  destra: 
Febo,  che  voi,  possendo,  d'  ogni  cosa 
Rendersi  certo,  venne  alla  finestra  ; 
Quando  la  dongelletta  paventosa 
Del  parto,  su  quel  strato  di  ginestra. 
Sentir  comincia  pene  di  tal  sorte, 
Che  di  men  doglia  crede  esser  la  morte. 

VI 

Stride,  con  alta  voce,  rugge,  e  freme. 
Torcendosi  su  V  uno  e  V  altro  fianco  : 
Verun  non  è,  che  'n  quelle  doglie  estreme 
Poscia,  parlando,  confortarla  almanco  : 
Chiama  Frosina,  ed  alti-e  donne  insieme. 
Chiama  Milone,  ed  il  chiamar  vien  manco, 
E  solamente  in  quelle  stalle  immonde 
Un  parete  di  sassi  le  risponde. 


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118  Orlandino  —  Capitolo  7 


vn 

Ragion  è  ben,  che  d'  un  tal  ventre  uscendo 
Il  fior  del  mondo,  e  1'  unica  possanza, 
Difficil  parto  sia,  duro,  ed  orrendo, 
E  faticoso  assai  più  de  Y  usanza  : 
Che  se  le  gran  prodezze  sue  comprendo. 
Quale  fu  mai,  ne  mai  sarà  nomanza 
Di  forza  immensa,  d'  animo  prestante. 
Simile  a  quella  del  signor  d'Anglante? 

vm 

Qui  nacque  Orlando,  l' inclito  barone  ; 
Qui  nacque  Orlando,  senator  romano  : 
Qui  nacque  Orlando,  forte  campione  ; 
Qui  nacque  Orlando,  grande  capitano  ; 
Qui  nacque  Orlando,  padre  di  ragione  ; 
Qui  nacque  Orlando,  più  d'  ogni  altro  umano  ; 
Qui  nacque  il  gran  spavento  e  la  mina 
De'  maganzesi,  e  gente  saracina. 

IX 

Guardati  Almonte,  guardati  Agolante, 
Guardati  Agricane,  e  re  Gradasso  ; 
Guardatevi  Lusbecco,  e  Durastante, 
Troian,  Ancroia,  e  tu  crudel  Garasso  ; 
Guardisi  più  degli  altri  ogni  gigante  ; 
Ch'  or  nasce  in  sua  ruina  il  gran  fracasso  : 
Qual  durezza  di  monte  o  fin  azzale 
Potrà  star  saldo  al  suo  ferir  mortale  ? 


Nasce  dunque  l'infante  in  quellp.  grotta, 
Senz'  alcun  testimonio  de  commadre  ; 
Ma  cosa  di  stupor  apparve  allotta. 
Poscia  che  spinto  for  1'  ebbe  sua  madre, 
Ecco  de  lupi  airivarvi  una  frotta, 
Di  quelle  selve  uscendo  folte  ed  adre, 
Ch'  andavano  d' intomo  forte  urlando^ 
Onde  per  nome  poi  fu  detto  Orlando. 


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Orlandino  —  Capitolo  7  119 


XI 

Senti  la  terra  \\n  tanto  nascimento, 
Sentillo  il  mare,  i  fimni,  i  rivi,  i  fonti  ; 
Sentillo  il  ciel  di  sopra,  fora,  e  drento  ; 
Sentillo  poggi,  piani,  valli,  e  monti, 
Grandine,  pioggie,  neve,  ed  ogni  vento. 
Città,  castella,  porti,  valle,  e  ponti  ; 
Sentillo  pesci,  armenti,  fiere,  augelli, 
E  intomo  a  lui  par  sol,  che  ^1  sol  s'  abbelli. 

xn 

Dricciasi  Berta  con  gran  stento  in  piede. 
Pensate,  a  qual  pietà  movea  li  sassi  ! 
Leva  '1  figliuol,  d' inopia  sol  erede, 
E  portalo  ad  un  fiume  a  lenti  passi  ; 
Lavalo  stessa,  e  su  la  ripa  sede, 
Scingalo  prima,  e  da  poi  il  fascia,  e  stassi 
A  contemplarlo  sempre  lagrimando, 
E  già  '1  dolor  del  parto  ha  posto  in  bando. 

xm 

Basciando  spesso,  e  non  può  saziarsi 
Succiar  le  fronde,  gli  occhi,  bocca,  e  mento, 
Sentesi  di  dolcezza  liquefarsi  ; 
Onde  le  par  men  aspro  ogni  tormento. 
Poi  riede  alla  capanna  per  corcarsi. 
Che  'n  starseli  dritta  non  ha  valimento, 
Infin  che  '1  vecchio  pegoraro  tomi, 
Ch'  omai  temp'  è,  che  '1  caldo  lo  ritorni, 

XIV 

Eccolo  giunto  co  le  greggie  innante, 
Sovente  dietro  a  quelle  sibilando. 
Va  ne  la  tana  con  uman  sembiante, 
E   vagir  sente  il  pargoletto  Orlando. 
La  donna  con  vergogna  in  un  istante 
Levatasi  sul  braccio,  il  come,  il  quando 
Nacque  '1  fanciullo  mentre  a  lui  racconta. 
Per  debolezza  quasi  vi  tramonta. 


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120  Oblaudino  —  Capitolo  7 


XV 

Lo  provido  vecchietto  non  risponde, 
Ma  col  pie  tosto,  e  con  la  fronte  allegra 
Le  man  corre  a  lavarsi  alle  fresch^  onde. 
Poi  chiama  una  capretta  bianca  e  negra. 
La  qual  presto  lasciando  V  erbe  e  fi-onde, 
Non  fa  di  alzar  la  gamba  al  vecchio  pegra. 
Egli  trasse  di  latte  un  suo  vasetto, 
Non  stomacoso  no,  ma  bianco  e  netto. 

E  mentre  vi  si  anmioUa  un  mezzo  pane, 
Corre  di  tre  galline  al  comun  nido. 
Un  par  di  uova  nate  in  quella  mane. 
Sul  cener  caldo  pose  in  loco  fido. 
Poi  toma  al  latte,  e  con  sue  voglie  umane 
Lo  porge  a  Berta:  ed  ella,  io  mi  confido, 
Disse,  nel  ciel,  o  padre  mio,  eh'  ancora 
Verrk,  che  di  ciò  renda  il  cambio,  oitu 

xvn 

Non  sempre  in  me  fortuna  turberassi, 
Non  sempre,  ispero,  mi  sarà  matregna: 
Che  se  a  clemenzia  i  movo  e  fiere  e  sassi, 
Via  più  eh'  ella  si  pieghi,  è  cosa  degna. 
Così  parlando  di  quel  latte  vassi 
Nudrendo  a  poco  a  poco,  e  par  si  spegna 
La  fame  insieme  col  dolor  del  parto, 
n  qual  sopra  ogni  pena  è  acerbo  ed  arto. 

xvm 

Poi  sorbe  l'ova,  ed  acque  dolce  beve, 
Di  che  ne  prende  molto  di  ristoro  : 
Così  di  giorno  in  giorno,  e  1'  aspro,   e  grave 
Vassi  diminuendo  suo  martoro. 
E  dal  pastore  tanto  ben  riceve. 
Che  reputa  del  mondo  tutto  V  oro 
Bastevole  non  esser,  per  il  quale 
SuppHr  potesse  im  benefìcio  tale. 


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Orlandino  —  Cawtolo  7  181 

XDL 

Pigliava  r  arco  suo  mattina  e  sera, 
Quel  sovra  tutti  bono  pecoraro, 
E  mentre  di  sue  pecore  la  schiera 
Iva  pascendo  in  loco  solitaro, 
Cercava  il  monte,  il  bosco,  e  la  riviera. 
Seguendo  gli  augelletti  ;  e  ben  fu  raro 
Quel  eh'  addocchiato  fosse  e  saettato, 
Moi-to  non  riportasse  il  strai  al  prato. 

XX 

Con  questi  poi  nudriva  la  dongella, 
E  di  pastore  fattp  era  già  coco, 
Infin  che  più  che  mai  leggiadra  e  bella 
Depose  il  volto  macilente  e  fioco. 
Ma  r  Orlandinp   già  corre  e  saltella, 
Già,  qual  poliedro,  vescit  stare  loco^ 
Scampasi  da  la  madre  omai  slattato, 
A  quel  pastor,  più  del  suo  armento  grato. 

XXI 

Cavalca  una  cannuccia,  e  con  la  spada 
Di  legno  tira  dritti  e  man  roversi  ; 
Sempre  discorre  questa  e  quella  strada. 
Ne  sa  d'  alcun  affanno  mai  dolersi  ; 
Convien  che  cada,  surga,  e  poi  ricada. 
Che  ti  piede  fermo  anco  non  sa  tenersi  ; 
Ond'  ha  sul  volto,  mentre  in  terra  il  smacca. 
Chiara  di  uovo  sempre,  o  qualche  biacca. 

xxn 

Vive  sett'  anni,  e  dodici  ne  mostra, 
Tanto  compiuto  va  di  forze  e  membra  : 
Gambe  da  salti,  ed  omeri  da  giostra, 
Donde  natura  ad  Ettore  1'  assembra  ; 
Porta  gran  pesi,  e  'n  qualche  muro  giostra, 
Urta,  fracassa,  rompe,  quassa,  e  smembra: 
Orsi,  leom,  tigri  non  paventa, 
Ma  contra  loro  intrepido  s'  avventa. 


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ifSoogh 


122'  Orlandino  —  Capitolo  7 


xxm 

Folgori,  venti,  pioggie,  caldo,  e  gelo 
Non  pon  far  sì,  eh'  egli  di  lor  si  cure  ; 
Dorme  di  notte  sotto  aperto  cielo, 
Non  su  le  frondi,  ma  su  pietre  dure  ; 
Bruno,  nervoso,  e  'n  capo  ha  riccio  '1  pelo 
Co'  piedi  e  mani,  ove  convien,  s'indui-e. 
Per  r  andar  scalzo,  e  maneggiar  bastoni, 
La  carne  in  calli,  e  'n  scarpe  de'  pedoni. 

XXIV 

Due  pelli  di  capretto  av^nnculate 
Per  piedi,  su  le  spalle  ha  per  vestm-a. 
Cogr  altii  pastorelli  songli  grate. 
Lotte,  bagordi,  e  giochi  di  ventura. 
Autunno,  primavera,  inverno,  estate. 
Non  mai  di  star  agiato  si  procura. 
S'  ha  fame,  ciò  eh'  incontra,  egli  tracanna, 
O  sia  ne'  boschi,  o  sia  nella  capanna. 

XXV 

Ghiande,  fraghe,  castagne,  cornie,  e  more. 
Pomi  selvaggi,  e  pere  si  manuca. 
Non  più  vi  guarda  il  meglio  che  '1  peggiore, 
Non  r  acetosa  piti  de  la  lattuca  : 
Beve  di  fonte,  o  fenno  o  comdore. 
Ne  cessa  ber  per  fango,  ovver  festuca  ; 
Ma  s'  anco  con  sua  madre  si  ritrova, 
Mangia  butirro,  pane,  cacio,  ed  ova. 

XXVI 

Or  Berta  in  questo  tempo  intende  e  spia, 
Eainer  esser  di  Sutri  al  reggimento  ; 
Cade  in  sospetto  grande  che  non  sia 
Da  lui  scoperta,  e  fa  comandamento 
Al  figlio  che  con  lei  queto  sen  stia, 
Ma  ben  più  tosto  avria  tenuto  il  vento 
In  un  rete,  che  mai  vietair  ad  Orlando, 
Che  non  vada,  o  ritomi  al   s»o  comando, 


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Oblandino  —  Capitolo  7  123 


xxvn 

Usanza  universale  tra'  citelli 
Era  di  Sutri,  come  far  si  sole, 
Con  sassi  guerreggiare,  poscia  eh'  elli 
Fusser  asciolti  da  Y  orribil  scole. 
Quelli  con  questi,  e  questi  con  tra  quelli, 
Ove  9  osciu'a  a  tante  pietre  il  sole. 
Clii  rompe,  chi  Y  ha  rotta,  o  gamba,  o  testa, 
E  sempre  più  San  Stefano  tempesta. 

xxvm 

Quivi  sovente  il  pover  Orlandino 
Mal  in  arnese  trovasi  fra  loro  ; 
Dinnanzi  li  altri  sempre  il  parvolino 
Le  pietre  fa  cantar  nel  ciel  sonoro  ; 
Ed  è  cagion  sol  esso  col  polvino 
Turbar  le  stelle,  mentre  di  coloro 
Parte  sgomenta,  rompe,  caccia,  e  dalli, 
Parte  con  gridi  ai-guti  dietro  valli. 

XXIX 

E  come  awien  al  ti-oppo  baldanzoso, 
Rotta  la  testa  spesso  ne  riporta  ; 
Ma  non  che  per  sì  poco  vien  ritroso  ; 
Cacciasi  avanti  a  sol  compagni  scorta, 
E  quanto  più  sia  tocco,  più  sdegnoso, 
Di  pietre  e  sassi  un  turbine  sopporta. 
Sì  che  alla  grotta  toinfia  poi  la  sera 
Tutto  dirotto,  e  Berta  si  dispera. 

XXX 

Spesso  gli  parla  e  dice  :  figliuol  mio  ; 
Perchè  ti  fai  così  tutto  pestare  ? 
Lascia  le  pietre,  per  Y  amor  di  Dio, 
C'he  '1  viso  tuo  d'  un  diavolo  mi  pare. 
Volete,  madre  mia,  risponde,  eh'  io 
Mi  lasci  da  ciascuno  ingiuriare  ? 
Figliolo  di  puttana  ognun  mi  chiama, 
Ed  io  sopporterò  perder  la  fama? 


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124  OfiLAKDiNo  —  Capitolo  7 

XXXI 

Se  un  tale  oltraggio  fare  mi  permetto, 
Ch'  altro  nome  guadagno  che  bastardo  ?  * 

Ed  io,  madre  mia  cara,  vi  prometto 
Voler  mostrai',  che  non  pur  son  gagliardo, 
Ma  son  per  cavar  il  cor  dal  petto 
A  chi  del  vostro  onor  non  ha  riguardo  ; 
E  se  mai  torna  il  padre  mio  Milone, 
Dirolli  sul  bel  volto,  eh'  è  un  poltrone. 

xxxn 

Perchè  su  le  taverne  consumando 
Va  la  sostanzia  nostra,  e  non  lavora, 
E  noi  per  queste  selve  abbandonando. 
Il  chiaro  sangue  nostro  disonora. 
Ma  se  mai  grande  i  vegno  sì,  che  '1  brando 
Cinger  mi  poscia,  voglio  cacciar  fora 
Carlo  del  mondo,  non  che  d'  Anglià,  e  Franza, 
E  bever  tuttto  '1  sangue  di  Maganza. 

xxxm 

Si  che  lascia  pur,  madre,  che  'n  la  guerra 
Di  pugna  e  sassi  adoperar  mi  vaglia  ; 
Quanti  n'  abbraccio,  gittoli  per  terra, 
Non  li  valendo  ne  arte,  ne  scrimaglia. 
Ciascun  mi  chiama  Orlando  forie-guerra^ 
Perchè  non  è  eh'  in  gueiTCggiar  m'  avaglia  ; 
Sempre  davanti  gli  altri  salto  e  schivo 
Duo  mila  sassi,  e  pur  son  anco  vivo. 

XXXIV 

Poscia  chi  mi  dà  pane,  e  chi  del  vino. 
Chi  carne  cotta,  e  chi  bona  minestra; 
Talor  è  chi  mi  dà  qualche  soldino, 
Altri  die  a  far  la  pugna  m'  ammaestra, 
Dicendo  che  pararmi  col  mancino 
Braccio  mi  deggia,  e  dai-  con  la  man  destra, 
Tal  eh'  ad  ognuno  vien  di  me  paura, 
Cosa  eh'  esser  mi  penso  a  gran  ventura. 


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Oelandino  —  Capitolo  7  125 


XXXV 

Cotanto  ben  sa  V  Orlandino  dire, 
Che  di  dolcezza  Berta  ride,  e  piagne  ; 
Lascialo  dunque  a  suo  diletto  gire, 
Ch'  in  farsi  un  valentuomo  non  sparagne. 
Or  qui  Turpin  si  vien  a  divertire. 
Narrando  di  Milon  le  forze  magne. 
Che  Desiderio  ^ànse  con  grand'  arte, 
Cacciando  Longobardi  d'  ogni  parte. 

XXXVI 

Poi  scrive,  come  in  Cipro  giunto  Amone 
Con  le  reliquie  sue  di  Chiaramonte, 
Di  Beatrice  in  mezzo  d'  un  vallone 
Rinaldo  nacque,  le  cui  prove  conte 
Che  fece  nella  infanzia,  sol  espone 
AUor  che  '1  figlio  suo,  d'  Anglante  il  conte, 
Ebbe  condutto  fin  al  mar  Euxino 
A  star  col  suo  diletto  Rinaldino. 

xxxvri 

Ma  nauti  che  i  doi  fanti  assai  cresciuti 
Poscian  trovarsi  insieme  in  quelle  bande, 
Toma  il  dottore  a  scrivere  gli  arguti 
Consigli  d'  Orlandino,  e  il  senso  gi-ande  ; 
Lo  qual  un  giorno  co'  capelli  irsuti, 
E  con  la  gonna  che  d' intorno  spande 
Ben  mille  strazze,  mendicava  in  Sutri, 
Tanto  che  se  con  la  sua  madre  nutrì. 

xxxvm 

Ecco  s' incontra  in  un  bel  giovinetto, 
Figliuolo  di  Rainer,  dettò  Olivero, 
Lo  qual  turbossi,  ed  ebbe  a  gran  dispetto, 
Ch'  Orlando  1'  occupasse  in  su  '1  sentiero. 
Alza  la  mano,  e  diedegli  un  buffetto 
Su  r  occhio,  che  gli  venne  tutto  nero  ; 
Ed  in  quel  tempo  ancora  il  suo  ragazzo 
Piantóni  un  grosso  pugno  sul  mostazzo. 


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12€  Orlandino  —  Capitolo  7 


XXXIX 

5l^  Allor  Orlando  quel  dongello  prese, 

E  sotto  1  })iedi  tosto  si  lo  caccia, 
^  Ed  ancor  V  altro  afferra,  e  gifi  lo  stese 

"^  L'  un  sopra  1'  altro,  e  ammacca  lor  la  faccia. 

Corre  la  plebe  tutta  per  diffese 

ÌDel  figlio  del  signore  in  una  piaccia  ; 
Prest'  Orlandino  lascia  lor  in  teiTa, 
Corre  a  la  grotta,  e  dentro  vi  si  serra. 

XL 


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1^^ 


\ 


Berta,  che  d'  una  lepre  in  foggia  vive. 
La  qual  sempre  de'  cani  sente,  o  pare 
Sentir  le  voci,  e  pensa  ove  lor  schive, 
E  vede  il  leporin  a  se  scampare. 
La  faccia  di  pallor  tutta  si  scrive, 
Gridando  al  figlio  :  chi  ti  fa  trottare  ? 
Dimmi,  cavai  balzano  :  e  donde  fuggi  ? 
Perchè,  figliuol  sfrenato,  mi  distruggi  ? 

XLI 

Qual  occhio  ò  quello,  e  nmso,  che  riporti 
Livido  sì,  elle  panni  un  saraceno  ? 
Rispose  Orlando  :  voi  tu  die  sopporti 
Le  bastonate  altrui  ne  pifi  ne  meno 
S' im  mastin  fussi  ?  tanti  e  tanti  toi-ti 
Ognor  fatti  mi  sono,  e  nondimeno 
Soffersi  lor,  se  non  testò,  e'  ho  franto 
Lo  figlio  del  signore  tutto  quanto. 

XLH 

Le  botte  mai  non  son  per  comportare  ; 
Delle  parole  pur  me  'npasserei  ; 
Trovo  distanzia  assai  dal  dir  al  fare, 
Non  siamo  ne  anche  turchi,  ne  giudei. 
Sol  gli  asini  si  possono  bastonare. 
Se  una  tal  bestia  fossi,  patirei  ; 
Ma  son  un  uomo,  ed  uomo  esser  intendo  ; 
E  chi  dieci  men  dà,  vinti  ne  rendo. 


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Orlandino  —  Capitolo  7  127 


xLni 

Voi  ne  darete,  chiama  lo  vangelo, 
Cento  per  uno,  e  così  far  debV  io  : 
E  a  chi  mi  rompe,  o  a  chi  mi  torze  un  pelo, 
Il  collo  torzo  (92),  a  lui  come  voi  Dio. 
E  se  de  le  scritture,  anzi  del  cielo,  j 

Si  mette  a  interpretar  il  senso  pio,  j 

Ogni  frate  scapocchia  ed  ignorante,  | 

Anch'  io  poterlo  far,  io  son  bastante.  | 

XLIV 

Parla  la  madre  :  deh,  figliuol,  non  sai 
Che  '1  pesce  grande,  mangia  il  pargoletto  ? 
Non  gir  in  Sutri,  che  se  n'  anderai. 
Ti  piglieranno  i  zaffi  (93),  ti  prometto  ; 
Mi  piglieranno  ?  disse  Orlanda  :  guai 
A  qualunque  verammi  a  far  dispetto  ; 
Che  se  d'  un  papa  fusse  ben  bastardo, 
Io  gli  farò  parer  il  fuggir  tardo. 

XLV 

Ma  datti  pace  tu,  perchè  '1  demonio 
Già  non  6  brutto,  come  vien  dipinto  : 
Non  sol  d'  una  prigion  i  son  idonio 
Romper  le  mura,  ma  d'  un  laberinto  ; 
Ecco  su  r  occhio  io  porto  il  testimonio 
Che  '1  figlio  del  signor  mi  l'ebbe  tinto 
Col  ponderoso  pugno,  e  fu  '1  primero 
Che  mi  percosse,  ed  anco  il  suo  scudero. 

XLVI 

Così  r  altra  mattina  Y  animoso 
Dongello  dritto  corre  a  la  cittade  : 
Porta  il  bastone  duro  e  groppoloso, 
Col  qual  non  fuggirebbe  mille  spade  ; 
Scorre  e  traversa  senza  gir  nascoso 
Di  quk  (Ji  là,  per  tutte  le  conti-ade, 
E  chiama  in  alta  voce  :  o  gente  bona, 
Fatimi  ben,  se  Dio  non  v'  abbandona. 


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128  Orlandino  —  Capitolo  7 


XLvn 

Io  V  addiniando,  per  Y  amor  di  Dio, 
Un  pane  solo  ed  un  boccal  di  vino  ; 
Officio  non  tu  mai  più  santo  e  pio, 
Che  se  pascete  il  pò  ver  pellegi-ino  ; 
Se  non  me  'n  date,  vi  prometto  eh'  io, 
Quantunque  sia  di  membra  sì  piccino  ; 
Ne  prenderò  da  me  senza  riguardo  ; 
Che  salsa  non  vogF  io  di  san  Bernardo. 

xLvni 

Cancar  vi  mangia,  datemi  a  mangiare, 
Se  non,  vi  butterò  le  porte  giuso  ; 
Per  debolezza  sentomi  mancare 
E  le  budelle  vannomi  a  riffuso. 
Gente  devota,  e. voi  persone  care 
Che  vi  leccate  di  bon  rosto  il  muso. 
Mandatimi,  per  Dio,  qualclie  minestra, 
0  mi  la  trati  giù  da  la  finestra. 

xux 

Così  gridava  il  pover  Orlandino, 
Ed  or  li  prega,  ed  or  più  li  minaccia  : 
Ecco  gli  passa  innanzi  un  fra  stoppino, 
Ch'  avea  di  pane  un  sacco,  e  con  la  mazza 
Chiocca  nel  uscio  a  questo  e  quel  vicino, 
Ch'  anco  ne  voi  de  1'  altro  e  più  n'  abbrazza 
Ch'  egli  portar  non  può,  coni'  è  1'  usanza 
Di  chi  non  san  empirsi  mai  la  panza. 


Orlando  se  gli  accosta  col  bastone, 
E  dice  :  o  fra  Sguarnazza,  dammi  un  pane  : 
Questo  ti  vo'  pregar  per  il  cordone. 
Per  le  gallozze,  e  le  brettine  lane  (94)  : 
So  che  r  aspetto  tuo  d'  un  bel  poltrone. 
Più  presto  lo  darebbe  a  qualche  cane  ; 
Pur  fa,  come  ti  par,  eh'  in  ogni  modo 
Già  di  volerlo  qui,  piantato  ho  il  chiodo. 


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Orlandino  —  Capitolo  7  129 


U 

O  Gesù  Cristo,  disse,  suspirando 
Quel  frate  allor,  e  via  se  'n  va  di  trotto  ; 
Ma  più  d'  un  gatto  presto  il  zaffa  Orlando 
Per  la  gonella,  e  fel  mostrar  di  sotto  ; 
Che  del  suo  general  conti-a  '1  comando, 
La  sacca  non  avea  del  barilotto  ; 
Si  ben  quella  del  pane  in  colmo  piena, 
Talmente  eh'  egli  move  il  passo  appena. 

LH 

Sta  saldo,  disse  Orlando  ;  perchè  fuggi  ? 
Mi  fa  di  te  pietà,  che  sei  sì  carco  : 
Ola,  fermati  fi-ate  ;  che  ti  struggi 
Peggio  d'  un  asinelio  sotto  '1  carco. 
A  cui  dico,  poltron  ?  se  non  f  indaggi. 
Per  Dio,  ti  mosti'erò,  eh'  io  non  son  parco 
Di  bastonate,  come  tu  di  pane, 
Lo  qua!  tu  sei  per  dare  alle  puttane. 

LEI 

E  dett/>  ciò,  come  sboccato  alquanto. 
Che  putti  e  polli  imbrattano  la  casa, 
Scote  la  polve  col  baston  del  manto, 
Ch'  omai  poco  di  quella  vi  è  rimasa  : 
Perse  la  pazienza  il  padre  santo 
Che  '1  braccio  d'  Orlandino  gusta  e  annasa 
Esser  non  di  fanciullo  ma  di  Ettorre, 
Le  sacche  getta  in  terra  e  via  sen  corre. 

LIV 

Chi  cerca  V  orbo  ?  disse  allor  Orlando, 
E  preso  il  pane  fugge  vittorioso  ; 
Mai .  non  si  guarda  in  drieto,  ma  scampando 
Va  .più  che  può  di  qua,  di  là  nascoso. 
Al  tììn  giunse  alla  grotta,  e  Berta  quando 
Lo  yide  con  quel  carco  ponderoso, 
Priuia  si  dolse  pel  sudor  del  figlio  ; 
Poi  Visto  il  pane  vi  mutò  consiglio., 


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130  Orlandino  —  Capitolo  7 


LV 

Or  mangia,  madre  mia,  gagliardamente  ; 
Panerà  doloris  qni  t'  arreco  innanti  ; 
E  detto  ciò,  se  'n  leva  nn  grosso  al  dente, 
E  dopo  quello,  cinque  n'  ebbe  franti. 
Berta  se  'n  ride  solacievolmente 
Dicendo  :  figliuol  mio,  saran  bastanti 
Cotesti  pani  per  un  mese  intero. 
Voglio  mandarne  parte  al  monastero.^ 

LVI 

Verran  si  duri  e  sodi,  che  speciai-li 
Mistier  farà  T  incude  col  martello  : 
Più  tosto,  parla  Orlando,  vo'  eh'  i  tarli 
Lo  rodino,  che  darne  un  bocconcello 
A  frate  alcuno  :  fa  che  non  mi  parli 
Di  questo,  madre,  piti  ;  eh'  a  1  bel  bordello 
Ti  caciarei,  mi  vegna  la  giandussa  : 
Pasto  de'  frati  è  fava  con  la  gussa, 

Lvn 

Anzi  farai  tu  meglio  star  luntana, 
Se  non  ti  curi  crescer  in  famiglia  ; 
E  se  vengon  trovarti  ne  la  tana, 
La  stanga,  che  sta  dieti-o  all'  uscio,  piglia, 
E  su  le  schiene  assettagli  la  lana, 
Fa  ciò  che  '1  tuo  figliuolo  ti  consiglia  ; 
E  se  ti  voglion  predicar  la  fede. 
Dilli  che  '1  laico  più  del  frate  crede. 

Lvni 

i 

Così  parlando,  il  suo  baston  resumé, 
E  coiTe  alla  cittade  apertamente  : 
Ecco  li  zaffi,  com'  è  '1  suo  costume, 
In  fi-etta  1'  han  pigliato  immantinente  ; 
Tutto  legato  stretto  in  un  volume 
Portano  lui  di  peso  leggermente. 
Lo  qual  si  scote  per  spezzar  le  corde, 
E  a  chi  '1  porta,  spesso  il  collo  morde. 


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Oblandino  —  Capitolo  7  131 


LIX 

Or  finalmente  Y  han  condotto  innanze 
Al  padre  d'  Olivier,  signor  del  loco  ; 
E  questo,  disse,  quel  e'  Jia  tante  sanze  (95), 
E  teme  il  mio  valore  così  poco  ? 
Or  si  comprenda,  che  le  sue  possanze 
Son  come  neve  al  sole,  e  cera  al  foco, 
Ponetilo  giti  in  terra  :  dimmi,  frasca, 
Non  sai  ch'ai  fin  la  volpe  in  laccio  casca? 

LX 

La  forca  fugge,  e  tu  li  corri  drieto, 
Giotto,  (96)  cavestro,  e  ladroncel  che  sei  : 
Ancora  non  sei  lungo  com'  ho  '1  deto  (97), 
E  for  del  ciel  ti  credi  ti-ar  i  dei  ? 
Presontuoso,  ed  animale  inqueto. 
Che,  a  far  bona  giustizia,  ti  dovrei 
Dar  mille  sta,ffilate  a  più  non  posso. 
Che  '1  cui  di  sangue  avessi  negro  e  rosso. 

LXI 

Rispose  Orlando  :  perch'  io  son  legato, 
Tu  mi  chiami  cavestro  e  ladroncello  ? 
Se   delle  braccia  i'  fussi  liberato. 
Ti  mosti^erei,  che  sei  di  me  più  fello. 
Io   son  d' italiano  sangue  nato, 
E  la  mia  casa  Chiaramonte  appello. 
Mio  padre  vive  ancor,  ed  è  Milone, 
Centra  ragion  bandito  da  Carlone. 

Lxn 

Però  tu  parli  come  poco  saggio  ; 
Ne  sai,  chi  parla  troppo,  se  ne  pente  ; 
Tu  pensi  ad  un  furfante  dir  oltraggio, 
E  pur  lo  dici  a  Orlando  qui  presente  : 
Forse  non  sempre  avrai  questo  vantaggio, 
Se   '1  torto  che  mi  fai,  mio  padre  sente. 
Guardati  innanzi,  e  lasciami  eh'  io  vada. 
Che  forse  avrai  barbier  eh'  al  fin  ti  nida. 


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132  Orlandino  —  Capitolo  7 


Lxm 

S'  ho  rotto  ad  Olivier  tiio  figlio  il  naso. 
Esso  in'  ha  rotto  prima  V  occhio  e  '1  muso. 
Se  Nicolao  Delirans  (98)  e  Tommaso 
Scendesser  con  soi  libri  dal  ciel  giuso, 
A  darmi  torto  in  questo  nostro  caso, 
Io  gli  direi,  che  la  canocchia  e  il  fuso 
Sarebbe  meglio  stata  ne  lor  mani, 
Che  diffinir  di  Dio  li  sensi  arcani. 

LXIV 

Levatimi  da  torno  queste  corde, 
Se  non  le  romperò  sol  in  un  scosso  ; 
Ne  aver  al  detto  mio  Y  orecchie  sorde. 
Perchè  ti  veggio  la  ruina  addosso, 
Dico  Milon,  che  1  deto  già  si  morde 
Per  franger  il  tuo  corpo  d'  osso  in  osso, 
E  darte  a'  cani  te  con  la  tua  schiatta, 
Fin  che  su  la  radice  sia  disfatta. 

LXV 

Quando  Rainer  intende  d'  un  infante 
Minacce  che  porrian  spavento  in  cielo, 
E  che  si  vede  un  Miloncin  avante, 
Che  ben  lo  rassomiglia  al  occhio,  al  pelo, 
Cangiossi  tutto  quanto  nel  sembiante. 
Ne  potè  far  che  d'  amichevol  zelo 
Compunto  non  piangesse  il  caro  amico, 
Vedendo  il  figlio  suo  fatto  mendico. 

LXVI 

Presto  che  sia  slegato,  fa  comando. 
Ed  ubbedito  in  un  istante  venne. 
Un  capriolo  parve  allora  Orlando, 
Che  sciolto  già,  in  quel  loco  non  si  tenne. 
Ma  per  le  scale  giù  corre  saltando, 
S'  avesse  agli  alti  balzi  intorno  penne. 
Mille  cittelli  vannogli  da  tergo. 
Gridando  sempre  fin  al  proprio  albergo. 


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Orlandino  —  Capitolo  7  133 


Lxvn 

Ove  '1  cortese  damigello,  in  vece 
Di  bou  ministro  de  la  madre  chiesa, 
Del  pane  tolto  al  frate  dianzi  fece 
Prudentemente  una  pietosa  impresa  ; 
Dando  '1  a  que'  cittelli.  Più  mi  lece, 
Dicea,  porger  a  questi  la  diffesa 
Conti-a  r  orribil  fame,  che'  dar  pasto 
Ai  musici  d'  Arcadia  sotto  '1  basto. 

Lxvm 

Or  su  non  più  ;  che  d' ignoranzia  un  vaso 
Farmi  bandir  dal  ciel  par  si  premetta; 
E  perchè  di  cervello  non  men  raso 
Lo  veggio  che  di  testa,  in  mia  vendetta. 
Voglio  tacer,  che  non  mi  dia  del  naso 
Là  dove  spesso  mi  forbisce  e  netta, 
Liber  novarum  legum  qibem  de  fceno 
Quidam  composuerunt,  ventre  pieno. 

Lxrx 

Lasciarlo  dunque  star  in  sua  malora 
Che  non  urtasse  al  scoglio  d'  una  gobba, 
Grobba  che  al  vaso  eguale  di  Pandora, 
Contien  di  morbi  un  infinita  robba: 
Meglio  sarà,  che  Tunica  signora 
Mia  Caritunga,  zoppa,  sguerza,  e  gobba. 
Si  alzi  la  gonna,  e  mostri  a  lui  1'  eclipsi. 
Scrivendo  per  le  vie  :  quod  scripsi^  scripsi. 

LXX 

Scripsi  scribenda^  e  scriver  anco  voglio 
Finché  Grifalco  non  verrammi  stanco  ; 
Ruppi  mio  legno  in  fortunato  scogUo  ; 
Che  più  di  solcar  onde  omai  son  franco  ; 
E  se  r  inchiostro,  la  lucerna,  il  foglio, 
E  r  Orsattino  mio  non  fiami  manco  (96), 
Anzi  se  morte  non  mi  chiude  il  passo, 
Spero  di  lui  dirà  Cirra  e  Parnasso. 


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ìOrlandino 


COMINCIA 
L'  OTTAVO  CAPITOLO 


JLi    ISTORIA  del  beato  Grriffarosto  (99) 
Che  per  domenticanza  ne  la  penna 
Rimasta  mi  era,  or  la  mia  musa  tosto 
Di  lui  cantando,  carca  su  Y  antenna  ; 
Musa  che  accortamente  dal  proposto 
Cadendo,  mentre  dir  Orlando  accenna, 
Un  vento  par  che  dal  cuUno  vaso 
Minaccia  le  calcagna,  e  dà  nel  naso. 

n 

E  così  advenerammi  finalmente 
Quello  che  ad  un  pittor  di  villa  occorre, 
Ch'  un  santo  Giorgio  ai-mato  col  serpente 
Fingendo,  voi  sembrarlo  al  fort'  Ettorre  : 
Al  fin  si  scopre  un  mastro  cavadente, 
Che  tutte  le  città  pel  mondo  scorre 
S'  una  mulazza  vecchia  con  le  cure 
Da  guarir  piaghe,  e  mille  altre  rotture. 


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Orlandino  —  Capitolo  8  135 


m 

Io  dunque  d'  Orlandino  canto  poco, 
E  molto  piango  de  V  aitar  di  Cristo  ; 
Io  fingeiini  pitocco  movo  a  gioco, 
E  del  fallir  de'  chierici  m'  attristo  ; 
Di  for  Cerere  e  Bacco,  dentro  invoco 
Lo  mio  Gesù,  che  faccia  omai  sia  visto 
Sott'  ombra  spesso  del  nobil  vangelo 
Eegnar  Satan  d'  un  Cherubin  col  pelo. 

IV 

Fu  in  Sutri  un  gran  prelato  molto  grosso, 
0  fusse  abbate,  o  qualche  altro  vicaro  : 
Cascavali  la  panza  fin  da  basso, 
(  h'  un  porco  tal  non  vide  mai  Gennaro  ; 
Per  non  sleguarsi  andava  passo  passo 
Alla  taverna  spesso,  al  tempio  raro  ; 
E  questo  gli  accadeva,  perchè  sempre 
Jejwnium  prcedicabat  pieno  ventre. 


Rassimigliava  propriamente  un  bove 
Che  tolto  da  V  aratro,  e  in  stalla  chiuso, 
Convien  eh'  ivi  s' ingrasse,  e  si  rinnove. 
Per  uscir  poscia  d'  un  in  T  altro  buso  ; 
Tu  '1  vedi,  che  a  fatica  il  passo  move. 
Cascandogli  1  mentozzo  in  teira  giuso. 
Quando  vien  tratto  al  banco  del  beccaio, 
Venduto  a  quattro  libbre  per  denaio. 

VI 

Ma  quel  poltrone  manco  assai  valea 
D'  un  bove,  onde  guadagnasi  la  pelle. 
Quando  a  scarcar  il  ventre  si  sedea, 
Sentivasi  tonar  le  sue  budelle 
Con  quella  tempesta  che  vide  Enea 
Portato  su  da  lei  fin  alle  stelle  ; 
E  se  ambracane  e  muschio  fusse  stato. 
Oh  d' ambracane  e  muschio  gran  mercato  ! 


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196  Orw-ndino  —  Capitolo  8 

vn 

Mille  ducati  avea  costui  d'  entrata, 
Ch'  andavan  tutti  diìeto  per  1'  uscita, 
Dico  nel  cacatoio,  perchè  grata 
Fu  sempre  a  lui  di  crapular  la  vita. 
Carne  di  porco,  e  caole  con  V  agliata. 
Trippe,  pancette,  e  broda  ben  condita 
Di  sale  e  specie,  d' intestine,  e  lardo, 
Eran  il  suo  devoto  san  Bernardo. 

vm 

Non  così  tosto  qualche  bon  boccone 
In  piazza  conipai-ia  di  pesce,  o  carne. 
Che  1  padre  santo,  in  guisa  di  falcone. 
Lo  qual  giù  a  piombo  vien,  viste  le  stame, 
Davagli  d'  onge  tal,  che  le  persone 
Di  Sutri  non  potean  oncia  mangiarne, 
Mercè  che  '1  Griffo  tutti  li  rapia 
Sì  ratto,  come  il  ciel  rapitte  Elia, 

IX 

Cingevasi  di  sotto  al  scapularo, 
Ne  senza  questo  può  salvarsi  un  frate, 
Una  gaioflfa,  (100)  e  di  braghesse  un  paro, 
Che  sempre  fumo  il  suo  fidel  Acate. 
Ne  mai  gli  calse  d'  altro  secretaro, 
In  cui  le  cose  sue  fosser  corcate, 
Non  dico  breviari,  non  messaU, 
Nec  librum  de  peccato  oinginalL 


Ma  sempre  o  qualche  lonza,  o  scannatura, 
O  lombo,  o  testa,  o  petto  di  vitello  ; 
Poi  d'  altre  mille  cose  di  mistura 
In  quel  suo  gran  tascone  fea  rastello. 
Uova,  butirro,  lardo,  e  di  verdui-a 
Lattuche,  biete,  caole,  petrosello  ; 
E  così  carco  di  tal  libraria, 
Dicea  non  esser  altra  teologia. 


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Orlandino  —  Capitolo  8  137 


XI 

Era  bon  mastro  in  arte  coquinaria^ 
Avendo  in  questo  un'  ampia  biblioteca  ; 
Di  varie  lingue  multa  commentarla. 
Non  r  ai'abesca,  ebraica,  non  la  greca, 
Non  la  toscana  dico  temeraria, 
Che  a  grande  sua  superbia  oggi  s'  arreca 
Eguarsi  (101)  alla  romana,  e  tanto  sale 
Che  assai  Francesco  più  che  Tullio  vale. 

xn 

Ma  r  arciprete  santo  avea  di  lingue 
Sempre  di  porco  e  manzo  grande  copia  ; 
E  benché  il  lungo  studio,  il  qual  estingue 
Lo  ber  color,  e  fa  di  sangue  inopia, 
L'  avea  condotto  a  tal  eh'  un  ciatto  (102)  pingue 
Parea,  quando  di  ghiande  pieno  scopia, 
Pur  sempre  conservossi,  ogni  mattina 
Pigliando  un  buon  cappon  per  medicina, 

xm 

Or  dunque  Orlando  un  giorno  per  ventura 
Comprar  lo  vede  in  piazza  un  sturione, 
Intorno  a  cui  de  gente  gran  strettura 
Vi  era  per  tome  ognun  qualche  boccone  ; 
Ma  il  padre  santo  a  quella  criatura 
Ch'  ancor  viveva,  ebbe  compassione 
Di  non  veder  smembrarla,  e  così  integro 
Comprandolo,  si  parte  molto  allegro. 

XIV 

Cacciato  se  Y  avea  ne  la  bisacca, 
Ove  mill'  altre  cose  occulte  stanno  ; 
Vagli  Orlandino  drieto  con  la  sacca 
Da  bono  e  vigilante  saccomanno  ; 
Che  per  nudrir  sua  madre  non  si  stracca 
Far  ogni  giorno  a  qualche  ricco  danno  ; 
Piglialo  ascosamente  nella  toga. 
Siate  voi,  dice,  Y  Arcisinagoga  ? 


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138  Orlandino  —  Capitolo  8 


XV 

La  reverenzia  vostra  non  si  parta  ; 
Statemi  alquanto,  prego  ad  ascoltare. 
Nimis  sollicita  es^  o  Marta^  Marta, 
Circa  svhstantiam  Christi  devorare. 
Dammi,  poltron,  quel  pesce,  eh'  io  '1  disquarta 
Per  poterlo  in  communi  dispensare, 
Nassa  d'  anguille  che  tu  sei,  lurcone  ; 
E  ciò  dicendo,  dalli  col  bastone. 

XVI 

Non  ti  vergogni,  sacco  di  letame, 
Mangiar  sol  tu  quel  eh'  ad  un  popol  tocca  ! 
Non  sei  tu  causa  della  nostra  fame, 
Che  tutto  '1  mare  va  per  la  tua  bocca? 
E  pur  d'  un  scappuccin  sotto  '1  velame 
Tu  cerchi  fra  la  gente  vii  e  sciocca 
Mostrarti  santo,  e  dir  quod  in  tonsura 
Salvatur  tandem  omnis  creatura. 

xvn 

Ed  io  t'  annuncio,  quod  tonsura  molti 
Ha  ricondutto  al  lazzo  della  gola. 
Perchè  tondar  dinari  son  accolti 
Sotten-a  de'  ladroni  in  qualche  scola  ; 
Porcazzo  che  tu  sei,  e'  hai  quattro  volti, 
E  il  lardo  giù  dal  culo  sì  ti  scola, 
Or  come  soffri  poi  di  cai'ne  il  moto. 
Tu  che  di  castitade  hai  fatto  voto  ? 

xvm 

Lascia  quell'  infelice  creatura, 
C  hai  presa  per  vorarla  in  un  boccone  ; 
Dimmi,  li  santi  padri  tal  pastura 
Mangiaron  forse  ?  o  fecer  con  ragione 
Quel  si  ricerca  al  manto,  alla  tonsura, 
Al  fiocco,  al  scapolare,  ed  al  cordone  ? 
Falliron  elli  mai  lo  estemo  manto 
Col  viver  parassito,  e  finger  santo  ? 


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Orlandino  —  Capitolo  8  139 

XIX 

Cotai  parole  usava  un  dongelletto 
Centra  un  prelato  grave,  ed  attempato  ; 
E  gik  sì  pel  nibor,  si  perchè  astretto 
Era  di  comprar  legna  a  bon  mercato, 
Lasciagli  la  gaioffa,  e  dal  cospetto 
Del  volgo  ch^  ivi  corre,  si  è  celato  : 
Prende  Orlandin  quel  breviario,  e  scampa. 
Che  altro  non  fu  giammai  di  miglior  stampa. 

XX 

Vola  per  la  città  la  fama,  il  grido, 
Che  r  arciprete  ha  perso  V  instituta 
Con  altri  libri  posti  in  loco  fido 
D'  un  suo  camero,  andando  ad  un'  arguta 
Disputa  fatta  in  capite^  divido 
Sanguinem  Christi^  dove  si  confuta 
L'  error  de'  Stoici,  e  provasi  Epicuro 
Esser  in  domo  Dei  via  più  sicuro. 

XXI 

Rainer  similmente,  che  signore 
Stava  della  cittade  al  reggimento, 
Ode  che  '1  venerabil  monsignore 
Di  mal  di  gola  perso  avea  1'  unguento  ; 
Poi  de  la  vita  lui  tutto  '1  tenore 
Tiengli  narrato,  ed  ebbene  tormento  ; 
Perchè  di  Cristo  il  patrimonio  vede 
Sovente  in  man  di  eh'  oncia  in  Dio  non  crede. 

xxn 

r  non  mi  meraviglio,  disse  allora, 
Se  scandalo  i)atiscono  gli  agnelli, 
E  se  vanno  le  gregge  alla  malora 
Sotto  alcun  lupi,  di  pietà  rubelli  ; 
Ma  vogliovi  provveder  ora  ora  ; 
Tosto,  che  quel  priore  qui  s'  appelli. 
Al  cui  fiero  precetto  il  cavaliere, 
Con  la  sbirraglia  corse  al  monastero. 


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140  Orlandino  —  Capitolo  8 


xxm 

Tranno  quel  mostro  oiTendo  for  di  tana, 
E  r  han  condotto  di  Rainer  al  seggio  ; 
CoiTesi  per  mirar  la  bestia  strana, 
Cui  di  grossezza  un  bue  non  ha  pareggio  : 
Ciascun  si  stoppa  il  naso  alla  profana 
Puzza  di  vino,  di  sudore,  e  peggio  ; 
Chi  1  chiama  porco,  chi  Sileno,  e  Bacco, 
Chi  bottaglion,  chi  di  letame  un  sacco. 

XXIV 

Trativi  avanti,  disse  a  lui  Rainero, 
Uomo  di  Dio,  santissimo  profeta: 
Del  spirto  divin  ogni  mistero 
So  che  intendeti,  e  di  ciascun  pianeta. 
La  libei-tade  ancor,  eh'  ebbe  san  Fiero, 
Libertà  grande,  ma  poca  moneta  ; 
Trativi,  dico,  innanzi,  padre  santo, 
Che  d'  un  mio  caso  ho  da  parlarvi  alquanto. 

XXV 

So  che  sapete  ancora,  quanta  tripa 
Richiede  il  vostro  armario  di  brotagUe, 
Ove  più  carne  e  pesce  si  discipa, 
Che  non  han  frondi  tutte  le  boscaglie  : 
Ne  tanta  rena  in  lido  al  mar  si  stipa. 
Quanto  voi  consumate  tordi  o  quaglie  ; 
Però  vi  onoro  qui  ne  piti  ne  meno 
D'  un  animai  d'  urina  e  fezza  pieno. 

XXVI 

Non  hai  tu,  tripponazzo  alcun  rubore 
Scoprirti  agli  occhi  mai  d'  uomo  vivente  ? 
Parti,  eh'  eletto  sei  d'  esser  pastore 
De  la  greggia  di  Cristo  per  niente  ? 
Peggio  di  te  mai  Giuda  il  traditore 
Non  fé,  vendendo  il  mastro  suo  clemente  ; 
Ne  Caifa,  ne  Anna,  ne  Pilato,  Erode  ; 
Che  per  te  Pluto  di  tanf  alme  gode. 


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Orlandino  —  Capitolo  8 


141 


xxvn 

Parti  che  ei  Benedetti,  Antoni,  e  Favoli 
Dieder  cotali  avisi  ai  soi  soggetti  ? 
Mangiavan  cardi,  fabe,  lente,  e  cavoli 
Per  darli  assai  più  esempi  che  precetti, 
Acciò  schivar  sapesser  de'  diavoli 
Le  frode  tante,  e  riti  maledetti  : 
Donnivan  su  T  ai-ena,  e  freddi  marmi. 
Cantando  giorno  e  notte  i  santi  carmi. 

xxvm 

Stavan  occulti  ne'  lor  chiostri  e  queti, 
For  de  le  piazze,  e  dal  volgo  luntani  ; 
Benigni  a'  viandanti  e  mansueti. 
Lavando  i  piedi  lor,  non  che  le  mani  ; 
E  quando  uscir  volean  de'  spi  pareti 
Per  gir  altrove  per  montagne,  o  piani. 
Un  bastoncello,  o  sia  cavai  di  legno. 
Era  de  la  vecchiezza  lor  sostegno, 

XXIX 

Ma  quelle  sue  radici,  e  succo  d'  erbe, 
Son  oggidì  cangiati  in  tordi  e  stame  ; 
E  le  lor  giande,  more,  e  fraghe  acerbe 
Son  ora  per  miracol  fatte  carne  ; 
E  le  paglie  de'  letti  già  in  superbe 
Colti-ine  e  piume  ;  e  quelle  facce  scarne 
Pigliato  han  volti  grassi  di  tre  gole. 
Col  color  stesso,  quando  spunta  il  sole. 

XXX 

Lor  verghe  e  bastoncelli  per  miracoli 
Di  santi  d'  oggi,  sono  be'  destrieri  ; 
Le  celle  di  cannuzze  e  gli  cenacoli 
Pigliato  han  forma  de'  palazzi  alteri  ; 
E  molte  oggi  badìe  son  recettacoli 
Di  lorde  putte,  cani,  e  sparavieri. 
O  stolti,  pazzi,  sciocchi,  e  forsennati, 
Che  '1  vostro  aver  lasciati  a'  preti,  o  frati. 

lo 


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142  Orlandino  —  Capitolo  8 


XXXI 

Qual'  impietade  usar  si  può  maggiore, 
Glie  t^)r  a'  soi  la  facultà,  i)er  darla 
A  chi  con  le  campane  fan  rumore 
Di  notte,  e  poscia  in  chiesa  im  solo  parla? 
Dico  quelli  che  povertà  di  fore 
Mostran  al  volgo,  e  tendon  a  lodarla, 
Per  adescar  sott'  oml^ra  del  capuzzo 
La  scardovella  e  guadagnar  il  luzzo. 

XXXII 

Queste  parole  ed  altre  colme  d' ira, 
Dicea  Rainero  contra  ogni  ragione  ; 
Perche  (qualunque  nel  parlar  s'  adira, 
Convien  che  '1  sentimento  Y  abbandono  : 
Ma  spesso  accade,  eh'  un  signor  delira, 
Parlando  de  la  chiesa  a  passione. 
Parendo  lor,  e  pur  han  torto  grande, 
Pasto  de'  frati  esser  le  fave  o  giande. 

xxxm 

Eispose  allor  1'  abbate  :  alto  signore, 
Con  sopportazion  vi  parlo  schietto  ; 
Ecclesia  dei  non  facit  mai  errore. 
Non  so,  se'  in  Tullio  voi  l'avete  letto. 
Ed  Aristotel,  eh'  è  connnentatore 
Oggi  al  vangeh)  sol,  dice  hi  effetto: 
Qziod  merum  laictts  non  det  judicare, 
Clericam  preti  et  fratris  scapulare. 

XXXIV 

Ed  una  chiosa  canta,  quod  prelatum 
Non  est  sithjectus  ler/i  Constantina 
Affirmans  eo  qrtod  mdlum  peccatuia 
Accidit  in  persona  et  re  divina. 
Et  hoc  deinceps  fuit  rohoratnm 
In  capite  :  Ne  agi-o  a.  C/evientina, 
Et  jyrincepsy  qui  de  ecclesia  se  impazzabit, 
Scomunicatus  cito  pvhlicahit 


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Orlandino  —  Capitolo  8  143 


XXXV 

Ed  anco  Thomas  dice  alla  seconda 
Distinzione,  capitolo  Quo  di  sopra, 
Qitod  unde  spirtus  sanctus  si  profonda 
Possibile  non  est^  che  mal  si  scopra. 
Per  me,  signor  non  voglio  che  s  asconda 
Il  viver  mio  in  visti,  verho^  et  opra^ 
Quando  che  '1  salvatore  ci  ammaestra, 
Pai-landò  a  tutti,  luceat  lux  vestra. 

XXXVI 

Mirate  com'  io  porto  la  camisa 
Di  lana  su  la  carne,  e  non  di  tela  ; 
Cotal  cilicio  solamente  avisa, 
S' io  vada  con  mirabile  cautela  : 
Mirate  ancor  piìi  «otto.  Allor  la  risa 
Prese  Rainer  ;  che  1  padre  gli  revela 
Le  cose  sue,  cribrando  la  scrittura 
Meglio  del  cardinal  Bonaventura. 

xxxvn 

Rompelo  al  mezzo  del  sermone,  e  dice 
Vos  estis  docius  più  che  non  credea  ; 
Però  cesso  in  cusarvi  ;  che  non  lice 
Parlar  de'  santi  a  chi  è  de  gente  rea. 
Oh  dunque  sotto  1  ciel  sorte  felice 
Di  voi  prelati,  qui  sub  diva  a.'itrea 
Pitniri  non  potestis  d'  alcun  male  ; 
Che  '1  mal  e  ben,  in  voi  è  ben  eguale.     ■ 

xxxvni 

Ma  perchè  sete  un  spirito  de  vino, 
Qual  più  non  ebbe,  o  voglio  dir,  Platone, 
Cerco  saper  da  voi,  quant'  è  vicino 
Il  ciel  da  terra  in  ogni  regione. 
Dico  r  empireo  sopra  1  cristallino, 
Vostra  excellenzia  intenda  il  mio  sennone  : 
Oltra  di  questo,  dite  giustamente. 
Quanto  è  dal  Oriente  al  Occidente. 


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144  Orlandino  —  Capitolo  8 


xxxrx 

Due  cose  giunte  a  queste,  intender  anco 
Desidero,  monsignore  Griflfàrosto  : 
Dice,  piacendo  a  voi,  ne  più  ne  manco  : 
Quante  son  gozze  d'  acqua,  e'  ha  1'  angosto 
Mar  Adriano  insin  al  lido  fi-anco, 
Pigliando  il  greco  col  Tirreno  accosto. 
Ultimamente,  bon  servo  di  Dio, 
Vorrei  saper,  qual  or  è  il  pensier  mio. 

XL 

E  se  di  queste  quattro  dubitanze 
Mi  soglierete  presto  giustamente, 
Vinti  scodelle  di  busecche  e  panze 
Giuro  farvi  mangiar  incontinente. 
Ma  se  con  sillogismi  ed  altre  zanze 
Sofisticar  vorrete  la  mia  mente. 
Ne  rendeiini  ragion  che  sia  probabile. 
Vi  trattai'ò  da  un  asin  venerabile. 

XLI 

Tornate  al  monastero  ;  eh'  io  v'  assegno, 
Tutta  la  notte,  il  giorno  a  su  pensai-vi  ; 
Assottigliate  bene  il  vostro  ingegno, 
Se  '1  vi  cale  di  trippe  caricarvi  : 
E  non  urtar  le  spalle  in  qualchéNegno, 
Che  faccia  la  pugnata  smenticai-vi  ; 
Oltre  di  ciò,  se  non  la  indovinate, 
Voi  non  sarete  più  messer  lo  abbate. 

XLII 

Trasse  un  sospiro  tale  monsignore, 
Cli'  una  correggia  si  allentò  per  caso 
D'  un  cotal  bombo,  d'  un  cotal  odore, 
Ch'  altri  r  orecchia,  alti-i  s'  ottura  il  naso. 
Partesi  di  vergogna  con  dolore 
Pensando  pur,  se  in  Scotto  o  san  Tommaso 
Lo  coco  suo  trovar  sapesse  forse 
Quattro  dimande  stranamente  occorse. 


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Orlandino  —  Capitolo  8  146 


i 


XLm 

Nave  non  stette  mai  sì  sopra  porto, 
Come  correa  costui  sovi'a  pensiero  ; 
E  sei  si  vide  mai  volar  un  morto, 
Vedesi  allor,  benché  fusse  leggiero 
Ben  trenta  pesi,  e  men  lungo  che  corto, 
Finché  perveime  al  quondam  monastero. 
Entro  del  qual  par  anco  si  discema, 
FuUse  chwjsirum  quod  nunc  est  tabema. 

xuv 

Aveva  dunque  un  coco  non  men  grasso 
Di  se,  che  tutto  quanto  1'  assembrava  ; 
Trovalo  eh'  in  coquina  un  gran  conquasso 
Facea,  mentre  Y  agliata  vi  pestava  ; 
Ed  un  gobbetto  ancor  sedeva  basso 
Ch'  in  speto  un  mezzo  porco  rivoltava  ; 
Quando  1  coco  venir  appresso  il  vede, 
Non  creder  eh'  onorarlo  surga  in  piede. 

XLV 

Ma  gli  comanda,  che  1  scolato  lardo 
Tenda  buttar  sovente  su  lo  rosto  ; 
Ma  quello  che  nel  core  porta  il  dardo, 
Al  coco  audace  nulla  ebbe  risposto  ; 
Ma  solamente  diede  un  schivo  sguardo 
Alle  pignatte,  e  via  si  tolse  tosto, 
Entrando  in  un  suo  studio  e  fido  loco. 

Dove  seguillo  prestamente  il  coco. 

• 

XLVI 


Ne  Cosmo,  ne  Lorenzo  Fiorentino 
De*  Medici  mai  fece  libraria 
\      Simil  a  questa,  ove  '1  spirito  de  vino 
Tenea  libri  assai  di  teologia. 
Pendon  al  lato  destro  ed  al  mancino 
aso      j    Di  gl'eco,  corso,  e  varia  malvavsia, 
;    Barili,  fiaschi,  ed  altri  vasi  assai, 
Che  in  cotai  libri  studia  sempre  mai. 


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146  Orlandino  —  Capitolo  8 


V 


XLvn 

Lucaiiicbe,  salcizze,  e  mortadelle, 

Prosciutti,  lingue,  e  libri  di  più  sorte, 

Bronzi,  pignatte,  speti  con  padelle, 

Carneri,  sacchi,  ceste,  conche,  sporte. 

Piatti,  catini,  e  milF  altre  novelle, 

»*  Per  ordine  qui  tengon  la  sua  corte, 

\^  Fra'  quali  sempre  studia,  e  star  gli  giova  ; 

M;  Ch'  altro  diletto,  ch^  imparar,  non  trova. 

> 

:'  XLVm 

J  '  ^  Or  quivi  giunto,  ad  un  aitar  secreto 

Devotamente  piega  lo  ginocchio  ; 
E  con  caldi  sospiri  avanti  e  dreto 
Quinci  le  braghe,  quindi  exala  Y  occhio. 
Un  bacco  grasso,  rubicondo,  e  lieto, 
f  he  giace  sopra  un  strato  di  fenocchio, 
E  d' un  bottazzo  fassi  cavezzale. 
Era  di  santi  soi  lo  principale. 

XLIV 

Ne  altra  Pietade,  ne  altro  Crucifìsso 
Tien  su  1'  altare  a  far  orazione  ; 
Bacco  sol  è,  eh'  ad  un  parete  fisso 
Doi  cherubini  aiTCcasi  al  gallone, 
Cioè  '1  boccal  dal  vino,  e  quel  dal  pisso 
Che  quando  V  uno  piglia,  V  altro  pone  ; 
E  così  tutta  notte  il  padre  santo 
Ne  orina  un  fiasco,  e  beve  'n  altro  tanto. 


Entrando  il  coco,  a  lui  disse  :  volete 
Cenar,  o  monsignor  V  che  '1  rosto  è  cotto  : 
Ma  voi,  s' io  ben  contemplo  il  volto,  sete 
Sopra  voi  stesso,  e  d'  animo  con-otto. 
Forse,  patron,  vi  stimula  la  sete  ? 
Pigliate  un  poco  questo  barilotto  ; 
E  ciò  parlando^  spiccalo  dal  muro, 
Ch'  era  d'  un  tribiano  antico  e  puro. 


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Orlandino  —  Capitolo  8  147 

LI 

Prendalo  monsignore,  e  tienlo  fermo, 
Levandolo  con  ambe  mani  a  Bacco  : 
Pater,  dicea,  se  non  si  pò  far  schermo 
Di  porre  il  santo  calice  nel  sacco. 
Ecco  la  gola  pronta,  il  spirto  infermo  ; 
Se  tal  è  '1  tuo  voler,  de  lui  m'  attacco  : 
E  poscia  eh'  ebbe  orato  con  tremore. 
Bevendo  si  cangiò  tutto  in  sudore. 

LH 

Or  egli  dunque  confortato  alquanto, 
S'  asside  a  ragionar  ;  che  ^1  becco  è  mollo  : 
Marcolfo,  mi  dicea,  non  fu  mai  santo 
Pii\  martire  di  me,  ne  piti  satollo 
Di  tante  pene,  aftanni,  e  lungo  pianto. 
Di  rumper  mi  bisogna  pm*  il  collo. 
Se  tu,  mio  bene  solo,  e  mio  solaccio 
Non  t'  assottigli  a  trarmi  for  d' impaccio. 

Lm 

Mi  tengo  avei'  già  perso  la  Badia, 
Perchè  la  forza  incaga  a  la  ragione  ; 
E  sempre  usanza  fu  di  tnannia 
Cercar  or  quella,  or  questa  occasione 
Di  tanto  far,  che  suo  quel  d'  altri  sia. 
Senza  eh'  abbiasi  a  noi  compassione, 
A  noi  servi  di  Dio  ;  però  ti  prego, 
Aiutami,  che  sol  a  te  mi  piego. 

LIV 

E  qui  narrogli  angosciosamente 
Le  quattro  intricatissime  dimande  ; 
Rispondegli  Marcolfo  :  veramente 
Dubito,  monsignor,  che  le  vivando 
Nostre  sol  per  invidia  de  la  gente 
Al  fin  retorneranno  fabe  e  giande  ; 
0  magnvm  tihi  et  diincm  infortunium^ 
Qui  quidem  nunquam  noveris  jejunium  ! 


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148  Orlandino  —  Capitolo,  8 


LV 

Oimè,  disse  T  priore,  tu  m' uccidi 
Membrandomi  ciò,  e'  ho  sempre  temuto  : 
Tutti  son  lazzi,  (101)  e  par  che  ti  diffidi, 
Marcolfo  mio,  prestanui  qualche  aiuto  ; 
Trammi  di  man  di  questi  abbaticidi. 
Tiranni  maledetti,  e  fammi  scuto 
Contra  lor  fame,  e'  han  de'  miei  denari, 
Che  perderemo,  se  non  li  repari. 

LVI 

Lasciate  a  me  tal  cura,  disse  il  coco, 
Ch'  io  voglio  far  un  scorno  a  quel  Rainero  ; 
E  condurrò  le  fraude  a  cotal  gioco. 
Che  '1  storion  ritornerà  al  camero. 
Non  voglio  dimorar  piti  in  questo  loco, 
Or  or  mi  parto  for  del  monastero  ; 
Statene  allegro,  e  non  vi  date  pena, 
Gabrino  gobbo  vi  dark  da  cena. 

Lvn 

Partesi  dunque  mentie  che  V  abbate 
Parecchiasi  le  bolge  per  empire  ; 
E  mentre  si  ritrova  in  libertate, 
Subitamente  contesi  guarnire 
Le  vestimenta  dal  pati'on  usate  ; 
Poi  cautamente  s'  ebbe  a  dipai-tire  ; 
Lo  qual  sì  ben  ne'  gesti  V  imitava, 
Ch'  ognun  per  monsignor  V  appellava. 

Lvni 

Fra  tanto  V  arciprete  non  vaneggia, 
Anzi  pur  senza  affanno  sede  a  cena  ; 
Allentasi  dai  fianchi  la  coreggia  ; 
Che  r  epa  voi  sentirsi  colma  e  piena. 
Un  grande  ai-mento  e  smisurata  greggia 
Empisse  a  Y  anno  un  cotal  orco  a  pena  ; 
E  le  più  volte,  per  star  sano,  mentre 
Divora  sin  a  1'  ossa,  scarca  il  ventre. 


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Orlandino  —  Capitolo  8  149 


il 


1.^ 


—-= — -•—           -— =^-  —                                 .fi 

LIX  '                                          'M 

Ih 

Lo  gobbo  se  gli  arreca  un'  ampia  supa 
Di  brodo  grasso,  latesini,  e  panze  ; 
Or  quivi  tutto  il  mercator  si  occupa 
Empir  del  magazzen  tutte  le  stanze  ; 

Ne  attende  ad  altro  la  discreta  lupa,  j  j 
Se  non  che  al  servi tor  niente  avanze. 

Omnia  traham  post  wie,  dice  '1  vangelo,  J? 

Sempre  servoUo  in  questo  sin  un  pelo.  ■                                             ^f  i 

Lx  li; 

'  ''..* 

Eira  già  il  coco  giunto  al  gran  palazzo,  fu 

E  di  parlai-  col  signor  dimanda.  jt 

Incontinente  scendegli  un  ragazzo,  'i|  : 

Che  r  introduce  ratto  in  quella  banda,  ;;j  - 

Ove  dovea  cavarsi  for  d' impazzo  Jj 

D'è  la  diversa  ed  ardua  dimanda.  /l 

Quivi  trova  Rainer  con  molta  gente,  ;   I 

Che  a  man  il  prese  molto  allegramente.  :  J 


LXI 

Avete,  disse,  monsignor  mio  bono. 
Pensato  ben  su  le  richieste  nostre  ? 
Pensai,  rispose  il  coco  ;  e  quivi  sono 
Venuto,  acciò  eh'  al  popol  si  mostre 
Ch'  io  mei-to  esser  ornato  d'  altro  dono, 
Che  trangiotir  quelle  busecclie  vostre, 
f         Le  quali  oggi  voi  laici  giudicate 

Esser  il  studio  d' ogni  prete,  e  frate. 

Lxn 


E  pur,  se  non  in  tutto,  in  parte  almanco. 
Signor  mio  saggio,  v'  ingannate  certo  ; 
Perchè  voi  sempre  il  negro  dite  bianco, 
E  il  bianco  esser  il  negro  ab  inexperto  ; 
Non  date  orecchia,  prego,  al  volgo  manco 
I)'  ogni  giudicio  ruinoso,  incerto  : 
Or  che  farebbe,  s' intendesse  poi 
Esser  in  stalla  più  asini  che  boi? 


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150 


Orlandino  ^ —  Capitolo  8 


Lxm 

Ma  per  non  vi  parer  un  temerario, 
Volendo  qui  lodar  il  stato  nostro, 
Che  benché  morti  sian  Paolo  e  Macario, 
Pur  anco  stan  depinti  intomo  il  chiostro, 
Mi  volgo  ad  altro  dir  ;  che  necessario 
Mi  veggio  più  circa  V  enigma  vostro, 
Che  se  ne  Sfinge,  o  Edipo,  toma  in  terra, 
Possia  morir,  se  dramma  lo  dissen-a. 

LXIV 

Oggi  voi  mi  faceste  il  primo  assalto, 
Ch'  io  narri  quanto  '1  ciel  da  terra  dista, 
Presto  rispondo,  che  gli  è  sol  un  salto. 
Provando  1  senza  il  probo  del  scotista  : 
Lo  diavolo  cascando  giJi  giù  d'  alto, 
Quando  privoUo  Di?Kde  l'alma  vistai. 
Senza  di  tanti  astrologhi^ la  cura, 
Vi  tolse  giustamente  la  ntisura. 


LXV 


opsta 


•o. 


poi 


sta 


Meravigliossi  al  ottima  rii 
D'un  capo  di  lasagne  il  prò  Ra'S 
Alla  seconda,  disse,  senza  sosta;       , 
Che  perder  la  Badia  qui  fa  mistero. 
Risponde  il  coco:  e  questa  anco  ri 
Tenemo  e  risoluta  nel  cantero  ; 
Perchè  dal  Oriente  al  Occidente 
Una  giornata  fa,  se  '1  sol  non  mente 

LXVI 

Quanto  alla  terza  ambigua  dimanda, 
Ch'è  di  saper  quaiit' acque  sian  in  mare, 
Rispondo,  che  se  ai  fiumi  si  comanda, 
Con  lui  non  debban  V  onde  sue  meschiare. 
Voglio  ch'in  polve  il  corpo  mio  si  spanda 
Se,  quante  gozze  son,  non  so  contare; 
Perchè  come  potrei  torvi  misura, 
Senza  levai-  de'  fiumi  la  mistura? 


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Orlandino  —  Capitolo  8  151 


Lxvn 

Or  tacito  Rainer  per  meraviglia 
Parca  co'  circostanti  esser  di  legno  : 
Stringe  la  bocca,  e  caccia  su  le  ciglia, 
E  già  vagli  fallito  il  suo  dissegno. 
La  vostra  signoria  se  meraviglia, 
Parla  Marcolfo,  un  poco  aver  ingegno, 
E  questo  accade,  perchè  v'  ingannate, 
Pensando  quel  eh'  è  coco,  esser  V  abbate. 

Lxvni 

Ed  ecco  vi  risolvo  qui  la  quarta 
Richiesta,  eh'  era  a  dir  il  pensier  vostro  : 
Quesf  ultima  che  più  dolosa  ed  arta 
Credeste,  or  la  pii\  facile  vi  mostro  : 
Ciascun  de  voi,  signori,  non  si  parta, 
Finché  chiaro  v'  appaia  il  stato  nostro  : 
Voi  dico,  immaginate  senza  gioco, 
Ch'  io  sia  '1  priore,  e  so  eh'  io  son  il  coco. 

LXIX 

Mii-ati  dunque  a  quello  che  pensate, 
L'  enigma  vostro  liquefatto  giace. 
Rainer  confuso  disse  :  in  veritate 
Che  più  schiiuni-pignatte,  non  mi  piace  ; 
Anzi  sarai  tu  solamente  abbate. 
Queir  altro  sarà  il  coco,  diasi  pace  ; 
E  cosi  senza  indugio  al  suo  precetto 
Un  cambio  tal  mandato  fu  ad  effetto. 

LXX 

\  Veggi  or,  dicea,  che  non  secondo  il  merito 

Vien  dispensato  il  ben  ecclesiastico, 
l       Per  cui  Lorenzo  un  sì  crudel  interito 
\     Ebbe  col  suo,  non  col  corpo  fantastico  ; 
le.  Onde  de'  mali  chierci  per  demerito 

[l;i        i.  Difficilmente  il  duro  freno  mastico 
\  A  creder,  che  con  Y  arte  aristotelica 
iSi  debba  predicare  1'  evangelica. 


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152  Orlandino  —  Capitolo  8 


LXXI 

Cotai  parole  un  vescovo  presente 
Avendo  a  sdegno,  e  eh'  un  soldato  ignaro 
Del  stato  ecclesiastico  clemente 
Fusse  così  mordace  e  temeraro, 
Che  lo  biasmasse  fra  cotanta  gente 
Per  colpa  sol  del  nuovo  coquinaro, 
Disse,  signor,  s' io  son  peripatetico, 
Piti  vaglio  almen  d' un  borgognon  eretico. 

Lxxn 

Cosi  parlando,  il  volto  che  fii  rosso 
Prima  di  vino,  venne  bianco  d' ira. 
Rainer  si  volse  a  lui  tutto  commosso, 
E  quasi  di  vagina  il  stocco  tira. 
Lo  vescovo  temendo  si  è  rimosso 
Dal  vento,  eh'  en  suo  danno  pronto  mira  ; 
Volse  partirsi  :  ma  Rainer  al  core 
Tornato,  disse  :  or  stati,  monsignore. 

Lxxm 

Eretico  non  son,  come  in  presenza 
Del  popol  mi  chiamate  in  mia  vergogna: 
Ma  forse  1'  alta  vostra  reverenza 
Mi  crede  esser  un  bravo  di  Sansogna, 
Lo  qual  a  Roma  faccia  violenza  ; 
E  pur  ella  fallisce,  che  Borgogna 
Men  crede  ed  al  tedesco  ed  al  ispano, 
Ed  al  francese  vesco  eh'  al  romano. 

LXXIV 

Ben  meglio  credo  in  V  alta  Trinitade, 
Padre,  Figliolo,  e  insieme  Spirto  santo  ; 
E  credo  di  Maria  l' integritade, 
Poi  che  di  carne  in  lei  Dio  prese  il  manto  ; 
Credo  ne  la  mirabil  potestade 
Da  Dio  concessa  all'  uomo,  per  cui  vanto 
Darsi  egli  pò,  se  fusse  ben  nefario. 
Non  esser  Dio,  ma  sol  di  Dio  vicario. 


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Oblandino  —  Capitolo  8  153 


LXXV 

Credo  che  '1  ben  Gesù  facesse  prima 
Quello,  che  venne  predicar  in  terra  : 
Credo  eh'  el  suo  coltello  in  ogni  clima 
Venesse  pone  al  mondo  pace,  e  gueri-a: 
Credo  che  d'  un  rubaldo  una  lagrima 
Dal  cor,  lo  inferno  chiude  e  il  ciel  disserra  : 
Credo,  che  del  vangelo  il  saldo  piede 
Alti'o  non  sia,  salvo  la  mera  fede. 

LXXVI 

Credo  eh'  egli  perfettamente  bello 
Portassi  barba,  e  gran  capellatura  : 
Credo  che  '1  sparso  sangue  del  jignello- 
In  croce  terminasse  ogni  figura, 
Donde  cred'  io  eh'  uguali  ad  un  pennello 
Sian  quei  da'  crini,  e  quei  da  la  tonsura  :  !i 

Ben  credo,  che  sol  chierici  fusser  quelli. 
Che  sempre  eran  al  opre  sue  rubelli.  ! 

Lxxvn    .  1 

Cred'  anco,  che  ad  istanzia  d'  un  malegno  j 

Pontifice  del  anno  (102),  e  farisei, 
Pilato  r  inchiodasse  al  crudo  legmo 
Con  t.anto  scorno  fra  doi  ladri  rei. 
Io  credo  eh'  ivi  a  noi  lasciasse  nn  pegno, 

Ed  una  tal  memoria,  che  per  lei  f 

Si  conoscesse  a  noi  placato  il  cielo,  J 

Levando  giù  dagli  occhi  a  Moise  il  velo.  : 

LXXVIII 

Pai-lo  de  la  sua  cruda  passione 
E  del  mirabil  dono  di  sua  carne, 
La  qual  mangiando  tutte  le  persone, 
Lascian  l' antiqui  coturnici  e  starne. 
Credo  che  '1  bon  Gesù  per  guiderdone 
Non  voglia  torti  colli,  e  facce  scarne, 
Ma  sol  il  cor  ;  e  così  tengo  e  creggio  ; 
Se  questo  è  mal,  non  parlo,  ma  vaneggio. 


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154  Orlandino  —  Capitolo  8 


LXXIX 

Credo  che  sia  V  inferno,  e  purgatorio 
In  r  altro  mondo,  e  in  questo  il  provo  ancora  ; 
Onde  con  Paolo  apostolo  mi  glorio 
Esser  d'  acerbi  casi  ti'atto  fora, 
Non  già  col  mio,  ma  sol  col  suo  adiutorio. 
Lo  qual  grida  con  voce  alta  e  sonora, 
Pericoli  nei  monti  e  tempestati, 
Pericoli  nel  mar,  e  falsi  frati. 

LXXX 

Credo  veder  in  carne  il  Salvatore, 
E  spero  gioir  sempre  di  sua  vista. 
Creder  -di  questo  più  non  ho  valore, 
Aiutami  tu,  vescovo  albertista 
Col  figlio  di  Nicomaco,  dottore 
Oggi  allegato  in  chiesa  dal  Tomista, 
Senza  la  metafisica  del  quale 
Quel  primitm  verbum  Dei  starebbe  male. 

LXXXl 

Credo  che  un  laico  peccator  si  mende  ; 
Un  chierico  non  mai,  tal  è,  che  '1  mosti-a, 
Dico  li  rei  ;  fors'  è  che  non  m' intende, 
E  in  domo  Dei  già  invitami  alla  giostra. 
Pian,  piano,  prego  ;  che  qui  non  si  vende, 
Boni  servi  di  Dio,  la  fama  vostra  ; 
Anzi  vi  onoro,  come  grati  a  Dio, 
E  cangierei  col  vostro  \  esser  mio. 

Lxxxn 

Non  dico  il  scapuccino,  non  la  soga, 
Non  le  gallozze,  lo  coculo,  il  fioco  : 
So  ben,  che  superstizia  non  v'  affoga 
In  creder,  che  pietade  vi  aggia  loco. 
Protesto  a  tutti,  che  non  si  deroga 
A  onor  di  frate  alcuno  sin  al  coco  ; 
Ma  sol  mi  volgo  ai  lupi  e  mercenari, 
Larghi  nel  comandar,  nel  far  avari. 


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Orlandino  —  Capitolo  8  155 


Lxxxm 

AUor  il  vesco,  che  per  bono  zelo 
In  soccorso  di  GrifFarosto  venne, 
Cotal  bestemmie  sotto  1  bianco  pelo 
Di  santa  e  dritta  fede  non  sostenne  ; 
Sgombra  la  sala  presto,  e  spiega  il  velo 
Di  collera  nel  mar  su  V  alte  antenne. 
Rainer  sen  ride,  e  spesso  a  dieti-o  il  chiama, 
Dicendo  :  così  fogge,  chi  non  ama. 

LXXXIV 

Lo  mercenario  vede  il  lupo,  e  scampa. 
Perchè  non  gli  pertene  del  amiento  : 
Poi  volto  a  gli  altri,  disse  :  di  tal  stiimpa 
Son  tutti,  che  non  stan  femii  al  cimento, 
Dovendosi  ammoi-tar  qual  eh'  ampia  vamj)a 
D'eretici,  perchè  col  argomento 
Sol  d' Aristotil  vpgliono  provare. 
Quel  che  con  Paolo  devono  salvare. 

LXXXV 

Sincera,  pura,  monda,  senza  macchia. 
Quantunque  esser  la  fede  nostra  deggia. 
Nulla  dimanco  un  sol  eiTor  anmiacchia 
La  mente  mia  che  forse  non  vaneggia. 
Non  men  (5redo  al  garrir  d'  una  cornacchia, 
Che  al  predicar  .d'  un  frate,  il  qual  dardeggia 
Da'  pulpiti  chimere,  sogni,  e  folle, 
Che  ne  Gesù,  ne  Paolo  mai  pensolle. 

LXXXVI 

Qui  naiTa  poi  Y  autore,  che  Milone 
Di  mezza  notte  gionse  armato  in  sella  ; 
Narra  Y  amore,  e  gran  compassione 
Ch'  ebbe  a  la  moglie,  e  come  poi  s'  abbella. 
Trovando  un  figlio  in  quella  vii  magione, 
Che  scorre,  guizza,  iubila,  saltella, 
Vedendo  il  padi-e,  che  menai-lo  via 
Quindi  promette,  e  già  prendon  la  via. 


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156 


Orlandino  —  Capitolo  8 


Lxxxvn 

Narra  lo  gran  viaggio  al  mar  Euxino, 
Ove  trovò,  eh'  Amone  suo  fratello 
Scampando  dal  figliolo  di  Pipino, 
Condotti  avea  d'  annati  un  gran  drappello  ; 
Ed  ha  con  seco  il  forte  Rinaldino, 
U  un  angioletto  più  vivace  e  bello, 
Il  qual  con  Orlandin  s  accosta,  e  'nsieme 
Fan  prova  di  sua  forza  molto  estreme. 

Lxxxvni 

Amon  quivi  Costanza  la  Regina 
Ingravidò  del  gran  Guidon  selvaggio  : 
Quivi  narrò  poi  cena  la  ruina 
Di  Chiaramonte,  il  foco,  e  '1  già  dannaggi<3- 
Di  Beatrice  ancora  la  rapina, 
La  morte  di  Rampallo  tanto  saggio  ; 
E  così  Amon  quel  caso  lor  sponea. 
Come  di  Troja  fece  il  grand'  Enea. 


Onde  se  mai  sarh.  chi  scriver  voglia 
Diffusamente  questo  mio  compendio, 
Jl  libro  di  Virgilio  avanti  teglia, 
Ove  si  narra  quel  troian  incendio. 
Ho  di  mangiai-  che  di  cantar  più  voglia, 
Però,  signori,  date  il  mio  stipendio, 
Il  qual  sai-à  di  laude  un  sacco  pieno. 
Ed  io  non  mangio  laude,  quando  ceno. 

LXXXX 

Ben  dirvi  ancor  potrei,  come  Agolantc 
Prese  tutta  la  Europa,  ed  in  Parigi 
Di  Franza  incoronò  lo  re  Barbante, 
Drizzando  Macometto  in  san  Dionigi  ; 
La  presa  di  re  Cai-lo,  e  come  Atlante 
Tolse  for  de  le  cune  Malagigi  ; 
E  come  lo  condusse  in  certe  grotte, 
E  qui  r  ammaestrava  giorno  e  notte. 


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Orlandino  —  Capitolo  8  157 


LXXXXI 

E  come  in  Roma  il  giovenetto  Almonte 
Entrò  col  gran  trionfo  di  vittoria  ; 
E  come  ne  per  piano,  ne  per  monte 
Non  era  più  di  Cristian  memoria. 
Potrei  poscia  tornare  a  Chiai-amonte, 
Che,  come  di  Tm-pin  scrive  V  istoria, 
Dieci  anni  andò  per  V  Asia  vagabondo 
Cercando  in  mar,  in  terra,  tutto  '1  mondo. 

LXXXXII 

Potrei  scrìver,  eh'  Orlando  fatto  grande 
Con  suo  cugin  Rinaldo  armati  insieme 
Si  ritornano  d'  Asia  in  queste  bande. 
Ove  con  forze  smisurate  estreme 
Opraron  sì,  che  le  genti  nefande 
Di  Macometto  e  paganesco  seme, 
Cacciaro  virilmente,  e  come  al  fonte 
Questo  Mabrin,  queir  altro  ancise  Almonte. 

LXXXXIII 

Ma  voglio,  questa  impresa  sia  d'  aitimi  ; 
C  ho  detto  assai,  signori,  e  forse  troppo  : 
Date  perdon,  vi  prego,  se  pur  fui 
Di  andata  guercio  e  di  veduta  zoppo  : 
Puotesi  mal  per  luoghi  negri  e  bui 
Correr  di  lungo  senza  qualche  intoppo  ; 
Donde  ne  prego  Dio  che  mi  sovegna 
Ed  a  chi  mal  mi  voi,  cancar  gli  vegna. 


FLMSCE  V  ORLANDINO 
DI  LIMERNO  PITOCCO  DA  MANTOVA 


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158  Orlandino 


CARMEN  EJUSDEM  AUTORIS 

AD 

PAULUM    URSINUM 


Miraris  quod  amem,  puer  o  placidissime,  te,  cut 

Non  te,  sis  quamvis  membra  pusillus,  amem. 
Nonne  sub  exiguis  stat  vìrtus  plurima  gemmis, 

Ferculaque  exignum  reddit  odora  piper  ? 
Cerne  brevi  quantum  est  formicae  roboris  et  quam 

Muneris  in  modica  multiplicatm*  ape. 
Parvus  es  et  Paulus,  Rolandi  nomine  dignus, 

Rolandi  quoniam  robm-  et  aima  gens. 


Stampato  nel  Novembre  del  1888 


SEGUE  IL  CAOS 
DEL  MEDESIMO  AUTORE 


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Orlandino  159 


NOTE 


(1)  La  Bindoni  1550  ha  parlo  diy  forse  meglio. 

(2)  Scherza  poco  opportunamente  sulla  radice  Bò,  per  bue, 
(li  Boezio. 

(3)  La  Molinì  1775  e  la  Antonelli  1842,  con  evidente  alte- 
razione del  testo  hanno  :  Ma  te,  spirito  gentil,  qual  tu  ti  sia  — 
Ch'amor  ti  move. 

(4)  Sebbene  non  sia  italiana  conservo  gianda,  originale, 
anzicchè  mutarla  in  ghianda. 

(5)  Nello  sdegno  che  mostra  il  Folengo  in  queste  stanze, 
contro  colui,  che  l'ebbe  a  criticare  sebbene  dica  chi  sia,  ma 
che  appar  esser  toscano,  sta  la  ragione  del  poemetto  e  la 
spiegazione  del  esametro  del  frontespizio.  Mensibus  istud  opus 
iribus  indignatio  fedi, 

(6)  Cioè  sulla  Scandinavia. 

(7)  La  Molini  e  la  Antonelli  hanno  anche  questa  altra  ver- 
sione :  O  nove  o  dieci  versi  v'  incateno.  -^ 

(8)  La  Molini  ha  voluto  ingentilire  la  parola  lombarda  ori-  W^ 
ginale  in  vacherie.                                                                                                   '^j 

(9)  Anche  forharie  fu  italianizzata  dalla  Molini  e  dall' An- 
tonelli in  furbarie. 

(10)  La  Molini  e  la  Antonelli  mutono  cosi  questo  verso  : 
Yi  giugne  assai  perchè  sia  più  gioconda.  ^; 

(11)  Cambiano  anche  il  principio  di  questo  così  ;  Allo  spirto 
gentil 

(12)  Bataio  per  battaglio.  Il  gigante  Morgante  combatteva 
con  grosso  battaglio  di  campana, 

(13)  Franchi  Eroi  è  usato  dal  Folengo  in  senso  ironico  ; 
e  di  questa  ironia  ne  è  sparso  tutto  il  poemetto. 

(14)  La  Molini  e  la  Antonelli  questo  verso  l'hanno  così 
mutato:  Non  sia  che  ardisca  dirmi. 

(15)  Le  suddette  edizioni  hanno  :  Poscia. 

(16)  Vinti^  per  venti. 

(17)  La  Molini  ha:  Non  manco  di  costui  '1. 


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160  OrlandinOì —  Note 


i ^ ___„._„, 

J.  (18)  Commette   qui   il   Folengo   un   anacronismo   sali'  uso 

t  delle  bombarde  al  tempo  di   Carlo   Magno,  di   sicuro  non  per 

b  ignoranza. 

J  (19)  La  Molini  e  TAntonelli  malamente  traducono  per  sòi//"- 

S  fare,  la  parola  lombarda   hoffare^   che  proprianieute  significa 

I  ansare.  Ed  in  questo  stesso  senso  T  usa  al  principio  del  terzo 

f-  verso  della  seguente  stanza. 

%[  (20)  Nell'edizione  originale   si  legge   nevOy  le  altre  hanno 

ff  compresa  la  Dindoni,  hanno  neve,  che  non  può  stare.  Dall'altra 

\  ^  parte  non  so  quale  parola  vada  per  indicai'e  un  oggetto  nero 

f  al  pari  del  carbone  e  del  corvo. 

[  (21)  Questi  due  versi  sono  del  Petrarca  Sonetto  II. 

(22)  La  parola  punto  è  usata  qui  in  senso  astronomico. 

(23)  La  Molini  e  la   Antonelli   hanno  :  posso  io,  invece  di 
^  passione,  che  credo  sia  la  vera  lezione. 

:  (24)  Da  Cariti,  appellativo  delle  Grazie. 

r  (25)  Oy  :  in  dialetto  mantovano,  per  Oglio,  fiume. 

^  (26)  Nella  Maccheronica  IX  del  Baldo,  a  pag.  219  si  legge: 

Nonne  niagis  quisquani  contentai  ìiabere  pidocchios  —  Quam 
fieri  Baro  Francie?  e  più  avanti  è  detto  che  tutti  i  bastaci 
che  crescono  a  Roma  diventano  Baroni  di  Plancia. 

(27)  La  Molini  e  la   Antonelli   corressero   il   lombardismo 
uscisca  in  esca. 

(28)  La  Molini  e  la  Antonelli   hanno   mntato  questo  vei^so 
così  :  Finché  vi  resti  V  ultimo  vittore. 

(29)  Stora  voce  lombarda  pur  stuoia. 

(30)  La  Molini  e  la  Antonelli  cambiarono  il  lombardo  frette 
nell'italiano  trasse. 

(31)  La  Molini  e  la  Antonelli  hanno  alte  invece  di  ale. 

(32)  La  Molini  e  la  Antonelli  tradussero  il  harilla  in  bar- 
letta,  che  non  ha  senso. 

(33)  La  Molini  e  la  Antonelli  mutano  il  busche  in  buschi. 

(34)  sugando,  cioè  molestando. 

(35)  La  Molini  e  con  essa  T  Antonelli  mutano  cosi  questo 
verso  :  Nel  folto  dei  cavai  senza  spavento. 

(36)  Bottaglion,  baghe,  grossi  vasi   da  vino  usati  in  Lom- 
bardia, specialmente  nel  mantovano. 

(37)  Storpiatore  di  ingiurie  che  i  francesi  indirizzavano  agli 
italiani  ai  tempi  del  Folengo. 

(38)  Zecchi,  ceppi. 


^ 


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Orlandino  —  Note  161 

(39)  La  Sabbio  1526  ha  pidccareiy  che  di  sicuro  è  errato, 
e  che  perciò  io  corressi  in  piccarei,  lasciando  la  forma  di  lom- 
bardismo invece  di  appiccare^  come  hanno  giustamente  la 
Molini  e  la  Antonelli.  —  Di  sante  città  al  tondo  :  cioè  al  Co- 
losseo di  Roma,  dove  si  appendevano  i  voti  e  i  doni  dei  devoti. 

(40)  Cioè  :  Ubero.  Ai  tempi  in  cui  il  Folengo  scrisse  il  poe- 
metto tutta  r  Europa  era  commossa  dalla  riforma  di  Lutero, 
della  quale  uno  dei  punti  principali  era  il  libero  arbitrio  del- 
l' uomo,  accennato  qui  dal  poeta. 

(41)  La  Molini  e  l'Antonelli  hanno:  V  miro. 

(42)  Del  losquino,  il  celebre  maestro  della  capella  di  papa 
Leone  X,  il  Folengo  fa  un  grande  elogio  a  pagina  105  e  se- 
guenti, nella  Maccheronica  XX  del  Baldo  Voi.  II. 

(43)  Erasmo  di  Roterdam. 

(44)  Vinti:  per  venti. 

(45)  Del  Regno:  cioè  del  regno  di  Napoli. 
{AQ)  Deto:  per  dito. 

(47)  La  ragione  per  la  quale  il  Folengo  fa  fare  una  Augura 
infelice  ai  Novaresi,  Bergamaschi  e  Cremonesi,  trovasi  in  pa- 
recchi luoghi  del  Baldo,  nel  quale  pone  i  cittadini  di  questa 
città  sotto  aspetti  poco  favorevoli. 

(48)  La  Molini  e  la  Antonelli  leggono  :  Mistier  gli  fa  eh'  egli 
esca  dalla 

(49)  Slegua:  per  dilegua,  liquefa. 

(50)  Cinge:  per  cinghie. 

(51)  Ciamhra,  Qui,  come  altrove,  usa  il  Folengo  il  france- 
sismo ciambre,  da  chambre  per  ragioni  di  scherno  ai  francesi. 

(52)  Greggi:  per  credo. 

(53)  Invecchilo  fu  mutato  dalla  Molini  e  dalla  Antonelli  in 
invecchialo, 

(54)  L'  Antonelli  e  la  Molini  tradussero  il  tanta  commen- 
laria  e  perciò  hanno  :  tanti  commentarla. 

(55)  Gallone:  fianco. 

(56)  La  Molini  e  la  Antonelli,  mutano  il  m' aggraffio  del 
testo  in  nx'  agghiaccio, 

(57)  ImpergotaU  dal  mantovano  par  colà  che  significa  lar- 
dellare. 

{ò8)  Qui  come  altrove  le  parole  francesi,  o  francesi  italia- 
nizzate, sono  adoperate  in  senso  ironico  a  derisione  di  coloro 
M  partito  francese  che,  affettatamente,  parlando  le  usavano. 


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162  Orlandino  —  Note 


(59)  Questo  verso  va  inteso  in  doppio  senso. 

(60)  Languii:  strana  corrusione  di  liuto,  il  lentus.  che  il 
Folengo  usa  spesso  nella  Zanitonella. 

(61)  La  Molini  e  la  Antonelli  assai  infelicemente  mutano 
così  cotesto  verso  :    Come  se  'l  pescar  merda,  i  son  sboccalo. 

(62)  Provverbio  fatto  dal  .  detto  di  Orazio  :  Foemmi  hubet 
in  cornu  longe  fuge. 

(63)  Gian  Motone  altro  musico  celebre  al  tempo  del  Fo- 
lengo e  del  pari  ricordato  col  losquin  ed  altri  nella  Macchero- 
nica XX  pag.  106. 

(63  bis)  A  questo  verso  manca  una  sillaba,  che  la  Molini 
e  r  Antonelli  aggiungono  cambiando  il  tons  originale  in  tom^. 

(64)  Giovan  Maria  dal  Cornetto. 

(65)  Luigi  da  Bassano. 

(66)  Cimon  Galese  :  Vedi  Decamerone  del  Boccaccio. 

(67)  Lascio  prosegua  dell'  originale,  sebbene  non  concordi 
colla  rima. 

(60)  Dal  latino  moecus, 

(70)  Cipria  per  Ciprigna,  Venere. 

(71)  Strana  licenza  di  fare,  senza  necessità,  guida  maschile, 
amenocchè  non  V  abbia  tolto  dal  Francese  per  farne  un  espres- 
sione ironica. 

(72)  Prochi  0  proci,  in  senso  ridicolo. 

(73)  La  Molini  e  la  Antonelli  mutano  il  strige  originale  in 
streghe,  e  credo  a  ragione. 

(74)  Le  stesse  due  edizioni  correggono  l'errato  impiegalo 
che  trovasi  anche  in  altre  antiche  edizioni,  e  leggano:  im- 
piagato. 

(75)  La  Molini  e  la  Antonelli  mutano  il  mora,  ossia  negra, 
originale,  in  morta. 

(76)  Lascio  l'originale  costione,  che  è  parola  del  dialetto 
mantovano  per  quistione,  quale  mettono  la  Molini  e  T  Antonelli. 

(77)  Traiti  dal  francese  per  tradimenti. 

(78)  Veghii,  per  vegli. 

(79)  Siramenti.  Strano  accoppiamento  del  mantovano  stra, 
che  non  è  lo  slra  di  straordinario,  che  viene  da  extra,  ma 
parola  propria  e  originale,  che  significa  ripetizione  e  moltiplica- 
zione di  volte  e  di  quantità. 

(80)  Combiato  per  commiato,  come  hanno  la  Molini  e  la 
Antonelli. 


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Orlandino  —  Note  163 


(81)  Azzajo^  acciaio. 

(82)  Panno,  cioè  Pane. 

(83)  La  Molini  e  la  Antonelli,  per  non  so  quale  ragione, 
mutano  così  questi  due  versi  :  Transihat  lesus  per  un  gran 
villaggio  —  Con  Piero,  Andrea,  Giovanni  e  con  Taddeo. 

(84)  É  singolare  questo  verso  del  Folengo  che  corrisponde 
al  portato  della  scienza  sulla  radiazione  solare. 

(85)  La  Molini  e  la  Antonelli  leggono,  e  credo  meglio,  cosi 
questo  verso:  Come  suol  far  chi  a  taglia  è  posto  in  bando. 

(86)  La  Molini  e  la  Antonelli  hanno '/foc/^to. 

(87)  Anche  il  Folengo  accoglie  la  parola  della  origine  ba- 
starda francese  di  Casa  Gonzaga. 

(88)  Vedi  Baldo,  Maccheronica  VII,  pag.  101  e  seguenti, 
sotto  il  titolo  :  Gli  ordini  religiosi  del  secolo  XVI,  una  dipin- 
tura degli  stesi  abusi  e  delle  stese  arti  fatta  ben  più  lunga 
e  minuta. 

(89)  Allude  a  papa  Adriano  VI  che  era  fiammingo. 

(90)  Piccola  città  in  provincia  di  Viterbo. 

(91)  Si  intende  che  in  questo  racconto  non  si  può  preten- 
dere r  esattezza  storica,  perchè  non  è  che  una  fantasticheria 
del  Folengo. 

(92)  Torzo  per  torco. 

(93)  Chiama  zaffi  i  birri.  Nel  Baldo  usa  spesso  cotesto 
epiteto. 

(94)  Sono  indicati  i  colori  delle  tonache  dei  francescani, 
tanto  in  ugia  al  Folengo. 

(95)  Sanze  per  ciancie. 

(96)  Giotto  per  ghiotto. 

(97)  Deto  per  dito. 

(98)  Cioè  Nicola  de  Lire,  teologo  francese  del  secolo  XIII. 

(99)  Allude  al  giovinetto  Paolo  Orsini  del  quale  era  precet- 
tore, allorché  scrisse  l'Orlandino. 

(100)  Vedi  nella  prefazione  V  Apologia  del  Autore. 

(100  bis)  Gaioffa  parola  del  dialetto  bresciano,  che  significa 
saccoccia. 

(101)  Lazzi,  cioè  lacci. 

(102)  Cioè  il  pontefice  di  quell'anno,  poiché  i  pontefici 
degli  Ebrei  si  eleggevano  ogni  anno.  • 


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II. 

IL  CAOS 


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IL  CAOS 


DEL 


TRIPERUNO 


DISTI. 

Unus  adest  ti-iplici  mihi  nomine  vultus  in  orbe. 
Tres  dixere  Chaos:  numero  Deus  impai'e  gaudet, 


I^. 


GO. 


HEXA. 

Quse  nat  aquis,  coeloque;  interdum  attoUitur  ales, 
Vel  nat  amore  aquilae,  vel  -volat  icta  metu. 

Nam  quse  solis  adit,  velati  louis  ales,  acumen  ? 
Est  Fulicse  ut  Mintii  ludat  in  amne  sui. 

At,  si  illa  huc  humile  ad  stagnum  descenderit,  ales, 
Quae  nat  aquis,  aquilis  digna  erit  esca  suis. 


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DIALOGO 


DELLE  TRE  ETADI 


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il   rmm 


I  II  CAOS 


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DIALOGO 

DELLE     TRE     ETADI 


PAOLA  ATTEMPATA   —   CORONA  GIOVANE 
LIVIA   FANCIULLA. 

T  .  .    .         .  i 

Pag.    jL  u  piagni,  figliuola,  e  che  ti  senti  tu  ? 

Cor.  No  '1  sai,  madre,  senza  che  me  lo  chiedi  ? 

Pao.  Sei  sapessi  già  non  til  dimanderei. 

Liv.  Dicerotilo  io,    dapoi   che  le  molte   e  abondevoli  la-  i 

grime  t' interrompono  la  voce. 
Cor.  Taci  là  tu,  pazzerella,  che  pur  troppo  è  di  soperchio 

a  me  sola  questo  cordoglio,   senza  che  tu  v'involvi 

dentro  e  lei  ancora. 
Pao.  Non  siano   parole   tra  voi,   o   tu,  o  tu  me  lo  narri 

senza  più  indugio. 
Cor.  Piango  la  mala   sorte  di  mio  fratello  Teofilo,  a  te 

figliuolo. 
Pao.  è  forse  morto? 
Cor,  Sì  d'onore  e  reputazione. 

Pao.  Maledetto  sia  Y  uomo,  il  quale  disprezza  la  fama  sua. 
Cor.  Dio  pur  volesse,  che  la  vergogna  fiisse  di  lui  solo. 
Pao.  So  male  che  responderti,  non  t'intendendo  ancóra: 

dimmi  ha  commesso  qualche  adulterio  ? 
Cor,  Grrandissimo. 
Pao,  è  di  carne,  ma  in  che  modo  ? 


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A; 


V 


f 


Dialogo 


V  Cor.  Qual   trovasi   maggior   adulterio   essere,   che   de  lo 

V  ingegno  suo  pelegrino,  che  de  le  tante  jhii  grazie  dal 
'y               ,  ciel  donate,  usarne  male  ? 

S:  Pao.  Grande  ingi'atitudine  per  «certo,  «la  comincio  già  la 

^  causa  di  questo  tuo  rammarico  intendere:  ip  ^poema 

i>;  da  lui  composto  sotto  il  nome  di  Merlino  Cocaglio, 

f  •  ancora  non  ti  si  parte  dal  cuore  ? 

Cor.  Anzi  ognor  più  me  lo  parte  e  straccia. 

Pao.  Deh  !  stolta,  tu  f  affanni  oltra  quello,  che  a  te  non 
tocca. 

Cor.  Più  d'  ogni  altro  mi  tocca,  che  più  d' ogn'  altra  son 
certa  ohe  T  amo. 

Pao.  Più  di  me  ? 

Cor.  Più  di  te. 

Pao.  Di  me,  eh'  io  gli  son  madre  ? 

Cor.  e  io  doppia  sorella. 

Pao.  Non  1'  ami  tu  già  dunque  se  doppia  gli  sei. 

Cor.  La  causa? 

Pao.  Tant'  è  dir  doppio  quanto  falso. 

Cor.  Or  su,  non  mottegiamo  prego. 
I  Pao.  In  che  modo  gli  sei  dunque  doppia  sorocchia? 

Cor.  Carnale  e  spirituale. 

Pao.  Carnale  sibene,  spirituale  non  più  già. 

Cor.  La  cagione  ? 

Pao.  S'  ha  gittato  il  basto  da  dosso  V  asinelio. 

Cor.  e  rottosi  '1  capestro  ? 

Liv.  E  tratto  di  calzi. 

Pao.  Or  cangiamo  cotesto  ragionamento  in  alti'o.   Hai  tu 
letto  r  Orlandino  ? 

Cor.  Letto  ?  trista  me,  appena  veduto. 

Pao.  Come  ?  ti  vien  interdetto  forse,  che  da  te,  con  l'altre 
tue  sorelle,  non  si  poscia  leggere  ? 

Cor.  Si. 

Pao.  Chi  fu  questo  pontifice  ? 
^ ^  Cor.  La  ragione. 

Pao.  Perchè  così  la  ragione  ? 

Cor.  La  quale  m'  avisava  dover  essere  peggior  Limemo 
che  Merlino  (1). 

(1)  Cioè,  che  r  Orlandino  composto  sotto  il  pseudonimo  di  limerno 
sia  peggiore  delle  altre  composizioni,  come  il  Baldo  e  la  Zanitonella,  che 
vanno  sotto  il  nome  di  Merlino. 


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Le  tre  etadi 


Pao.  Leggerlo  almeno  voi  dovevati. 

Cor.  a  che  perder  il  tempo  ? 

Pao.  Taci,  che  d'  ogni  libro  qualche  cosa  s' impara. 

Cor.  Questo  è  falso.  • 

Pao.  e  sentenzia  di  Plinio. 

Cor.  Vada  con  le  altre  sue  menzogne. 

Pao.  Negarai  tu,  che  d' ogni  libro  non  s' impari  qual- 
che cosa? 

Cor.  Anzi  più  de  li  tristi  e  disonesti,  che  de  li  boni. 

Pao,  Or  basta  :  non  sai,  eh'  en  doi  mesi,  e  non  più,  sotto 
il  titolo  di  Limemo  (1)  l'ha  composto? 

Cor.  e  viemmi  detto  che  tutto  a  un  tempo,  che  lo  com- 
poneva, eragli  rubato  da  gli  impressori  (2). 

Pao.  Cotesto  è  più  che  vero  :  che  ove  interviene  stimulo 
di  sdegno  (3),  spizziano  vei-si  senza  alcun  ritegno. 

CoR;  Potrebbe  forse  pentirsene,  credilo  a  me. 

Pao.  Di  che? 

Cor.  Dir  tanto  male. 

Pao.  Anzi  solamente  si  dole,  che  non  pur  Merlino,  ma 
Limemo  compose  così  precipitosamente,  che  li  stam- 
patori non  poteano  supplire  a  Y  abondanzia  e  copia 
de  suoi  versi,  la  onde  pargli  un  errore  grandissimo 
non  aver  servato  lo  precetto  oraziano  (4). 

Cor.  Deverebbe  via  più  tosto  il  meschino  piangere  e 
crucciarsi,  aver  consumato  il  tempo  circa  tanta  lige- 
rezza. 

Pao.  Non  dir  ligerezza,  figlia,  che  non  per  cosa  ligera 
simulossi  già  Ulisse  devenuto  essere  pazzo. 

CoK.  Troppo  son  certa  io  de  la  lui  malizia,  il  quale  fin- 
gesi  Pitocco  e  fiirfante,   per  dar  bastonate  da  cieco. 

Pao.  Tu  non  sai  la  cagione. 

(1)  Veramente  nei  distici  messi  sul  frontespizio  dell'  Orlandino,  egli 
dice:  Mensibus  istvd.  opus  tribus  indiquatio  fedi, 

(2)  Non  si  ha  alcuna  notizia  intorno  a  questa  asserzione  del  Fo- 
lengo, giacché  avanti  T  edizione  veneziana  dei  fratelli  da  Sabio,  non  si  sa 
che  r  Orlandino  sia  stato  stampato  da  altri,  o  in  tutto  o  in  parte  e  il 
Caos  lo  fu  di  seguito  al  poemetto  eroi-comico. 

(3)  Lo  conferma  l'esametro  su  riportato.  Vedi  anche  l'Orlandino, 
cap.  I,  stanza  VII  e  XI. 

(4)  QarToen  reprehenditei  quod  non  multa  dies,  et  multa  litura 
coercuit. 


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6  DuLoao 

Cor.  Così  non  la  sapessi. 

Pao.  Dimmi,  qual'  è  ? 

Cor.  Per  farci  morir  tutti  spacciatamente  di  doglia,  acciò 
più  oltra  non  avesse  chi  gli  gridasse  in  capo. 

Pao.  Tu  te  'ngani  grossamente. 

Cor.  Anzi  pur  tu  te  'ngani. 

Pao.  Come? 

Cor.  In  creder  alcuno  dir  male  a  bò  fine. 

Pao.  Che  male  dice? 

Cor.  Non  voglio  parlarne. 

Pao.  Perchè? 

Cor.  Temerei  di  qualche  maladizione. 

Pao.  Or  su  confortati  figliuola,  che  al  poledro  fii  sempre 
concesso  puoter  fin  a  doi  capestri  rumpere. 

Cor.  Non  rampa  già  lo  terzo. 

Pao.  Anzi  totalmente  nel  ternario  numero  fermatosi,  ha 
messo  a  luce  il  Caos  del  Triperuno. 

Cor.  Qual  Caos  del  Triperuno? 

Liv.  El  pare  che  non  ti  sovegna? 

Cor.  Non  mi  soviene  per  certo. 

Liv.  Le  tre  Selve,  le  quali  eri  legessimo,  e  per  segno  di 
ciò,  una  allegoria  bellissima  tu  di  quelle  saggiamente 
cavasti,  quantunque  io  sia  di  senso  molto  dal  tuo 
discosto  (1). 

Cor.  0  smemorata  me,  eh'  ora  me  lo  ricordo,  ma  dimmi 
è  di  Teofilo? 

Liv.  No  sai  che  solamente  vi  si  fa  menzione  di  Merlino, 
Limerno  e  Fulica? 

Cor.  Troppo  me  lo  ricordo,  ma  che  fusse  di  tuo  fratello 
Camillo  mi  pensava. 

Liv.  Tu  non  pensasti  dritto  :  è  di  Teofilo. 

Pao.  Così  è  (2),  ma  ditemi  ambe  dua  lo  argomento  vostro 
che  imaginato  vi  avete  sopra  quésto  Caos  che  an- 
cora io  lo  sentimento  mio  vi  naiTcrò  :  comincia  tu 
Livia. 


(1)  Da  questo  papa  parerebbe  doversi  intendere  che  le  tre  Selve 
fossero  state  pubblicate  prima  del  componimento:  Belle  tre  etadi^m^. 
anche  di  ciò  non  si  ha  notizia,  a  meno  che  non  sia  una  tìnzione  del 
Folengo. 

(2)  Nella  seconda  edizione  si  legge  :  Cosi  lo  affermo. 


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Argomento 


ARGOMENTO  PRIMO. 


LIVIA. 


wuesto  Caos  in  Selve  tripartito,  la  vita  del  autore,  la 
quale  in  tre  fogge,  sin  a  quest'  ora  presente  col  tempo 
veloce  se  n'  è  (1)  gita,  contiene.  Nacque  egli,  come  di 
me  voi  sapete  meglio,  agli  otto  giorni  ed  ore  duodeci 
di  notte,  nel  mese  di  Nov.  sotto  Scorpione,  essendo 
allora  gradissimo  freddo,  la  onde  in  questa  sua  prima 
Selva  narra .  V  orribile  freddura  in  cai  egli  misera- 
mente nacque,  fingendo  natura  essergli  stata,  più  di 
madre,  madregna,  e  pur  nella  puerizia,  la  quale  ap- 
pella aurea  etade,  gustò  alquanto  di  sicuro  e  dolce 
riposo. 

Nella  seconda  selva  pervenuto  egli  omai  negli  anni  di 
qualche  cognizione,  ritrova  molti  pastori,  la  cui  vita 
e  costumi  e  quieta  pace  molto  gli  piacquero,  volen- 
dovi inferire,  che  di  sedeci  anni  egli  col  abito  cangiò 
la  vita,  e  veramente  si  come  a  li  pastori  apparve 
r  Angelo  e  mostrò  loro  dove  giacesse  il  nasciuto 
fanciullo  lesù  Cristo,  così  allora  su  quel  principio, 
che  egli  prese  a  far  vita  comune  co  gli  altri  pastori, 
trovò  Cristo  parvolino  enti-o  il  presepio  collocato: 
ma  col  tempo  poi  per  cagione  di ... ,  ma  non  voglio 
parlarne  chiaro,  che  ancora  egli  va  più  riservato  che 
sia  possibile,  traviato,  si  mise  a  seguir  amorosamente 
una  donna  bellissima,  la  quale  sopra  un  sfrenato 
cavallo  gli  scampa  innanzi,  per  tirarsilo  drieto  al 
precipizio  d' ogni  perdizione  :  ne  chi  sia  questa  don- 
gella,  ne  dove  finalmente  lo  conducesse,  vogliovi 
manifestar  se  non  in  T  orecchia  dicendolo,  ma  con- 
chiudendo la  seconda  Selva  dico,  che  '1  laberinto 
intricatissimo,  nel  quale  ultimamente  si  ritrova,  pare 
a  me  una  soperstizione  tenacissima  significare,  de  la 


(1)  Tanto  la  edizione  prima,  che  la  seconda  hanno  ne^  che  io  credo 
bene  di  correggere  mettendo  n'é,  altrimenti  non  vi  sarebbe  sènso. 


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9  AsCK))f£HTO 


cui  caligine  se  non  per  divin  aiuto  si  pò  essere  libe- 
rato. E  in  questa    tal  foggia    seconda  di  vivere,  es- 
sendo egli  già   fora   del   sentiero  diritto  compose  lo 
poema  di  Merlino  :  con  tutte   Y  altre   favole  e  sogni 
amorosi,  li  quali  ne  la  Selva  seconda  si  leggono. 
Or  dunque  Cristo  si  gli    scopre    in   quel   centro  d'igno-       ^ 
ranzia  de  la  Selva  terza  apparendo,  e  d' indi  smosso, 
lo  driccia  sul  camino    al   terrestre  pai-adiso  duttore,       \ 
che  per  divina  inspirazione  conoscendosi  egli  perder 
il  tempo  supersticiosamente  in  quella  seconda  Selva,       I 
ritornasi  a  la  sincera  vita  dal  evangelio  primamente       ] 
a  lui  demostrata,  e    fatto    del    suo    core   un  dono  a      j 
Cristo  lesù,  da  lui  ne  riceve   tutto  1  mondo  in  rie-      ! 
compenso   e   guiderdone  di  esso,  e  giunto  nel  para-      j 
diso  terrestre,  gli  vien  ivi  comandato  che  non  mangi      | 
del  arbore   de  la  scienza    del  bene   e  male,  ma  so-      ] 
lamente  si  pasca    e    nudrisca    del   legno  vitale,  per      j 
darci  sopra  ciò  un  bell'aviso,  che   quantunque  ogni      j 
constituzione  o    sia  tradizione  de  alcun  santo  padre 
bona   e   fiindata  su  '1  evangelio    sia,    nulla  dimanco 
assai  più  secura  e  utile  cosa  è  non  partirsi  dal  mero 
evangelio  :  perchè  si  come  ogni  norma  e  regula  de 
santi  ha  in  se  figura   del  arbore,    del  saper  il  bene 
e  il  male,  così  del  arbore  di  vita   contiene  in  se  lo       ! 
legier  peso  del  servatore   nostro.  La  onde   esso  mio 
zio  Teofilo  commetteria  la  terza  sciocchezza  quando 
mai  lasciasse  più  lo  vecchio    sentiero    per  tornar  al 
novo  :    ed   questo  è  il  senso  mio  cii'ca    la  dechiara- 
zione  di  questo  Caos. 


ARGOMENTO.  SECONDO. 

CORONA. 

LTguto  e  ingem'oso  su  questo  da  te  pensato  soggetto, 
Livia  cara,  ma  non  tanto  a  V  intenzione  di  tuo  zio  mi 
par  agiatamente  accascare,  quanto  quello,  eh'  eri  ti 
dissi,  ed  ora  sono  ad  ambe  dua  per  ragionare.  Move 
dunque,  mio  fratello  più  generalmente  il  voler  scri- 


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Le  tre  bt^di  9  ìv 


vere  di  qualunque  altro    uomo,  che  del  suo  proprio  f 

fatto,  onde  ne    la    prima   Selva  narra   la   infanzia  e  f 

puerizia  umana,  ne  la  seconda  la  precipitosa  giove-  1 

nezza,  ne  la  terza  la  matura  e  virile  etade.  t 

Or  dunque,  ne  la  prima  descrive  in  quanti  affanni  e  tra- 
vagli qualunque  uomo  per  fallo  del  primo  nostro  | 
padre  Adam,  nasce  in  questo  mondo,  chiamandovi 
Natura  crudele  matregna,  da  la  quale  di  scorze,  peli, 
piume  e  squame  prò  veduto  viene  ad  ogni  altro  ani-  ^^ 
male,  quantunque  vilissimo,  e  egli  solo  nudo  nascendo  f 
non  ha  schermo  alcuno  e  diffesa  contra  le  ingiurie  X 
del  tempo,  ma  poscia  per  beneficio  de  la  industria  jj 
e  arte  pervenuto  a  la  puerizia,  dimanda  quella  l'am-ea  t  * 
etade,  perchè  la  innocenzia  del  fanciullo  s'  en  passa  ^ 
quel  poco  di  tempo  senza  sapere  chi  sia  rigidezza  ^ 
di  legge,  tema  di  tiranno,  ed  inquietudine  di  avarizia.  /^ 

Uscito  poi    egli    dal   bel   giardino   di  puerizia,   entra  ne  f 

r  impetuosa   giovenezza,    la    quale   innanzi    che   dal  v 

ardente  desio  anco  non  vien  assalita,  comminzia  con  t 

la  mente  tutta  svegliata  del  esser,  non  pur  suo,  ma  i 

d' ogni  altra  cosa  a  ripensare,  e  quivi  ne  la  seconda  ^ 

Selva  mio  germano  in  persona,  come  gik  sopra  dissi,  I 

d'ogni  altra  razionale  creatura  fingesi  trovar  pastori,  i 

e  Cristo  lesù  tra    quelli    nasciuto,    per  darci  questo  1 

aviso,  che  V  uomo,  quanto  prima   ne  gli  anni  di  ra-  j 

gione  entrar  comincia,  per  favore  del  suo  bon  genio,  % 

incontanente  riccorre  a  la  cognizione  di   veritade  la  '^y 

qual'  è   Cristo    nostro   servatore.   Ma    levatasi  poi  la  «'• 

consueta .  tempestade    di   nostra    carne,    ecco   la  vo-  , 

luptade,  ecco  '1  desio  sotto  il  viso  di  vaga  donzella,  [ 

su  '1  sboccato  cavallo  de  la  delettazione,  lo  riconduce  *.* 
al  varco  de  le  due  strade,  per  tirarsilo  drieto  a  la 
sinisti'a  del  vizio,  lasciando  la  destra  de  la  veritade. 
Quivi  dubitoso  ne  la  prima  giunta  stassi,  ove  gir 
si  debbia,  quinci  da  belli  e  boni  avisi  a  la  destra 
invitato,  quindi  dagli  umani  piaceri  combattuto,  che 
egli  muovasi  a  la  mancina.  Soperato  dunque  e  vinto 
finalmente  dal  fugace  desio,  vagli  impetuoso  drieto, 
dovunque  la  falsa  incantatrice  losingando  a  se  in 
guisa  di  calamita  lo    smarito   animo    tira,    passando 


M 


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10  Argomento 


tutta  fiata  per  sogni,  chimere  ed  amorose  favole, 
quali  sono  le  fizzioni  macaronesche,  come  gli  appel- 
lano, di  Merlino,  li  sonetti,  e  altre  assai  vane  fra- 
scuzze,  per  signar  il  tempo  da  la  giovenezza  inu- 
tilmente trapassato,  infin  che  poi  nel  laberinto  di 
qualche  travaglio  si  ritrova  essere,  cosa  che  '1  piti 
de  le  volte  dopo  gli  piaceri  sole  agli  gioveni  ac- 
cascare. 
La  onde,  come  né  la  terza  Selva  noi  leggemo,  Y  uomo 
angustiato  riccorre  al  divino  suflEragio^  e  Cristo  gli 
appare  bello  e  pietoso,  cavandolo  benignamente  di 
quella  ignoranzia  d' amore,  e  talmente  gli  tocca  il 
core,  che  '1  giovane  già  venuto  virile,  si  mette  in 
considerazione  di  quanto  mai  fece  Iddio  per  V  uomo, 
dil  che  mio  fratello  sopra  questo  finge,  che  avendo 
Cristo  ricevuto  il  core  da  lui,  criògli  tutto  quanto  il 
mondo,  e  al  paradiso  terrestro  dricciatolo,  gli  com- 
manda, che  pascendosi  egli  del  legno  de  la  vita,  il 
quale  ha  di  sua  grazia  in  se  la  figura,  non  gusti 
per  niente  di  quello  del  bene  e  male,  il  quale  a  me 
par  dover  significare  che  V  uomo  facendo  le  bone 
opere,  quelle  non  debbe  a  soi  meriti  tribuire,  anzi 
tutte  nel  divin  favore  collocarle.  Tal'  è  dunque  il 
concetto  mio  dal  Caos  divenuto. 


ARGOMENTO  TERZO. 

PAOLA. 

I 


s 


entenzia  divina  è,  che  la  lettera  (1)  uccide  l'anima.  Fer, 
mamosi  prego  dunque  su  '1  Caos  di  questa  materia 
lasciando  in  parte  sì  la  vita  di  mio  figliuolo  in 
spezialitade,  la  quale  per  vigor  e  sottiezza  (2)  de  pe- 
regrini ingegni  forse  col  tempo  .verrà    in    luce    più 


(1)  L'edizione  prima  -  1527  -  ha  giustamente  lettera,  mentre  la  se- 
conda -  1546  -  ha  terra. 

(2)  Tanto  la  prima,  che  la  seconda  edizione  hanno  sotthiezza,  che 
ritengo  sia  invece  di  sottigliezza. 


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Le  tre  et  adi  11 


sicura,  sì  quella  ancora  di  qualunque  altro  uomo,  in 
questa  umana  gabbia  precipitato. 

Ne  la  prima  Selva  contiensi  adunque  Y  uomo  studioso 
e  avido  d' imparare,  mettersi  prima  in  considerazione 
di  queste  cose  più  basse  de  V  umana  natura,  fra  le 
quali  se  V  arte  liberale  con  la  industria  insieme  non 
fosse,  o  quanto  inferiore  agli  altri  animali  sarebbe 
r  uomo,  non  così  provisto  da  natura  contra  le  in- 
giurie del  tempo,  quanto  di  piume,  squame,  e  peli 
sono  quelli.  Onde  pare  che  meritamente  più  lei 
chiami  madre  che  madregna,  se  la  nuditade,  od  altra 
miseria,  nel  nascere  ben  si  comprende.  Ma  contem- 
plando per  mezzo  di  queste  divine  arti  liberali  aver 
da  non  curarsi  di  qualunque  onta  naturale,  si  move 
al  studio  semphcemente  di  umanitade,  lo  quale  aurea 
etade  meritatamente  apella,  quando  che  tutta  d'  oro 
sia  cotesta  disciplina,  ed  d'  ogni  scrupulo  del  nostro 
intelletto  fora. 

Nella  seconda  Selva,  questo  medemo  studente  si  delibera 
pur  di  trovar  la  veritade  di  quante  cose  naturali  e 
sopranaturali  ne  libri  si  contengono,  partesi  dagli 
umani  giardini  per  saltar  ne  la  filosofia,  ma  tosto 
lo  genio  suo  bono  gli  antepone  la  umanità  di  lesù 
Cristo,  e  affermali  non  essere  altra  veritade  di  questo, 
e  pur  la  curiositade  di  pescar  più  sul  fondo  in 
guisa  di  donna  sopra  un  sfrenato  destriero  lo  tira 
per  vie  scabrose  in  fin  sul  passo,  che  divide  lo  sen- 
tiero in  due  parti,  quinci  a  la  man  destra  invitalo 
l'evangelica,  quindi  a  la  sinistra  la  peripatetica  d'oggi 
di  teologia  :  ma  vinto  da  la  curiositade  ancora,  si 
aventa  senza  freno  drieto  a  quella  per  chimere,  sogni 
e  favole  sofisticali,  trovandovi  drento  Merlin  Cocaio, 
per  notificarci  la  grossa  e  incorretta  retorica  ed  elo- 
cuzione de  la  maggior  parte  de  nostri  moderni  teo- 
logi, ove  quelli  loro  vocaboli  causalitade^  entitade^ 
intuitiva,  et  ahstrastiva^  con  l'altra  barbaria  tengono 
corte  bandita,  perchè  al  fine  di  mille  dubitanze  er- 
rori e  eresie  nel  laberinto  egli  avihippato  si  ritrova, 
e  sepelito. 

Or  ne  la  terza  Selva  commosso  lesù  Cristo  da  dolce  pie- 


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12  Argomento 


tade  verso    quella    anima  invischiata    e   allaciata  in 
quei  tanti  utrum^  proho^  nego^  arguo^  prò,  contra^  etc. 
tiralo  al  mero  e  puro    latte  del    santissimo  vangelo, 
ed  al  fidel  e  tutiasimo  porto  di  san  Paolo,  con  tutto 
il  resto  de  libri  del  testamento  novo  et  vecchio,  nel 
qual    egli    studiosamente    ruminando    a    Dio    fk   un 
dono  del  suo  core,  lo  quale  in    cambio  di  si  legger 
cosa,  fallo  signore  de  T  universo,  criandogli  di  novo 
il  cielo,  il  mar   e    la   teira  ;    e  dapoi  tanto  al  para- 
diso terrestre    mandatolo,    quivi  gli    commauda,  che 
voglia  solamente  pascersi    di   contemplai'  quanto  sia 
verso    noi    la    divina    misericordia,  ma  non  quale  e 
quanta  sia  la  maiestade  ed  potenzia  sua,  e  questo  è 
r  arbore  de  la  bona   e   mala  scienza,    si  come  quel- 
la altro  è  legno    de    la  vita.   A  me  cotesta  allegoria 
pare  de  le  nosti^e   megUo    quadrare   al  Caos  di  mio 
figliuolo.    Orsù   leggemolo    dunque  di  compagnia,  e 
prima  li  ti-e  nomi  di  esso. 


MERLINUS. 

jL  res  sumus  unius  tuni  animae  tum  corporis.  Iste 
Nascitur,  ille  cadit,  tertius  errigitur. 

Is  legi  paret  naturse,  schismatis  ille 

Rebus,  evangelico  posterus  imperio. 

Nomine  sub  fleto  Triperuni  cogimur  ijdem 
Infans  et  iuvenis  virque,  sed  unus  inest. 


LIMERNO. 


Gì 


riove,  Nettuno,  Pluto  d'  un  Saturno 
Hebber  a  sorte  il  ciel  il  mar  la  terra, 
Fulmini,  denti,  teste  in  lor  governo. 
Tre  trine  insegne  per  tre  cause  fumo. 
Tre  fonti,  oltra  le  tre  del  mio  Libnrno 

Nacquer  d'  un  capo  santo  al  sbalzo  temo, 
Così  Merlino,  Fulica,  Limemo, 
Si  calcian  d'  un  TeofiI  il  coturno. 


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Le  tre  etadi  13 


Tre  parole  de  titolo  —  Tre  folenghe  —  Tre  donne  —  Tre  etadi  —  Tre 
fogge  di  parentado  —  Tre  argomenti  -—  Tre  parti  d'ogni  argo- 
mento —  Tre  nomi  —  Tre  selve  —  Tre  allegorie. 


-^ 


Ji 


Mantoa  sen  ride  e  parla  con  Virgilio  : 

Tu  sei  pastor,  agricola,  soldato, 

Perchè  del  nomer  temo  Dio  s'  allegra.  ^:| 

Ridi  tii  meco  ancora  dolce  figlio,  }A 

Quando  che  sotto  un  nome  triphcato  t^ 

Sortisca  una  confusa  mole  e  pegi'a.  ^| 

FULICA.  '        ^j 

ermati  alquanto,  lettore  amantissimo.  Sonc  ei-to,  che  lo  f 

exastico  e  sonetto  di  mei  compagni   di    sopra  ti  pa-  <  J 

rono  duri   e    scabrosi.  Non    vi    slungar   in  guisa  di  i' 

rinoceronte    suso  il    naso   ti    prego,    che  '1  ladro,  il  : 

quale   rubasse    di    giorno    saria   tantosto   compreso:  %!) 

quivi  ci  fa  mistero  di  scurezza  e  caliginosa  nebbia, 
ma  se  li  capoversi  per  tutto  il  nostro  Caos  provi- 
damente  scegliere  saperai,  chiaro  e  limpido  final- 
mente ti  pan'k  lo  intricato  soggetto  nostro  :  Ma  so- 
lamente un  beir  avviso  quivi  darti  intendo,  che 
totalmente  sul  ternario  numero  siamosi,  per  conve- 
niente ragione,  fundati.  Prima  tu  vedi  lo  titolo  del 
Hbro  essere  tre  parole  CAOS  DEL  TBIPEEXJNO. 
Seguono  poi  le  ti'e  folenghe,  over  foliche  son  dette, 
le  quali  sono  antiquissima  insegna  di  casa  nostra 
in  Mantova.  E  sotto  specie  di  loro  succedono  le  tre 
Donne  di  ti-e  etadi,  e  di  tre  fogge  di  parentela,  da 
le  quali  derivano  li  tre  prossimi  argomenti,  ciascuno 
di  loro  in  tre  parti  diviso,  noi  siamo  poi  di  tre 
nomi  :  MERLINO,  LIMERNO,  FULICA.  Li  quali 
cominciando  il  nostro  Caos  in  tre  Selve  lo  spartimo, 
con  li  soi  tre  sentimenti,  ma  lo  più  autenticato,  al 
giudicio  del  ingenioso  lettore  dimettemo, 


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n. 


SELVA  PRIMA 


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...  < 


IlL  CAOS 


SELVA  PRIMA 


TRIPERUNO. 


V. 


oi,  eh'  ad  un  alta  e  faticosa  impresa, 
*  Vedete  or  me  salir  audacemente, 
Per  via  mai  forse  da  nuli'  altro  intesa  ; 

Piacciavi  d'  ascoltare  queste  lente 

Mie  corde  in  voce  lagrimosa  e  mesta, 
Ch'  altro  non  s' ha  d' un'  anima  dolente. 

E  bench'  i  veda  alzandovi  la  testa 
Mia  virtù  debil  al  salir  tant'  alto. 
Di  che  sovente  per  viltà  s'  arresta  ; 

Pur  spiego  r  ale,  e  quanto  so,  m'  exalto 

Là  ve  m'  accenna  il  lume  d'  ogni  lume. 
Per  cui  non  temo  alcun  spennato  salto. 

Che  mentre  su  con  le  'ncerate  piume 
Tolgomi  de  le  nubi  sopra  '1  velo 
ly  un  Dedalo  megliore  sotto  '1  nume  ; 

Vedrò  ch'immobil  stassi  e  volge  'ì  cielo, 

Sostien  la  terra,  e  1'  universo  a  'n  cenno. 
Volendo  po'  cangiar  o  'n  foco,  o  'n  gelo. 

Oi*  dunque  di  più  sana  audacia  e  senno 
Ch'  Icaro  mai  non  ebbe,  a  Y  ardua  via 
Ambo  gli  piedi,  ambo  le  braccia  impenno. 


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18  II  caos  —  Selva  prima 


E  cantovi  di  questa  nosti-a  ria 

Prigion,  che  vita  nominar  non  oso, 
Le  frode  di  essa,  il  volgo,  la  pazzia. 

E  di  quel  Re,  che  'n  un  presepio  ascoso 
Vidi  fra  le  duo  bestie  a  gran  bisogna, 
Ver  se  stesso  crudel,  ver  noi  pietoso. 

Che  svelse  il  mundo  tutto  di  menzogna. 
Che  sua  dottrina  colma  di  quel  foco, 
Ch'  arde  si  dolce  in  alma,  che  non  sogna. 

Io  dico  te,  lesù,  lo  qual  invoco 

Mio  Febo,  mio  Elicona,  mio  Pamasso, 
Ov'  ogni  bel  pensier  al  fin  colloco. 

So  ben,  che  di  te  dir  via  pia  t'  abbasso. 

Che  tacendo  non  alzo,  e  pur  m'  oifersi  ; 
Ecco  a  diacciar  nel  tuo  bel  nome  il  passo. 

Che,  come  vedi,  son  questi  miei  versi 
D'  amor  almanco  e  caritade  in  cima. 
Se  non  toscani,  ben  sonori,  e  tersi. 


TRIPERUNO. 


Di 


'i  quella  spera  pii\  capace  e  ima 
Del  ciel  ove  V  Artefice  soperno 
Fabrica  ogn'  or  quanto  mai  finse  prima  ; 

Io  novamente  usciva  fatto  eterno 

Candido  spirto  leggiadretto  e  bianco. 
Che  bianca  più  non  vien  neve  d' inverno. 

Quando  1  mio  stesso  fabro  un  calzo  al  fianco 
Vibrommi  tal,  che  giù  ne  venni  a  piombo, 
In  loco  basso,  e  d'  ogni  posa  manco. 

E  come  vago  e  timido  colombo. 

Vola  quando  si  parte  da  la  torma. 
Del  ciel  tonante  al  subito  ribombo. 

Tal'  io  vi  errava  tanto,  che  d'  un  orma 

Uscendo  in  Y  altra  mi  trovai  su  1  poi-to, 
Dove  r  oblio  nostro  intelletto  addorma. 

Guardomi  intomo  paventoso  e  smorto, 

Che  tesa  in  ogni  parte  vedo  un  rete. 
Onde  eh'  entrarvi  debbia  mi  sconforto. 


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Il  caos  —  Selva  prima  19 


Quivi  spicciando  fora  d'un  parete 

Largo  così,  eh'  ampio  paese  cinge, 
Chiara  fontana  porsemi  gran  sete  ; 

La  qual  fi'a  sassi  mormorando  astringe 
Al  dolce  ber  qualunque  vi  s'  applica, 
Ma  tosto  se  ne  pente  chi  lei  tinge. 

Perch'  ella  il  senso  e  lo  'ntelletto  intrica, 

Però  non  men  a  'n  vischio  tal  m'  accolsi, 
Tratto  dal  bere  e  da  1'  usanza  antica. 

Quivi  cum  brame  tanto  me*ne  tolsi. 

Che  tutto  '1  bene,  che  capisce  in  noi, 
Non  pur  lasciai,  ma  nel  contrario  avvolsi. 

Acque  maligne,  acque  di  tosco,  voi 

Più  del  male  soavi,  più  che  manna. 
Scoprite  il  fele  al  nostro  error  dopoi. 

Che  chi  vi  gusta  pur,  non  che  tracanna. 

Presto  negli  occhi  anzi  nel  cor  s'  annebbia. 
Dura  cagion,  che  a  questo  ci  condanna. 

Cangiasi  d'  un  bel  raggio  in  scura  nebbia. 
Ne  qual  era  pur  dianzi  non  ricorda, 
Ne  su  quel  punto  sa,  che  far  si  debbia. 

Io  dunque  alma  di  bere  troppo  ingorda, 
Le  parti  mie  d'  alti  pensieri  dotte. 
Perdei  qual  cieca  forsennata  e  sorda. 

Perchè  non  so,  sasse  1  C9IUÌ,  che  notte 
Far  giorno  e  giorno  notte  potè  solo, 
E  dà  sovente  a  noi  d'  amare  botte. 

Per  fallo  d'uno  preme  tutto  '1  stolo, 
E  vedesi  alcun  padre  umil  e  domo 
Irsene  giù  per  colpa  del  figliuolo. 

Or  chi  le  'ntenderebbe,  che  d'  un  pomo 
Succeda  tanto  incomodo,  eh'  ognora 
Sostegna  il  ceppo  uman  1'  error  d'  un  uomo  ? 

Ben  fu  di  acerbe  tempre,  poi  eh'  ancora 
Foggia  non  è,  la  qual  digesto  1'  abbia, 
Ne  mai,  tant'  esser  deve  crudo,  fora. 

Se  chi  nostr'  alme  spinge  in  questa  gabbia, 
Col  raggio  di  pietà  no  '1  dissacerba, 
E  tempra  di  giustizia  in  se  la  rabbia. 

Ne  stomaco  di  struzio,  ne  onto,  ne  erba. 


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20  II  Ccaos  —  Selva  prima 


Mentre  da  noi  per  quest'  ombre  si  viva, 
E  per  smaltii-  un  esca  tanto  acerba. 

I  non  fu  mai  di  tal  cibo  conviva, 

E  pur  padirlo  anzi  patirlo  deggio, 

Per  cui  vien  ciascun  alma  del  ciel  priva. 

La  qual  ir  non  dovria  di  mal  in  peggio. 
Se,  al  priego  d'  una  femina,  colui 
Morse  '1  mal  frutto  e  persevi  '1  bel  seggio. 

A  che  unqua  nascer  noi,  se  per  altrui 

Fallir  par,  eh'  anco  *r  ira  non  s'  estingua 
Divina  in  noi,  per  loghi  alpestri  e  bui  ? 

Ahi  miseri  taci,  e  morditi  la  lingua, 

Che  maledetto  fie,  eh'  in  ciò  s'  addirà. 

Già  Dio  mai  d'  uman  sangue  non  s' impingua. 

Anzi  ama  1'  opre  sue,  contempla  e  mira, 
E  studia  r  uomo  a  se  fatto  simile, 
Scompare  dal  suo  stesso  foco  e  ira. 

Ma  non  pensar  non  che  cercar  suo  stile 
Via  troppo  da  l' imian  pensier  rimoto, 
Ch'  alto  pensier  non  cape  in  senso  vile. 

Dunque  dirò,  che  quanto  chiaro  e  noto 

M'  era  dinnanzi  alber  de  1'  acque  sparve, 
Onde  fui  d'  ombra  pieno  e  di  sol  voto. 

Eccomi  sogni  intorno  fauni  e  larve. 

Che  mi  facean  per  quella  notte  scorta. 
Ne  mai  più  '1  bel  ricordo  dianzi  apparve. 

Pur  mi  raffronto  a  quella  orribil  porta 
Fiso  mirando,  e  qui  fennai  lo  piede 
Com'  uom,  eh'  entrarvi  drento  si  sconforta, 

E  fin,  eh'  altri  vi  passi,  dubbio  sede. 

GENIO. 


Lima,  che  per  altrui  diifetto  al  varco 
Dubbioso  anivi  e  Dio  ti  vi  destina, 
Or  quivi  entrando  inchina 
U  orgoglio,  alzando  gli  occhi  al  ciel,  che  cai*co 
Gira  di  stelle  e  mostrasi  luntano. 
Di  là  scendesti,  o  più  non  ti  rimmembra 


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Ili  CAOS  —  Selva  prima  21 


Qual  eri  avanti  1  poculo  di  Lete  ; 
Ma  se  tornarvi  brami,  quelle  membra, 
Ove  tu  dei  corcarti  a  man  a  mano, 
Fa  ch^  raffreni  fin  che  'n  lor  s'acquete 
U  uman  desio,  che  le  conduce  al  rete. 
Sì  di  legger,  ove  ne  resti  presa 
Ma  strenua  contesa 
Non  sa  fatica,  finalmente,  o  carco. 

TRIPERUNO. 

\iueste  parole,  in  man  d' un  vecchio  bianco, 
Vedendo  appese  di  quelF  uscio  in  fronte. 
Io  tremai  forte  e  trèmone  pur  anco. 

Anzi  n'  ho,  rimembrando,  agli  occhi  un  fonte. 
Oh'  allor,  mentre  per  me  già  si  delibra 
Non  ir  pia  innanzi  e  volgomi  dal  ponte. 

Donna  m'  apar  accanto,  che  mi  vibra 

Un  pugno  al  fianco  e  drieto  mi  flagella, 
Oh'  avea  ne  Y  altra  n^an  un  aurea  libra. 

Ritomomi  a  la  porta,  dove  quella 

Mi  piega  col  temone  di  sue  pugna, 
Drieto,  chiamando  sempre,  alma  rubelia 

Alma  proterva  fa,  che  non  ti  giugna 

Scamparti  da.  colui,  che  qui  ti  move 
Ad  una  faticosa  e  strana  pugna  ; 

Ch'  avrai  con  esso  teco  e  non  altrove, 
E  per  vincer  leoni,  tigri  e  orsi. 
Vincendo  te,  ìninori  son  le  prove. 

I  non  mil  fei  ridir,  ma  via  trascorsi, 
Qual  timido  cavallo,  che  s'  arresta, 
Nel  apparir  d'  un  ombra  e  sta  su  morsi. 

Poi  volto  in  fuga  soffia  ad  alta  testa, 

Ma  chi  gli  sede  addosso  presto  il  toma, 
Stiìnge  1  ai  fianchi  e  fra  V  orecchie  il  pesta. 

Ond'  egli  per  le  botte  si  ritoma 

In  quella  parte,  onde  lo  smosse  1'  ombra. 
Di  passo  nò,  ma  coitc  e  non  soggiorna. 


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22  II  caos  —  Sklva  piuma 


Tragomi  drente  al  fine,  ove  me  'ngombra 
Notte,  eh'  ancor  più  m'  ebbe  ottenebrato, 
In  luogo,  cui  la  terra  intorno  addombra. 

Ed  io  ne  stetti  non  d'  abisso  al  lato, 

Ma  in  centro  d'  ombre  grosse  denso,  e  folto, 
Qual  talpa  preso  in  gli  occhi  e  smemorato. 
;  Così  più  mesi  in  quella  tomba  involto, 

[  Io  pronto  spirto  ne  la  carne  inferma 

Stetti  non  pur  prigione  ma  sepolto. 

Finché,  o  natura,  Y  opra  tua  fu  ferma. 


MELPOMENE. 

IVJLentre  piangendo  Y  alte  strida  e  urli. 
Sorelle  mie,  si  duramente  innalzo. 
Da  me  sol  viene  il  tragico  costume. 
Lasciati  i  crin  al  vento,  che  ridurli 
Qui  non  bisogna  in  trezza,  ne  '1  pie  scalzo 
Guidar  per  vaghi  fiori  e  verdi  piume 
De  prati  lungo  al  fiiune. 
Anzi  sdegnando  quella  piaggia  e  questo 
Poggetto  ameno  statine  qui  meco 
In  solitaro  speco. 

Finché  mie  rime  udite  sian  di  mesto 
E  lagrimoso  canto,  il  qual  risulte 
Da  quei  sassosi  monti  e  valli  inculte. 

Depon,  Urania  mia,  la  tua  siringa. 

Che  settiforme  ha  in  se  del  ciel  il  tipo, 

E  tu  Clio  la  lira,  ove  1  mantòo 

Al  greco  vate  fai  eh'  ugual  attinga  (1). 

E  mentre  i  lauri  e  1'  edere  dissipo. 

Spargi  quei  fior  del  corno,  clie  1'  eròo 

Già  svelse  ad  Acheloo, 

Erato  mia  :  ne  tu  Polinnia  il  plettro 

Ne  Caliope  Y  arpa,  ne  la  cetra 

Talia,  s'  unqua  s' impetra 

(l) ove  *l  mantoo 

Al  greco  vate cioè  Virgilio  e  Omero. 


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Il  caos  —  Selva  prima  23 


Grazia  da  noi,  pulsate,  eh'  ora  il  settro 

Tengo  fra  noi:  cessando  ancor  le  stanze 

Di  Euterpe,  e  di  Tersicore  le  danze. 
Ahi  !  di  qual  gioia  e  quanto  bella  effige 

Traboccar  vidi  l' uomo  in  tanto  scorno  ; 

Mirati  1  ciel  come,  di  gi'ado  in  grado, 

Sol  per  causarli  util  piacer,  s'  afflige. 

Volgersi  tra  duo  moti  adversi  intomo. 

Mirati  '1  Gange,  l'Istro  Nilo  e  Pado, 

Ogni  altro  fiume  e  vado. 

Tornarsi  d'  onda  in  onda  al  vecchio  padre. 

Pioven  le  nubi  e  la  porrosa  terra 

Dal  centro  si  disserra. 

Sorbendo  il  dat'  umor,  onde  già  madre 

Fassi  di  questo  fior  e  di  quel  pomo, 

Per  aggradir  e  aggrandir  im  uomo. 
L'  uomo,  che  'ngrato  a  Dio  non  eh'  a  natura, 

Per  antiporre  un  fral  desir  al  dolce* 

Suo  fermo  stato,  giustamente  abbietto, 

Fu  d'  alta  gloria  in  infima  iattura, 

La  cui  durabil  colpa  in  ciel  si  folce. 

Che  mai  non  parte  del  divin  aspetto. 

Però  sta  fermo  e  stretto 

Destin  a  penitenzia  d'  un  tal  fallo. 

Che  r  uomo  in  grembo  a  morte  quivi  nasca. 

Cosi  dal  cielo  casca 

L'  alma  di  novo  fatta  in  scuro  vallo, 

Dove  se  stessa  oblia  cieca  infei-ma. 

Già  devoluta  in  sterco  fango  e  sperma. 
Indi  natura,  per  supplicio  degno, 

Men  se  gU  mostra  madre  che  noverca  ; 

La  qual  ogni  animai  prò  vede  con  tra 

L'  ont^  del  tempo,  dandogli  sostegno  : 

Nasce  pur  1'  uomo  ignudo,  il  quale  cerca 

Schermh'si  d'  un  agnello,  volpe  o  lontra 

Dal  gelo  in  cui  se  'ncontra. 

Che  di  scampo  megliore  non  ha  copia.  h 

Ma  di  squame  coperti,  penne  e  lane.  ^ 

Per  fiumi  selve  e  tane 

Van  pesci,  augelli  e  fiere.  In  somma  inopia 


t 


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V  84  11  caos  —  Selva  prima 

Sol  nasce  1'  uomo,  cui  cade  per  sorte 
Pianger  nascendo,  e  nato  gii'  a  mort^. 
Non  così  tosto  un  augelletto  spunta 

-  Del  uovo  fora,  quando  a  tempo  nasce, 

'  •  Ecco  s'  addriccia,  e  con  soppresso  grido, 

.y  Del  becco  V  esca  piglia  in  su  la  punta  : 

':'■  E  senza  documento  di  chi  1  pasce 

Su  r  orlo  estremo  tirasi  del  nido, 
"  Donde  giù  fimde  al  lido 

Ciò  che  smaltisce  per  servarsi  netto. 
y^^  Non  così  r  uomo  nò,  che  d'  ora  in  ora 

?  Convien  di  fascie  fora 

^/  Cavarlo,  in  cui  legato  stassi  stretto, 

fi,  E  trarlo,  di  sozzura  e  puzzo  lordo, 

»-  Al  misero  suo  stato  e  cieco  e  sordo. 

Or  dite,  prego,  quand'  egli  mai  s'  erge 

-  Coli'  aspetto  nel  ciel  onde  si  parte. 

Che  pria  carpone  de  le  braccia  gambe 

;  '  Non  faccia,  mentre  in  foggia  d'  angue  perge  ? 

Che  se  al  contrasto  di  natura  Y  arte. 
L'industria  in  suo  ripar  non  fusser  ambe, 
Mentr'  egli  fugge  e  lambe 
Lo  sin  materno,  peggio  de  le  belve 
Ne  rimarebbe,  tanto  1'  odia  e  sdegna, 
E  fassigli  matregna 
Colei,  eh'  abbella  monti,  valli  e  selve, 
E  d' un  sì  gentil  figlio  non  tien  cura 
Pel  torto  del  primier  ;  dico  natura. 
Solo  la  donna  artefice  e  la  industre 

Parton  de  le  sue  membre  1'  officina  ; 

Ma  quant'  è  '1  pianto  e  quante  le  percosse 

Anzi,  eh'  ancora  il  misero  s' industi'e 

Saper  su  piedi  starsi  !  onde  mina 

Sovente  si,  che  molte  fiate  mosse 

Di  luogo  porta  l' osse, 

Restandone  d'  un  mostro  più  deforme  ; 

Cosa  non  già,  che  nelli  armenti  caschi. 

Cercate  e'  verdi  paschi, 

Le  nubi,  i  fiumi,  quante  sian  le  forme. 

Che  nate  apena,  chi  '1  noto,  chi  '1  volo, 

Chi  prende  il  corso,  e  1'  uomo  casca  solo. 


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Il  caos  —  Selva  prima  26 


Deh  I  perchè  nasce  lo  WeKce  dunque 

Di  tanti  sti-ali  ad  esser  un  versaglio  ? 

Ogni  tempesta  in  lui  sVaggii'a  e  scarca, 

Ogni  virgulto  se  gli  attacca,  ovunque 

Move  di  questa  selva  nel  travaglio, 

S'  avien  eh'  egli  pur  goda,  ecco  la  parca 

Rumpelo  al  mezzo,  e  varca 

La  vita  al  sol,  qual  nebbia  o  forno  al  vento, 

Stato  pennoso  e  miserabil  tanto  ! 

Ch'  altro,  che  affanni  e  pianto 

Travagli,  sdegni,  lagrime  scontento 

Attende  uomo  che  nasce  ?  e  se  lo  move 

Fortuna  a  qualche  onor,  morte  vi  1  smove. 

Queste  parole  in  capo 

Voglio  sculpite  sian  d'  ogni  tiranno. 

Lo  qual  non  esser  Dio,  ma  fumo  e  nebbia 

S' intenda,  e  che  non  debbia 

Farsi  adorar  al  mondo,  perchè  vanno 

E  vengon  tutti  eguali  di  fral  seme. 

Ma  tal  le  piume  tal  le  paglie  preme. 


TRIPEEUNO. 


D. 


'apoi  li  giorni  e  mesi,  che  'n  tal  centro 
Si  lordo  il  mio  destin  crescer  mi  fece, 
Donna  m'  apparse  a  quel  girone  dentro. 

Ch'  indi  sciolto  mi  trasse  d'  orbo  in  vece. 

Poi  molto  altiera  disse  :  Or  tienti  in  mente 
Mortai,  che  più  tornar  qui  non  ti  lece. 

E  ciò  parlando,  1'  empia  e  inclemente. 

Nudo  fanciul  ne  la  stagion  pifi  acerba 
Lasciommi  solo  e  sparve  incontanente. 

Sparve  costei  d'  aspetto  alto  e  soperba, 
E  ove  allor  passava,  in  ogni  canto 
Seccar  facea  con  fior  e  frondi  1'  erbe. 
Fin  che  di  neve  col  gelato  manto 

Mi  ricoperse  intomo  e  monti  e  selve  ; 
Di  che  tremava  con  dirotto  pianto. 

Miravamni  da  lato  e  fiere  e  belve 


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26  II  caos  —  Selva  prima 


Con  ogni  augello  d'  alcun  pel  guarnito, 

Qual  sia,  che  'n  grotte  alberghi  o  qual  s' inselve, 

Ma  sol  io  nudo  sopra  il  nudo  lito 
Stavami  d'Aquilone  sotto  '1  fiato, 
Ne  fui  per  tanto  da  pietade  udito. 

Il  qual  piangendo  mover  quel  spietato 
Avrei  potuto,  eh'  ogni  fanciuUino 
Uccise,  per  mal  zelo  del  suo  stato.    , 

Chi  vide  mai  d' inverno  un  cagnolino 

Tremar  su  T  uscio  chiuso  di  chi  '1  tiene. 
Usato  starsi  di  madonna  in  sino  ? 

Così  veder  potea  me  con  le  rene 

In  terra  nude,  volto  in  quella  parte 
Del  ciel,  ove  '1  suo  moto  si  conviene. 

Ed  ove  '1  serpe  tortuoso  parte 

L'  orribil  Orse,  dove  nasce  il  spirto 
Del  fier  Boote,  che  non  mai  si  parte. 

Qual  fiume  e  lago,  eh'  aspro  duro  e  irto. 

Non  ferma  il  corso  di  Calisto  in  braccio? 
Ma  non  vidi  poi  sì  d'  un  lauro  e  mirto. 

Anzi  con  altri  assai  di  quell'impaccio 
Lor  vidi  sciolti,  e  con  bella  verdura 
Starsen  di  neve  in  mezzo,  o  presso  al  ghiaccio. 

Mercè  le  calde  gonne,  che  natura 

Lor  diede  per  servarli  etema  vita, 
A  lor  si  mite,  a  noi  maligna  e  dura. 

Ma  'na  donzella,  non  so  d'onde  uscita, 
Presta  negli  atti  e  d'  abito  succinta, 
M'  accolse  in  grembo  di  servir  spedita. 

Poi  lunga  fascia  intorno  m'  ebbe  cinta. 
Portatomi  già  dentro  una  spelonca 
Ben  chiusa  intomo  e  di  fuligin  tinta. 

Ver*  è,  che  d'  uomo  come  statoa  tronca 

Di  braccia  e  gambe,  in  que'  legami  resto, 
E  così  giacqui  stretto  in  picciol  conca. 

Onde  col  capo  sol,  eh'  un  oncia  il  resto 
Mover  non  poscio,  volto  a  lei  parlava. 
Con  queir  istesso  di  fanciullo  gesto, 

Qual  fece  altrui  con  Dio,  quando  d' ignava 
Lingua  mostrossi,  e  proferir  non  valse, 
Dovendo  predicar  a  gente  prava. 


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Il  caos  —  Selva  prima 


27 


Chi  fii  la  donna,  dissi,  cui  si  calse 

Gitarmi  in  terra  nudo,  al  vento  e  pioggia, 
Onde  '1  mio  corpo  di  gran  gelo  ne  alse  ? 

Ella  sorrise,  lagrimando,  in  foggia 

Di  chi  nel  petto  amar  e  dolce  copre, 
Poi  disse  :  eternamente  non  s'  alloggia 

In  questa  terra,  ne  si  cela  e  scopre 
Il  sol  eternamente  :  sol  un  franco 
E  fermo  stato  è  molto  al  ciel  dissopre. 

Di  là  cadesti  e  sei  per  montarvi  anco, 

Se  'n  questa  umana  vita  di  due  strade 
Dritto  sentiero  pigli,  e  lasci  '1  manco. 

Però  eh'  al  fin  de  la  più  molle  etade 
Ti  trovarai  su  1  passo  di  Eleuteria, 
Che  per  doi  rami  è  guida  a  dna  contrade. 

Quinci  ratto  si  viene  a  la  miseria. 

Quindi  al  pregio  acquistato  per  lung'uso. 
Che  s'  ha  quanto  di  aver  si  dà  materia. 

Over,  sia  dunque  tempo,  che  'n  ciel  suso 
Ritornerai  vittor  di  questa  giosti-a, 
O  cascherai  di  quel,  che  sei  piii  giuso. 

La  donna,  che  sì  cruda  ti  si  mostra, 
Fidel  ancilla  del  eterno  padre. 
Non  odiar,-  perchè  è  la  madre  nostra, 

Nosti'a  non  pur,  ma  d'  ogni  pianta  madre, 
Almafisa  chiamata,  che  riceve 
Sua  faina  in  ^variar  cose  leggiadre. 

E  s' or  il  mondo  f  ha  cangiato  in  neve  ; 
Non  d' aspettar  f  incresca,  perchè  i  lidi 
Rinovellar  de  fiori  ancor  ti  deve. 

Ne  sia  perch'  animale  alcun  invidi 

Uomo  per  piume,  o  squame,  o  pel,  che  s'  abbia. 
Ne  perchè  sappian  tesser  antri  o  nidi  ; 

E  tu  sol  nudo  isposto  al  empia  x-abbia 

Di  Borea,  veda  ogni  vii  canna  e  legno 
Armato  contra  1  freddo  ed  atra  scabbia. 

Questo  forse  ti  pare  d'  odio  segno. 

Pur  sta  sicuro,  e  fa  che  ti  conforte, 
Ch'odio  non  è,  ma  sol  un  breve  sdegno. 


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28  II  caos  —  Selva  prima 


S'  odio  tal  fosse,  ti  darebbe  morte, 

Ne  avrebbeti  produtto  Dio  giamai. 
Ne  fatto  del  suo  regno  al  fin  consorte. 

O  me  felice,  dissi  allor,  non  mai 

Esser  nasciuto,  o  senza  altra  vittoria 
Di  carne,  gioir  sempre  in  gli  alti  rai. 

Ne'  rai,  quella  ri&pose,  de  la  gloria, 
De  cui  ragioni,  per  gioir  non  eri. 
Se  pria  non  dato  avesse  qui  memoria. 

Alma  non  fa,  ne  fora  mai,  che  speri, 
Innanzi  d'  està  vita  i  vari  affanni. 
Viver  del  ciel  in  que'  lunghi  piaceri. 

Guarda,  figliuol,  che  forse  tu  te  'nganni, 
S'  esser  for  eh'  in  idea  ti  pensi  etemo. 
Nauti  la  forma  de'  corporei  panni. 

Li  quali  ebber  principio  dal  sopemo 

Padre,  con  Y  alma  scesa  in  questi  guai, 
.  Ove,  de  la  vertù  se  col  governo 

Di  questo  vento  Y  onde  sosterrai. 

Che  non  ti  caccia  quinci  e  quindi  a  voglia, 
0  lode,  o  fama,  o  pregio  che  n'  avrai. 

Però  d'  esser  nasciuto  non  ti  doglia. 

Ne  di  Almafisa  il  sdegno  oltra  ti  prema, 
Che  'n  ciel  dei  riportar  felice  spoglia. 

E  salirai  sopra  la  cinta  estrema. 

Che  le  soggete  del  suo  moto  avisa, 
E  molto  di  lor  proprio  moto^  scema. 

Anchinia  industre  sono,  sempre  fisa 

Supplir  ai  mancamenti  con  beli'  arte. 
Se  mancamento  è  in  quella  d'  Almafisa. 

Ne  son,  quand'  ella  cessi,-  per  mancarte 
Di  pronti  avisi  e  di  sagaci  modi 
Scoprendoti  mie  prove  in  ogni  parte. 

Fra  tanto  così  stretto  in  questi  nodi 

Voglio  tenerti,  fin  che  a  tempo  ritto 
Ti  sosterrai  su  piedi  fermi  e  sodi. 

Ma  viene  ecco  mia  sore,  eh'  en  Egitto 
Uscita,  da  Caldei  l' uman  dottrina 
Portò  de  le  scienze  a  suo  profitto. 


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Il  caos  —  Selva  prima  29 


Ed  anco  è  audace  sì,  eh'  assai  vicina 

Sovente  a  Dio  poggiando  si  ritrova, 

E  vede  lui  d'  una  persona  e  trina. 
Costei  r  altezza  di  natura  prova, 

Distingue,  insegna  in  argomenti  fermi, 

Ma  sopra  lei  sol  contemplar  le  giova. 
Che  sa  quanto  sian  debil  ed  inermi  ^ 

Gli  sensi  imiani  e  la  divina  altura  ,^ 

Non  che  i  ragionamenti  ottusi  e  'nfermi.  | 

Costei  la  terra,  il  mar,  il  ciel  misura,  i| 

Nomerà  le  cagion  di  pioggie  e  venti,  | 

Coli'  osservar  di  stelle  ogni  mistura. 
Costei  quk  giù  gli  armonici  concenti 

Seppe  cavar  su  dal  soave  moto. 

Per  levamento  de  V  afilite  genti. 
Costei  de'  spirti  con  vigor,  Y  ignoto  .^ 

Cognito  fa,  li  quali  sotto  Y  etra  •   ^ 

Perdon  ne  l'aere  più  dal  ciel  rimoto.  ' 

Costei  sa  le  virtù  d'  ogni  erba  e  pietra.  * 

Orando  persuade  il  giusto  il  torto,  v 

E  canta  e'  gesti  altrui  nel  aurea  cetra. 
Senza  costei  non  è  stabil  conforto  \  ^ 

Di  questo  mare  al  travagliato  corso,  ,/j 

Da  lei  tu  sempre  avrai  secmo  porto.  f  i 

Ed  io  con  lei  ti  mostrerò  quell'  Orso  f  i 

Con  r  Orsatino  suo  (l),  che  sian  tuo  guida  ! 

Per  ogni  spiaggia  e  periglioso  dorso.  \ 

Non  sarà  vento  mai,  che  ti  divida,  -  \ 

Stanne  sicuro,  dal  governo  loro  ;  i 

Che  la  sua  luce  altera  no  '1  conquida.  ] 

Quel  di  Vinegia  sommo  concistoro 

Muove  sotto  costei  lo  gran  stendardo, 

E  pose  in  man  de  l' Orso  il  leon  d'  oro. 

(1)  Allude  a  Camillo  Orsini  capitano  generale  dei  Veneziani,  ed  al 
di  lui  flgUuoletto  Paolo,  del  quale  il  Folengo  era  precettore.  Al  giovinetto 
Paolo  dedicò  gli  esametri  posti  in  fine  deir  Orlandino,  e  fu  durante  la  sua 
dimora  presso  cotesta  nobile  famiglia  romana  che  compose  e  stampò  tanto 
r  Orlandino  che  il  Caos. 


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30  II  caos  —  Selva  prima 


Orso  non  men  di  senso,  che  di  guardo 

Pronto  a  le  imprese  liberal  e  schietto, 
Veloce  al  perdonar,  a  V  oiite  tardo. 

Parlava  la  dongiella,  e  gran  diletto 
Favoleggiar  di  quello  si  prendea, 
Quando  Y  altra  giungendo  a  lei  rimpetto, 

Con  voce  e  viso  altier  così  dicea. 

TECNILLA. 

Ou,  presto,  Anchinia,  su,  che  tardiam  noi? 
Esca  d' impaccio  ornai,  ne  più  si  lasce 
Tanto  bel  spirto  avolto  in  quelle  fasce, 
Ch'  aver  etemi  in  ciel  dee  i  giorni  soi. 

ANCHINIA. 

jl  ar  una  impresa  tostamente  e  bene, 
Che  d'  alto  pregio  ed  eccellente  sia, 
Nostra  vertù  non  è,  Tecnilla  mia. 
Ma  solo  al  re  celeste  ciò  conviene. 

Egli  sol'  è,  elle,  tra  '1  pensier  e  V  atto, 

Non  cape  tempo,  quanto  esser  può  breve  ; 
Che  produt^endo  un  fior  non  ha  men  leve 
Fatica,  eh'  ebbe  a  far  quanto  è  mai  fatto, 

Quest'  animai  è  di  maniera  tale. 

Che,  qual  sia  per  venir,  non  vien  sì  presto  ; 
Cosa  non  già  d'  altro  animai,  che  questo 
Vive  dapoi,  quel'  è  caduco  e  frale. 

Però  gran  tempo,  ove  1'  arte  s' impaccia. 

Va  tanto  più.  quand'  è  Y  opra  più  degna, 
Tu  stessa  el  sai,  ne  alcun  alti-o  te  'nsegna, 
Se  non  la  prova  e  le  tue  stanche  braccia. 


N 


TECNILLA. 

on  le  dir  stanche,  ove  '1  sudor  gradisce  ; 
Che  un  dolce  incarco  mai  non  fa  strachezza  ; 


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Il  caos  —  Selva  prima  31 


Oade,  quanto  lo  induggio,  la  prestezza 
Perfettamente  ogni  opra  sua  compisce. 

Ch'  ove  intervien  de  nostri  alti  pensieri 
Volunteroso  ed  avido  consenso, 
Si  pria  r  aflfetto  e  poi  l'effetto  immenso 
Cresce,  eh'  al  fin  non  ha,  che  più  alto  speri. 

Io  sola  in  r  uomo  tutti  e'  miei  concetti, 
Lieta,  riposi,  e  non  in  altra  cosa, 
E  tu  Almafisa,  benché  neghitosa 
Gli  sei,  non  temo  già  che  '1  sottometti. 

ANCHINIA. 

J.  aci  non  dir  così,  germana  sciocca, 

Ch'  error  di  lingua  va,  ne  mai  ritoma, 
Troppo  sei  baldanzosa,  e  chi  le  corna 
In  ciel  voi  porre,  al  fin  giù  si  trabocca. 

Natura  non  pur  V  uomo,  ma  .più  d'  uomo 
Se  cosa  altera  nasce,  per  la  chioma 
La  tien  al  segno,  egli  la  grave  soma, 

Volendo  o  no,  se  'n  porta  ximile,  e  domo. 

TECNILLA. 


s 


i  ;  quando  Y  arte  mia  non  vi  s'  arrisca 
Opporsi  a  quante  passion  e  onte 
Fargli  può  mai  quella  soperba  fronte, 
Ch'  ei  sotto  soi  flag-elli  s' inutilisca. 


''o^ 


ANCHINIA. 

A.  u  fermamente,  se  non  tutta,  in  parte 
Sei  fatta  stolta  e  garrula,  Tecnilla, 
La  qual  in  foggia  d'  arrogante  ancilla 
A  tua  madonna  crediti  aguagliarte. 

So  ben  ch^  ogni  pensier  hai  d' imitarla, 

E  volta  in  tal  desio,  sempre  la  invidi, 


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32  II  caos  —  Selva  prima 


Onde,  perchè  non  mai  la  giugni,  gridi 
E  latri,  come  obi  d'  altri  mal  parla. 

Ma  sta  sicura,  che  senz'onda  il  mare, 
Senza  splendor  il  sole,  senza  belve, 
E  nauti  senza  augelli  fian  le  selve. 
Oh'  un  picciol  neo  mai  lei  poscia  eguare. 

E  ciò  saper,  non  m'  è  durezza  alcuna, 

Quando  eh'  io  d'  ambe  voi  son  V  aiutrice, 
Ed  anco  Pira  (1)  donna  ferma  altrice, 
Di  tutte  prove  vien  meco  in  quest'una 

Sentenza,  che  natura  in  un  momento 

Formando  un  picciol  vermo,  eccede  tanto 
L'  arte  operante  al  sforzo  estremo,  quanto 
Ogni  vii  cosa  V  ampio  fermamento. 

Di  che,  qui  darti  intendo  un  sano  aviso, 
Se  alcuna  è  in  te  virtù  la  riconoscili 
Sol  d' Almafisa,  che  se  i  monti  e  boschi 
Ci  nega,  V  opre  nostre  son  un  riso. 


TECNILI^. 


N 


on  far,  Anchinia,  più  di  ciò  parole, 
So  ben  eh'  industria  in  lo  finger  natura 
Fu  sempre  vaga,  onde  non  ha  misura 
Lo  giudice,  che  tien  la  parte  sola. 


ANCHINIA. 

>e  d'  adular  son  vaga  nostra  madre, 

Tu  adulterarla  più,  che  'n  1'  altrui  vista 
Fai  naturai  quel  eh'  opra  è  di  sofista. 
Ne  men  le  mani  hai  de  le  voghe  ladre. 


(l)  Pirra,  moglie  di  Deucalione.  Vedi  la  leggenda  di  questi  due  per- 
sonaggi mitologici  relativamente  alla  riproduzione  del  genere  umano,  di- 
strutto dal  diluvio,  detto  di  Deucalione. 


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GGfogle 


1 


Il  caos  —  Selva  prima  33 


M 


TECNILLA. 


allegi'o  ben,  che  te  stessa  condanni, 
O  scema  d' intelletto  ;  non  f  accorgi 
Quanto  di  scorno,  me  biasmando,  porgi 
A  te  medema,  e  '1  tuo  veder  appanni  ? 

Son  io  ne  Y  opre  mie  più  da  ragione 

Che  dal  industria  mossa,  e  'n  Y  opra  imago, 
De  la  viril  Etìa  (1)  più  m'  apago, 
.    Che  'n  la  tua  ornata  sol  di  fizzione. 

Che  quanto  avanzar  puoi  de  le  nostr'  opre, 
T' industri  porlo  in  grembo  d'  avarizia, 
E  fai  così,  che  Y  empia  tua  malizia 
Col  manto  mio  negli  occhi  altrui  si  copre. 

Però  qual  meraviglia  se  la  fraude 

Di  verità  sta  involta  ne  la  pelle  ? 
E  s' imputate  al  arte  sian  le  felle 
Tue  astuzie,  onde  Almafisa  ride  e  plaude  ? 

Sen  ride  e  plaude  in  foggia  di  eh'  altrui 

Odiando,  il  vede  scorso  in  qualche  scherno. 
E  tu  quella  pur  sei,  che  nel  inferno 
T' ingegni  penetrar  ai  luoghi  bui. 

E  trame  la  cagion  di  tante  risse. 

Furti,  omicidi,  stupri,  e  sacrilegi. 

Dico  '1  metallo,  con  cui  adorni  e  fregi 

Le  menti  umane  sì,  che  'n  quel  stan  fìsse  ; 

Ne  più  s' inalzan  a  specchiar  il  lume, 
Ch'  io  di  natura  posi  oltra  la  cima, 
E  men  d'  un  arca  d'  or  si  prezza  e  stima 
XTn  atto  generoso  e  bel  costume. 

Ma  perchè  Y  ingordigia  di  quel  mostro, 

C  ha  ventre  e  morso  d'  adamante  e  foco^ 
Empir  non  puoi,  eh'  ogni  esca  gli  par  puoco, 
E  va  fremendo  in  questo  mortai  chiostro. 

Tu,  che  levarmi  d'  arte  il  nome  cerchi. 


(1)  Etia,  0  Etio,  0  Protogenia,  figlia  di  Deuculioiie  e  Pirra,  e  madre 
di  Etlio. 


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1 

:t'  34  II  caos  —  Selva  prima 

p:  E  quel  che  Alchimia  si  dimanda  pormi, 

^--  Altri  metalli  in  or  pai-  che  trasformi  : 

•'  Oro  non  sono  ed  esser  pur  alterchi. 

A  Misera  che  tu  sei,  non  vedi  chiaro 

i^,.  Ciò  che  fai  senza  l'arte  sa  di  froda? 

y,:^  Non  vedi  ben,  che  non  si  rompe,  o  snoda 

Il  laccio  che  a  la  gola  tien  lo  avaro  ? 
Quanto  meglio  farai  non  dipartirti 

Dal  primo  nostro  rito  e  modi  antiqui, 
E  'nvestigar  in  ciel  qual  sian  H  obliqui, 
E  qua'  gli  dritti  segni,  e  più  alto  i  spirti 
Che  causan  e'  duo  moti  e  tante  fiamme 

Scoperte  al  uomo  nostro,  che  'n  la  culla 

Qui  tieni  avolto  come  cosa  nulla, 

Cui  romper  già  s'  affretta  Cloto  il  stamme. 


s 


ANCHINIA. 

1 


io  sì  rubalda  qual  or  m'  hai  depinto 
Io  teco  fusse,  o  maldicente  donna, 
Rubalda  anco  sarei  con  mia  madonna, 
C  ha  fatto  r  uomo  e  non,  come  tu,  finto. 

Tu  fingi  r  uomo,  anzi  tii  '1  stempri  e  spezzi, 
Tu  '1  snervi,  tu  '1  disossi,  guasti  e  spolpi, 
E  poi  se  mal  gli  vien,  natura  incolpi, 
Che  più  d'  un  uomo  una  formica  apprezzi. 

Dimmi,  insolente  donna,  perchè  resti 

Con  quella  forza  tua,  che  d'  Almafissa 

Passa  r  altezza,  si  la  sai  prolissa, 

Oprar  che  mal  alcun  non  1'  uomo  infesti  ? 

Se  ferreo  è  il  nervo,  se  d'  azzale  è  il  braccio. 
Se  tant'  è  '1  tuo  valor,  eh'  aver  ti  vanti, 
Perchè  non  smovi  le  cagiou  de'  tanti 
Uman  affanni,  febre,  caldo  e  ghiaccio  ? 

Perchè  non  freni,  se  la  grazia  tua. 

Ove  si  splende,  parla  sempre  il  vero, 
Queir  Eolo  de'  venti,  e'  ha  l' impero 
E  fa  sentir  altrui  la  forza  sua? 

Perch'  anco  in  cielo,  d'  Orlon  a  tergo 


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Il  caos  —  Selva  prima  35 


Latrando  un  picciol  cane,  tanta  rabbia 
Sparge  d'  ardor,  e  tanf  umor  e  scabbia 
Diffunde  il  drago  dal  suo  eterno  albergo  ? 

Ultra  dirò  :  per  qual  cagion  non  svelli 
De  le  sanguigne  mani  di  Taneta 
La  falce,  che  giamai  non  si  acqueta 
Troncar  gli  umani  e  farne  polve  d'  elli  ? 

Taneta  i  dico  sì,  atra  ninfa  e  cruda. 

Che  tuoi  Fiatoni  e  Socrati  non  scelse, 
Anzi  quanto  le  teste  son  più  eccelse 
Lor  spezza,  e  d'  elli  tu  ne  resti  nuda. 


TECNILLA. 

l/uanto  a  le  dua  stagioni,  al  uomo  infeste. 
Non  ti  rispondo,  perchè  già  la  impresa 
Ti  diedi  di  ciò  degna  far  la  spesa, 
Contra  lor,  d'  ombre,  tetti,  piume  e  veste  ; 

A  d'  altii  morbi  assai  per  te  si  occorre, 
Cli'  hai  simil  esercizio,  ne  vergogna 
Ti  paia  impreso  aver  da  la  Cicogna 
Un  ventre  adusto  foggia  per  dipori'e. 

T^  come  a  la  mia  ninfa  Filomusa 

La  tibia  per  isporre  il  canto  usata 

Trovasti  già,  così  ha  farmagia  grata 

La  tromba,  eh'  al  purgar  un  ventre  s'  usa. 

Di  ta'  remedi  al  miser  uomo  e  schermi 
Contra  1'  offese  di  natura  cerco, 
Studio  ti  vien,  e  poi  la  laude  e  '1  merto, 
Perchè  sollevi,  Anchinia  mia,  gì'  infermi. 

Ma  quando  a  quel,  che  V  invincibil  ferro 
Del  improba  messora  frenar  debbia. 
Voglio  non  puoter  farlo,  che  di  nebbia, 
Per  mezzo  suo,  gli  alti  intelletti  sferro. 

La  morte  a  miei  seguaci  è  un  esca  dolce, 
E  di  natura  for  del  fango  i  purga, 
Ed  è  cagion,  eh'  im  alma  d'  ombra  surga 
Nel  alta  luce,  di  che  '1  mondo  folce. 

Qual  è  chi  viva  e  non  vedrà  la  morte  ? 


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36  II  caos  —  Selva  prima 


David  cantava  lieto  ne  la  cetra,  , 

Bramoso  il  gentil  spirto  d'  està  tetra,  ' 

Prigion' uscir  a  la  celeste  corte.  | 

Però  di  meglio,  eh'  io  puotendo  tiri 

Tanti  miei  figli  tosto  d'  està  tomba,  | 

Ch*  un  cor  non  più  s' incende  al  son  di  ti-omba 
D'un  alma  santa  a  gli  ultimi  sospiri.  | 

Ne  farle  può  natura  più  grand' onta, 

Che  'n  questa  vita  sua  menarla  in  lungo,  i 

La  qual  può  invidiar  un  fior,  un  fungo,  | 

Ohe  nasce  e  mor  fra  un  sol,  eh'  ascende  e  smonta. 


ANCHINIA. 


l^tolto  parlar,  se  non  stolta  risposta. 

Potrebbe  aver,  onde  chi  sempre  tacque 
A  gli  insolenti  detti,  sempre  piacque, 
Dico  quanto  al  clistere,  o  sia  sopposta. 

Bensì  potrebbe  un  portico,  un  palagio, 
Un  vestal  tempio  e  un  anfiteatro 
Addiure  in  loda  mia,  1'  arme,  1'  aratro. 
La  nave,  e  tante  cose,  ma  '1  malvagio 

Rancor  t'  accieca,  e  legati  la  lingua 

Che  non  può  dir  quel  che  ragion  la  sferza. 
Tu  non  sei  prima,  ne  seconda,  e  terza. 
Quando  che  V  ordin  nostro  si  distingua. 

Se  ti  credi  esser,  non  di  te  son  quarta. 
Roditi  pm'  se  sai,  che  non  ti  cedo, 
E  s'  attendermi  voi  mentre  eh'  io  riedo, 
Possio  condur,  chi  tal  dubbio  diparta. 


TECNILLA. 


0 


temeraria  e  arrogante,  mira 

Come  si  gonfia  questa  fabre  vile  : 

Qual  giudice  sarà  tanto  sottile. 

Che  nostra  lite  concia?  dimmi,  è  Pira? 


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Il  caos  —  Selva  prima  87 


Dico  quell'  altra  de  le  prove  mastra, 
Che  come  tu  vantandosi  va,  eh'  io 
Cosa  che  vaglia  senza  lei  non  spio, 
E  di  Almafisa  appellami  figliastra. 


ANCfflNIA. 


V. 


antarsi  drittamente  può  qualunque 
Trovasi  aver  servito  qualche  ingrato. 
Che  quanto  ben  è  in  te  non  Y  hai  trovato, 
Se  non  per  il  suo  mezzo,  e  pur  ovunque 

Esser  ti  trovi,  eh'  altri  non  conosca 
U  astuziette  tue  donde  prevali. 
Ti  fai  sì  grande,  che  s'  avessi  1'  ali 
Così  d'  ogni  altro  augel  com'  hai  di  mosca, 

Egual  salir  vorresti  al  gran  monarca  ; 
Lo  quale  sol  voi  essere,  che  senza 
Sian  r  opre  sue  d'  alcuna  esperienza. 
Ove  egli  pienamente  e  ratto  varca. 


TECNILLA. 


Di 


"i  me  medema  meco  mi  vergogno  ; 
Trovandomi  altercar  con  essa  teco. 
Hai  forse  il  capo  tepido  di  greco. 
Ubriaca  che  tu  sei,  eh'  ancor  bisogno 
Farrotti  aver  del  tempo,  ch'hai  qui  speso 
In  dirmi  oltraggi,  meretrice  lorda? 


ANCHmiA. 


N< 


on  mi  toccar,  Tecnilla,  questa  corda. 
Che  peggio  sentirai  quel,  e'  ho  sospeso 
Di  lingua  in  cima.  Or  taci  e  sia  tuo  meglio. 
Dir  onte  altrui,  ne  udirle  voler  poscia 
È  di  pazzo  costume,  ma  d'  angoscia 
Mentre  sei  pregna,  va  mirarti  al  speglio. 


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38  II  caos  —  Selva  prima 


Se  vergognarti  voi  più  del  tuo  volto 

Fatto  di  mostro,  per  soverchia  furia. 
Che  litigar  qui  meco  e  dirmi  ingiuria, 
Le  quali  di  te  meglio  forte  ascolto. 


TRIPERUNO. 


E. 


iran  le  due  sorelle  omai  sì  d' ira, 
Per  la  puntura  di  sue  lingue,  in  cima. 
Che  fu  tra  lor  per  esser  pugna  dira. 

Ma  grave  donna  di  molt'  altre  prima. 
Dolce  cantando,  fuvvi  sopragiimta, 
La  cui  beltà  non  quanto  sia  s'  estinui. 

Un  arpa  con  sua  voce  ben  congiunta 

Fece,  che  da  le  dna  già  in  arme  prone 
La  gara  venne  tostamente  sgiunta. 

Latte  di  tigre,  o  sangue  di  dragone 

Ben  mostrarebbe  aver  beuto  infante, 
Chi  non  saltasse  udendo  sua  canzone. 

Non  è  di  pietra  cor,  non  d' adamante, 

Non  di  Neron,  Mezenzio,  Erode,  Siila, 
Che  non  si  dileguasse  a  lei  davante. 

Onde  non  pur  Ancliinia,  con  Tecnilla 
Lasciar  V  ingiurie  fattesi,  ma  sono 
E  questa  e  quella  pifi  che  mai  tranquilla  ; 

Anzi  legiadre,  al  numerabil  sono. 

Di  diece  corde,  mosser  una  danza. 
Dandosi  un  bascio  ad  ogni  sbalzo  nono. 

Quivi  Almafisa  venne  con  V  orranza. 
Fra  mille  ninfe  d'  arbori  de  fiiuni, 
Ch'  ognun  concorre  a  quella  concordanza. 

Ne  men  scherzan  in  cielo  e'  chiari  lumi, 

Nel  mar  e'  pesci,  e  'n  cielo  quei  del  volo, 
Le  fiere  in  terra,  e  i  serpi  ne  lor  dumi. 

Stavami  ne  le  fascie  stretto  e  solo, 

Si  come  r  augelletto,  il  qua!  distende 

L'  ale,  ma  non  s' innalza  e  n'  ha  gran  dolo. 

Chi  su,  chi  giù  quel  tutto,  che  s' intende 

Dal  uomo  se  non  a  pieno,  almen  in  parte, 


I 


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Il  caos  —  Selva  prima  39 


Va,  vien,  traversa,  coito,  monta  e  scende. 

Ciascun  mai  d'  Omonia  non  si  diparte  : 
Così  la  cantatrice  udì  chiamare, 
Che  i  passi  altrui  col  canto  suo  comparte. 

Io  che  r  eiTante  machina  danzare, 

Per  quel  dolce  concento,  vidi  al  moto 
Universal  e  poi  pai-ticolare. 

Di  quei  legami  tutto  mi  riscuoto. 

Come  colui,  che  lungo  indugio  annoi. 
Dovendosi  asseguir  qualche  suo  voto. 

Svelsi  di  quelle  scorze  un  braccio,,  e  poi 

Con  quella  svelta  man,  che  i  nodi  sterpe. 
Tanto  cercai,  eh'  usciron  ambi  doi. 

E  con  quel  modo,  eh'  un  immondo  serpe. 

Vedendo,  ov'  era  '1  ghiaccio,  nato  il  fiore 
Si  sbuca  lieto  d'  un'  angosta  sterpe, 

Dove  si  spoglia  il  vecchio  corio  fore 

Tutto  d'  argento,  ed  or  fassi  più  cinte 

Del  ventre  al  capo,  ed  or  segue  '1  suo  amore, 

Tal  io,  poi  che  le  spoglie  risospinte 

M'  ebbi  d'  addosso,  per  danzar  su  m'  ersi. 
Ma  fumo  dal  desio  mie  forze  vinte. 

Che  surto  in  piede  starvi  non  soffersi. 
Anzi  cascai,  donde  corse  a  comporre 
Anchinia  un  carro,  il  qual  meco  si  versi. 

Su  tre  rotelle  il  carriuolo  corre. 

Ed  è,  si  come  io  son  di  lui,  mio  guida. 
Che  al  passo  infermo  e  debile  soccorre. 

Di  ciò  par  ch'Almafisa  se  ne  rida, 

Che  '1  legno  arguto  poggia  ovunque  poggio, 
E  che  r  industre  Anchinia  è  che  m'  affida. 

Ma  con  le  mani  a  lui  mentile  m'  appoggio, 
E  ir  con  seco  quinci  e  quindi  bramo. 
Ecco  me  'ntoppo  in  qualche  adverso  poggio. 

Di  che  sosopra  il  cari'o  e  io  n'  andiamo, 

Qual  resta  integro,  e  io  n'  ho  rotto  '1  naso, 
E  che  ritto  mi  torni  Anchinia  chiamo. 

Anchinia  mi  rileva,  e  d'  ogni  caso 

Per  le  percosse,  eh'  atterrato  piglio, 
Presta  ricorre  del  onguento  al  vaso. 

Ed  io,  eh'  oltra  '1  dolor  esser  vermiglio. 


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40  II  caos  —  Selva  pkima 


Comprendo  il  lito  del  mio  sangue,  invoc 
Lei  con  la  mano  posta  al  pesto  ciglio. 

Ma  quella  mi  risana,  e  anco  al  gioco 
Di  quel  mio  tal  destriero  mi  riduce, 
In  fin  che  da  me  stesso,  a  poco  a  poco. 

Ir  poscia  senza  il  carro  e  altro  duce. 


SESTINA  LI  CUI  CAPI  VERSI  DICONO  QUELLA  SENTENZIA. 

CONCORDANTIA  —  DVRANT  —  CVNCTA  —  NATVRE  —  FEDERA. 


URANIA. 


e 


ome  '1  primo  veloce  mobil  cielo 
O  pposto  a  quei,  che  volgono  le  stelle 
N  on  li  distempra  e  sé  tramuta  in  foco  ? 
C  om'  è  sospesa  ?  e  chi  sostien  la  terra  ? 

0  nde  con  lei  forma,  ritonda,  il  mare, 
R  itien,  e  mai  posando  non  ha  pace  ? 
D'  ima  concorde  e  ragionevol  pace 

A  vinse  1'  alta  causa,  cielo  a  cielo, 

N  emen  con  pace  in  magior  cerchio  il  mai'e 

T  iensi  a  la  terra,  e  giran  sette  stelle 

1  n  sette  sfere,  il  cui  centro  è  la  terra, 
A  nti  dal  aere  cinta  e  poi  dal  foco. 

D  ubbio  non  è,  che  '1  mondo,  o  in  acqua  o  'n  foco, 

V  erra  sommerso,  quando  la  lor  pace 

R  otta  sarà,  per  sfare  il  mar,  la  terra  (1). 

A  Uor,  che  de  fermarsi  il  nono  cielo, 

N  e  più.  rotarsi  '1  sol  con  le  sei  stelle, 

T  rarsi  nel  centro  di  la  teri'a  il  mare. 


(1)  È  singolare  la  nozione  che  il  Folengo  ha  delhi  sferacità  della 
terra,  e  del  suo  moto,  e  di  essere  centro  di  un  sistema  planetario.  Couie 
in  parte  sono  esatte  le  cognizioni  clic  rivela  di  possedere  circa  la  forma- 
zione plutonica  delia  terra. 

Il  Folengo,  oltrecchè  poeta,  si  intende  che  era  anche  scienzia4«. 


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Il  caos  —  Selva  prima  41 


0  rebbe,  fii  tempo  già,  su  V  alpe  il  mare  ; 
V  orar  il  mondo  deve  ancor  il  foco. 
N  on  fia  perpetuo  il  giro  de  le  stelle, 
C  he  al  fin  col  cielo  avran  quiete  e  pace. 
T  ratto  già  il  ceppo  uman,  o  su  nel  cielo 
A  starvi  sempre,  o  'n  centro  de  la  terra. 

N  on  t' invagir  dunque  omo  de  la  terra, 

A  nzi  contendi,  ove  di  gloria  il  mare 

T  u  lieto  solcarai,  salir  in  cielo, 

Ù  sempre  t'  arda  Y  amoroso  fuoco, 

R  iposto  d'  alma  in  alma  in  somma  pace, 

E  sotto  i  piedi  ti  vedrai  le  stelle. 

F  ece  r  alto  fattor  sopra  le  stelle 

E  giù  nel  più  profundo  de  la  terra 

D  uè  stanze,  Y  una  detta  etema  pace, 

E  r  altra,  di  perpetuo  foco,  mare. 

R  inchiuso  entro  la  terra,  al  ombre  è  il  foco, 

A  r  alme  gioia  eterna  su  nel  cielo. 


F 


è  Dio  r  uomo  di  terra,  che  'n  le  stelle 
Avesse  pace,  ma  chi  nacque  in  mare 
Trailo  dal  cielo  in  sempiterno  foco. 


TRIPERUNO. 


i^oscia  che  vide,  per  industi-ia  e  arte, 
Natura  finalmente  Y  uomo  in  piede. 
Correr  veloce  in  questa  e  'n  quella  parte, 

E  tesser  Y  animale,  il  qual  possedè 
Aitò  saper  e  di  ragion  dottrina. 
Che  fora  poi  d'  eterna  vita  erede. 

Con  lieto  e  dolce  aspetto  a  me  s' inchina, 
Qual  mansueta  madre,  eh'  al  figliuolo 
Prima  di  sdegno  fu  cruda  e  ferina. 

D' innumerabil  figli  dentro  il  stolo 


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42  II  caos  —  Selva  prima 


Da  lei  fui  ricondutto  al  bel  giardino 
Dove  altrui  vive  lieto  e  senza  dolo. 

Quivi  sotto  '1  pacifico  domino, 

Ed  aurea  stagione  di  accacia, 
Vissi  gran  tempo  semplice  bambino. 

Fin  eh'  indi,  mosso  poi  per  lunga  via, 
Fui  rÌ€ondutto  a  ritrovar  Altèa 
E  r  altra  donna  che  'n  nostra  balìa 

Conunette  ambe  le  strade  e  bona  e  rea. 


DE  LA    PUERIZIA    E   AUREA   STAGIONE, 

EUTERPE. 


Gì 


ria  rinovella  intomo  la  stagione, 
Ch'  eternamente  verdeggiar  solca 
Prima  eh'  avesse  Astrèa 
Gli  uomini  a  sdegno,  e  se  tornasse  ai  dei, 
Lasciando  in  lor  queir  altra  così  rea, 
Che  li  arde,  mentre  Febo  alto  s' impone 
Al  tergo  di  leone, 
O  quella,  che  dai  monti  iporborei 
Riporta  il  gielo  agli  Afri  e  Nabatei. 
Or,  che  V  occhio  del  ciel  aggiorna  in  tauro, 
Or,  che  '1  fior  spunta  ove  '1  ghiaccio  dilegua, 
Or,  che  '1  scita  col  indo  vento  tregua 
Fatt'  hanno,  e  dato  è  in  preda  il  tempo  al  Mauro, 
Zefiro  torna  in  colorar  i  lidi, 
E  i  pronti  a  tesser  nidi 
Vaghi  augelletti,  per  lor  macchie  errando 
Natura  van  lodando, 
C  ha  ricondotto  così  lieti  giorni, 
D'  aura  gentile  d'  erbe  e  fronde  adorni. 
Fermati,  Apollo,  pregoti,  nel  grado, 

Ch'  oggi  ascendendo  e  poggi  e  selve  abbellì, 
E  gli  am-ei  tuoi  capelli 
Tempratamente  spandi  al  universo, 
Onde  amorosi  leggiadre tti  e  snelli. 
Ne  vengon  gli  animali  tutti  al  vado 


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Il  caos  —  Selva  prima  43 

Non  d' Istro,  Gange  o  Pado, 

Ma  del  suo  naturai  obbietto,  verso 

C  ha  r  un  di  V  altro,  quand'  el  ciel  più.  terso, 

Verde  la  terra,  il  mar  tranquillo  e  piano. 

Fermati,  Apollo,  e  'n  sì  bel  trono  sedi. 

Fin  che,  a  le  mani,  al  collo,  a  1'  ale,  ai  piedi 

Del  tempo,  egli  scamparse,  aman  a  mano, 

S'  asseta,  tant'  è  vano, 

Pireno  e  Apenino  sian  appesi. 

Che  non  si  parta,  e  i  mesi 

Porti  con  seco  e  V  aura  e  '1  dolce  umore, 

Ch'  or  monta  in  ogni  foglia,  in  ogni  fiore. 
L'  aureo,  gioioso  e  mansueto  Aprile, 

Ch'  or  sparger  d'  ombre  i  verdi  campi  veggio, 

Piacciali  etemo  seggio 

Qui  prender  nosco,  eh'  altri  non  succeda. 

Partito  lui,  si  va  di  mal  in  peggio  ; 
•   Mentre  vi  spira  1'  aura  sua  gentile, 

Parca  non  sia,  che  file 

Umana  vita,  e  Morte  a  Pluto  rieda, 

Sol'  ombre  ove  posseda  ; 

Rinverdasi  da  se  omai  la  terra. 

Valete  aratri,  marre,  falci,  e  zappe, 

Non  più  vepri  saranno,  cardi  e  lappe, 

Quella  natia  vertù,  che  'n  lei  si  serra, 

Senza  eh'  altri  la  sferra, 

.Uscendo,  stessa  ci  dimostra  quanto 

Sia  di  natura  il  manto 

Piti  bello,  senza  1'  arte  e  più  verace, 

Ch'  opra  di  voglia  più  del  altre  piace. 
Ecco  di  latte  scorreno  già  i  fiumi. 

Sudano  mele  i  faggi,  oglio  li  abeti, 

E  su  per  que'  laureti, 

Celeste  manna  riccogliendo  vanno 

Le  virgin  ape,  e  i  rosignoli  lieti, 

C  han  d'  or  le  penne,  entro  purpurei  dumi. 

Nidi  d'  argento  e  fine  perle  fanno, 

Securi  di  rapina  od  altro  danno. 

U  im paventosa  lepre  lato  al  cane, 

L'  agnella  presso  al  lupo  queta  dorme. 

Che  tutti  li  animai,  già  in  lor  conforme, 


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44  II  caos  —  Selva  prima 


Natura  tene  in  sue  medeme  tane  : 

Securi  pesci  e  rane, 

Questi  da  l'ontra,  quelle  da  le  biscie, 

Non  è  chi  strida  o  liscie 

L'  un  contra  Y  altro  per  stracciarci  '1  pelo, 

Che  r  aurea  etade  già  scese  dal  cielo. 

Date  quiete.  Posti  li  aspri  giovi 

A  vostri  armenti  ornai,  duri  bifolci, 

Ed  a  que'  fonti  dolci 

Lasciateli  appressare  :  ne  quel  rivo 

Di  voi  sia  alcun  che  più  1  sostegna  o  folci, 

Ne  chi,  di  loco  a  loco,  lo  rimovi. 

Che  'n  questi  giorni  novi 

Non  è  di  libertà  chi  venga  privo. 

Cantati  anco  pastori,  che  1'  estivo 

E  freddo  ardore  non  privar  più  deve 

Di  latte,  od  appestar  e'  vostn  greggi. 

Non  più  clamosi  fori,  non  più  leggi, 

Che  ciò  vita  gioiosa  non  riceve. 

0  giovo  dolce  e  leve 

A  r  uomo  ancora,  il  qual  sprezza  fortuna  ! 

Siagli  pur  chiara  e  bruna, 

Che  chi  vivendo  non  fa  oltraggio  altrui, 

Securo  di  l' aurea  stagion  è  in  lui. 

E  simplicetta  e  pueril  canzone. 

Come  richiede  il  suo  stesso  soggetto, 

Fu  questa  mia,  dottissime  sorelle, 

Di  che  a  voi  chiama.  Non  son  io  di  quelle 

Ch'  Urania  scrive  con  si  bel  soggetto, 

E  n'  empi  il  sino  e  petto  * 

Ai  duo  novi  Franceschi,  Y  un  eh'  agnelli 

Canta  lupi  e  ruscelli, 

L'  altro  del  senator  1'  alta  pazzia, 

Ma  chi  fa  il  suo  poter  con  gli  altri  stia. 

FINISCE  LA  PRIMA  SELVA 
DEL  TRIPERUNO. 


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DIVVS  VATES 

OPTIMA  QVEQVE  DIES  MISE 
RIS  MORTALIBVS  AEVI 

PRIMA  FVGIT,  SVBEVNT  MOR 
Bl,  TRISTISQVE  SENEGTVS, 

ET  LABOR,  ET  DIR^  PARIT 
INCLEMENTI  A  MORTIS. 


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SELVA  SECONDA 


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5 


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CAOS 

DEL 

TRIPERUNO 


SELVA  SECONDA 


DIST. 

Unus  adest  triplici  mihi  nomine  vultus  in  orbe, 

Tres  dixere  Chaos,  numero  Deus  impare  gaudet. 


CA. 


YR. 


ITEXAST. 

Mintiadas  inter  Fulicas  mihi  sueta  phaselus 

Cantere,  nunc  tnmidis  Jiequore  fertur  aquis. 

Quonam  tanta  animi  fiducia  ?  nobile  sidus 
Astitit,  en  capiti  qua?  prant  Ursa  meo. 

Ursa  potens  mundi,  firmo  quem  torquet  ab  axe, 
Ursa  potens  pelagi,  qua  duce  nauta  canit. 


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PREFAZIONE 


CAOS. 


Or  pervegnuti  siamo  al  centro  confusis- 
simo  di  questo  nostro  Caos,  lo  cpiale  ritrovasi 
ne  la  presente  seconda  Selva  di  varie  ma- 
niere d'arbori,  virgulti,  spine,  e  pruni  me- 
scolatamente ripieno,  cioè  di  prose,  versi 
senza  rime,  e  con  rime  latine,  macaronesclii, 
dialoghi,  e  d'altra  diversitade  confusa,  ma 
non  anco  sì  confusa  e  rammeschiata,  che 
dovendosi  questo  Caos  con  l'intelletto  nostro 
disciogliere,  tutti  gli  elementi  non  subita- 
mente sapessero  al  proprio  lor  seggio  ri- 
tornarsi. 


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Il  caos 


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SELVA  SECONDA 


TRIPERUNO. 


D 


errori,  sogni,  favole,  chimere, 
Fantasme,  larve  un  pieno  laberinto, 
Ch'  un  popol  infinito,  a  larghe  schiere. 
Assorbe  ognora,  tien  prigion  e  vinto, 
Voglio  sculpir  non  ne  Y  antiche  cere 
Non  ne  le  nove  carte,  anzi  depinto 
Di  lagrime,  sudor,  di  sangue  schietto, 
Avrollo  in  fronte  sempre,  o  'n  mezzo  '1  petto. 

In  fronte  o  'n  mezzo  '1  petto,  ovunque  io  perga. 
Terrò  qual  pelegi'ino  mie  fortune  ; 
Datimi  o  muse,  una  cannuccia,  o  verga, 
Ch'  io,  scalzo  e  cinto  ai  fianchi  d'  aspra  fune. 
Veda  come  '1  sol  esca  e  poi  s' immerga 
Nel  Oceano,  e  come  ardendo  imbrune 
Qua  li  Etiopi,  e  Ik  di  neve  imbianchi 
Tartari  e  Sciti  del  bel  raggio  manchi, 


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52  II  caos  —  Selva  seconda 


Ma  poi  che  di  mia  sorte  il  duro  esempio 

Mostrato  abbia  del  mondo  in  ogni  clima, 
Fìa  cosi  noto  appesso  in  qualche  tempio 
Od  in  polito  marmore  s'imprima, 
Che  chi  mirando  '1  così  acerbo  ed  empio, 
Considri  ben  qual  sia  buon  calle,  prima 
Che  r  un  d'  ambi  sentieri  desta  vita 
Si  metta  entrare  al  ardua  salita, 

Oh,  ben  saggio  colui,  che  '1  suo  dal  mio 
Voler  avrà  diverso  ne  prim'  anni 
Di  nostra  sì  dubbiosa  etade,  ch'io 
Volendo  scorsi  ne  miei  stessi  danni, 
Travolto  in  vie  sì  alpestre  dal  desio, 
Ch'anco  ne  porto  il  viso  rotto  e  panni. 
Fin  che  mia  sorte,  poi  che  assento  in  alto 
M'ebbe,  giù  basso  farmi  fece  un  salto. 


TRIPERUNO. 


D. 


'el  innocente  ninfa  l'aurea  etade, 
n  bel  giardino,  le  colline,  i  fonti 
Vannosi  ornai,  che  '1  tempo  invidioso 
In  un  istante  quelli  b' ingiotisse. 

Bandito  dunque  sol  per  1'  altrui  fallo, 

Errava  quinci  e  quindi  ove  pur  l' alma 
Natura  mi  torcea  con  fidel  scorta. 
Era  quella  stagion,  quando  Aquilone 
Da  r  iperboree  cime  sibilando, 
In  vetro  i  fiumi,  in  latte  cangia  i  monti  ; 
Ckcciomi  dentro  un  bosco  tutto  solo. 
Tanto  vi  eiTai,  eh'  al  fine  mi  compresi 
In  le  capanne  de  pastori  giunto. 

Riposto  s'  era  Febo  drieto  un  colle, 

E  la  sorella,  con  sue  fredde  corna, 
Già  percotea  le  selve  e  ogni  ripa, 
Vago  di  riposarmi  su  lor  fronde. 
La  porta  chiusa  d'  una  mandra  i  batto. 
Al  sesto  e  nono  cenno  fammi  aperto. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  68 


Starsene  quivi  ben  rinchiusi  e  caldi 
Vidi  que'  pegorari,  al  foco  intomo 
Bere  acque  dolci  e  pascersi  de  frutta. 

Qual  stato  mai  perchè  si  sia  sublime 

V'ha  pai'C  al  pastoral  di  contentezza? 
Altri  di  strame  rifrescar  ed  altri 
Monger  vidi  gli  armenti,  altri  purgarli. 

Intenti  ancor  son  altri  gli  agnelletti 

Portar  di  luogo  a  luogo,  e  ritornarli 
Sotto  lor  madri,  e  altri  con  virgulti 
E  gionci  acuti  tessono  sportelle. 

Ma  parte  ancora  di  piti  verde  etade 
Intenti  sono  a  giovenili  giochi, 
Lotte,  salti  diversi,  e  slanzar  dardi. 
In  altra  parte  s'usan  dicer  versi. 
Toccar  sampogne  e  contrastar  di  rime* 
Altri,  de  più  attempati  di  lor  gregge. 
Trattano  s'han  più  spesa  che  guadagno. 
Vadon  e  riedon  altri,  più  robusti, 
Ricercando  le  màndre,  ove  ben  spesso 
Volpe,  lupi  selvaggi  e  più  gli  umani 
Soglion  discommodar  lor  santa  pace. 

In  ogni  lor  empresa  vanno  lieti. 

Amandosi  l' un  1'  altro  con  gran  fede, 
Mercè  che  '1  capo  lor  sa  T  arte  a  pieno. 

Ivi  raccolto  fui  nel  dolce  tanto 

Numero  lor,  e  fatto  di  sua  prole. 
Già  in  mezzo  al  corso  di  sua  lunga  via 
Rotavasi  la  notte,  passo  passo. 
Ecco,  dal  sommo  d' una  capannella. 
Dove  molti  pastori  guarda  fanno. 
Insieme  al  grande  aimento  con  lor  cani, 
Odesi,  dentro  una  mirabil  luce. 
Resonar  canti  e  dolce  melodia. 

Porgon  r  udita  e  sentono  che  :  Gloria 
In  excelsis^  dicean  i  bianchi  spirti  ; 
Ed  avisati  dove  '1  salvatore 
Nasciuto  giace  là,  con  allegrezza 
Tosto  da  noi  partiti  s'  aventaro 
In  quella  banda,  che  fu  lor  mesticata. 
Sol  io  ritratto  in  parte  for  degli  altri 


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54  II  caos  —  Selva  seconda 


Sedevami  pensar  tal  novitade, 
In  fin  che  ritornati  cose  oiTende 
Mai  non  udite  più  d'  un  fanciuUino 
A  noi  contaron  di  stapor  insani  (1). 

Ecco,  senza  far  moto  alcun  ad  elli, 
Tutto  soletto  quinci  mi  diparto, 
E  sollevando  gli  occhi  al  ciel  sereno 
Vidi  una  stella  rutilar  fra  1'  altre, 
Anti  scorgendo  sempre  il  mio  sentirò, 
Ne  mai  fermossi  finché,  al  santo  loco 
Giunto,  non  mi  vedesse  e  poi  smaritte. 
Ed  una  voce  ancor  dal  ciel  mi  venne, 
La  qual  dicea:  Felice  criatm'a 
Io  son  quella  verace  e  schietta  donna, 
Che  vai  cercando  in  terra  e  stommi  'n  cielo, 
Altea  (2)  mi  chiamo,  or  entra  qui  sicuro, 

E  poi  eh'  ebbe  parlato,  un  bel  concento 
8'  udiva  d'  arpe,  cetre,  plettri,  e  lire, 
Tacendo  poscia  fu,  non  so  chi  disse. 


TERSICORE. 


a 


'r  tienti  fermo  e  non  girar  altrove, 
0  spirto  avventuroso  di  tal  guida, 
Ma  cauto  va,  eh'  un  lupo  non  f  uccida, 
Lo  quale  altrui  dal  dritto  calle  smove. 

Ne  da  Y  antiche  leggi,  per  le  nove. 

Sia  mai  se  non  lesù,  che  ti  divida, 
Lo  qual  non  pur  è  saggia  scorta  e  fida, 
Ma  via,  che  da  vertù  non  si  rimove. 

Ben  vedi  a  quanta  gloria  il  ciel  ti  degna, 

Che  Dio,  qual  nome  può  dirsi  maggiore  ? 
Volse  addempii'  sua  legge  in  tuo  conforto. 

(1)  Credo  che  qui  alluda  non  a  Cristo  bambino,  ma  alla  strage 
degli  innocenti. 

(2)  È  la  seconda  volta  che  introduce  questo  persona^rgìo,  affatto  mi- 
tologico, dandogli  un  carattere  cristiano.  E  di  questo  strano  uso,  non  è 
questo  il  solo  esempio,  che  se  ne  hanno  di  altri  nel  Caos,  quale  nel  se- 
guente capitolo,  intestato  a  Tersicore. 


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II.  caos  —  Selva  seconda  55 


Egli  farsi  uomo  sol  per  te  non  sdegna, 

E  guida  tal,  che  'n  questo  uman  errore 
Conduceratti  di  salute  in  porto. 


TRIPERUNO. 


L 


ben  intesi  di  tal  voce  il  sono, 
Ma,  lasso  !  che  servarla  (1)  fui  poi  tardo, 
E  so  che  quanto  tuttavia  ragiono 
Non  vien  inteso,  ma  sotto  1  stendardo 
De  r  Orso  grande,  ove  posto  mi  sono,  (2) 
Spero  dir  chiaro  senza  alcun  risguardo. 
Or  dunque  in  una  grotta  entrai  soletto. 
Con  passo  lento  e  colmo  di  sospetto. 

Qui  la  più  bella  onesta,  saggia,  umile 
Donna,  che  mai  natura,  col  sopremo 
Suo  sforzo  e  col  di  rado  usato  stile. 
Finger  potesse  in  questo  ben  terreno, 
Avea  su  '1  strame,  in  loco  abbietto  e  vile, 
Trovavasi  al  bisogno  troppo  estremo, 
Riposto  un  suo  nasciuto  allor  infante. 
Nudo,  a  la  rabbia  d' Aquilon  tremante. 

E  se  d'  un  bianco  e  ligiadretto  velo. 
Levandosi  '1  di  testa,  non  fatt'  ella 
Qualche  riparo  avesse  al  crudo  gelo, 
Pensato  avrei,  che  1  parvolino  in  quella  , 
Paglia  mancar  dovesse,  e  lui,  che  'n  cielo 
Volge  coi  giri  soi  ciascuna  stella. 
Stringesse  la  stagion  orribil,  tanto 
Prender  gli  piacque  di  miseria  il  manto. 

Con  quel  contratto  volto  e  alto  ciglio, 
Ch'  alcuno  mira  cose  strane  e  nove. 


(1)  Le  due  edizioni  hanno  servala  che  ho  creduto  di  mutare  in 
servarla,  sembrandomi  che  Lo  volesse  il  senso. 

(2)  Allude  a  casa  Orsini  anche  qui  e  airospitalità  che  gli  accordava. 


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56  II  caos  —  Selva  seconda 


Stavami  prono  a  contemplar  quel  figlio 
Sì  di  me  stesso  for,  che  men  del  bove, 
Del  asinelio  men  ebbi  consiglio 
Di  riconoscer  lui,  che  '1  tutto  move, 
'  Essersi  carne  fatto,  non  per  boi, 

•'  Non  altri  bruti  nò,  ma  servar  noi. 

Un,  for  di  stile  e  uso,  uman  sembiante, 
Una  celeste  angelica  figura 
Di  quel  nasciuto  allor  allor  infante 
Fu,  eh'  al  veder  mi  tolse  ogni  misura. 
Che  s'  al  visibil  sol  non  è  costante. 
Or  eh'  al  divin  potea  nostra  natura  ? 
Bench'  era  in  carne  ascoso,  pur  non  potè 
Di  fora  non  aver  de  le  sue  note. 

Non  che  'ntendessi  allora  la  cagione 

Ch'  io  fussi  in  quel  fanciullo  sì  conquiso, 
Ma  vinto  da  non  so  qual  passione, 
1.  Più  tosto  che  ritrarmi  dal  bel  viso 

l*  Lasciato  avrei  non  pur  le  belle  e  bone 

1'  Cose  del  mondo,  ma  anco  il  paradiso, 

E  finalmente  io  sciocco,  temo  a  dirlo, 
Stetti  più  volte  in  voglia  di  rapirlo 

Rapirlo  meco  in  parte,  ove  sol  io. 

Nutrendo  '1  primo,  1'  adorassi  dopo. 
Sperando  non  mai  fora,  eh'  altro  Dio 
Maggior  di  lui  mi  soccon-esse  al  uopo  ; 
Quando  eh'  el  mundo  tant'  era  in  oblio, 
Che  rindo,  il  Mauro,  il  Scito  e  Etiopo 
^  Cingevan  il  gran  spazio,  ove  chi  '1  sole, 

(  Chi  '1  mar,  chi  un  sasso,  chi  '1  suo  rege  cole. 

i  Ma  forse  accorta  del  pensier  mio  folle 

In  far  tal  preda,  la  pudica  donna 
!  Levatolo  di  paglie  si  s'  el  toUe 

j  Li  grembo,  e  '1  ricoperse  nella  gonna, 

'  Ch'  esser  d'  uomo  veduta  già  non  volle, 

I  Mentile  li  porge  il  latte,  poi  V  assonna, 


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G. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  57 


E  assonnato  il  bascia,  e  tornai  anco 

Sul  strame,  a  lato  un  vecchio  gi-ave  e  bianco. 


Ma  non  si  tosto  .giù  posato  Y  ave,  ; 

Ch'  un  giovenetto  a  lato,  in  veste  bruna,  ^: 

Qui  sotto  entrando  porta  un  grosso  trave  i 

Di  ponderosa  croce,  e  altri  d'  una  \ 

Colonna  carco,  e  dopo  loro  grave  : 

E  longa  tratta  d'  angioli  s'  adduna  * 

Intorno  del  presepio  lagrimosa,  • 

Ciascun  in  man  avendo  una  sol  cosa.  \ 

Questo  di  spine  una  corona,  quello,  ■ 

Sopra  la  canna  una  spongia  bibace. 
Chi  un  chiodo,  chi  una  sferza,  clii  '1  martello. 
Chi  r  asta,  chi  la  fune,  chi  la  face. 
La  donna  quando  i  vide,  in  atto  bello 

Presto  si  leva,  e  vereconda  tace.  ^ 

Quelli  non  men  di  lei  onor  le  fanno. 
Poi  taciti  al  fanciullo  intorno  stanno. 

Dorm'  egli  in  atto  di  basciarlo  mille 
E  mille  volte,  ne  esseme  satollo. 
Par  che  nettar  ambrosia  e  manna  stille 
Dagli  occhi  soi,  dal  mento,  fronte  e  collo. 
Eran  le  cose  in  modo  allor  tranquille, 
Ch'  al  mondo  non  sentivi  un  picciol  crollo. 
Come  se  con  la  notte  Y  universo 
Stesse  nel  sonno,  co  Y  infante,  merso. 

Ma  dopo  alquanto  indugio,  ecco  '1  piccino 
Subitamente,  non  so  chi  disturba. 
Egli  alza  il  guardo  e  vedesi  vicino 
Cinger  intorno  la  celeste  turba, 
Ch'  ognun  sta  penseroso,  e  'n  terra  chino. 
Con  quelle  orribil  armi,  onde  si  turba 
Nel  volto  il  bel  sembiante  e  di  spavento 
Piange  tremando  come  fronda  al  vento. 

Si  come  al  vento  foglia  ti*ema  e  piange 
Ne  '1  viso  piega  mai  da  quella  croce, 


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58  Ih  CAOS  —  Selva  seconda 


E  mentre  qui  si  dole,  cruccia  e  auge, 

Quattro  angioletti,  in  lagrimosa  voce, 

Incominciar  un  inno  detto  il  Pange^ 

H  qual  pensando  ancor  m' incende  e  cuoce 

Del  amoroso  foco,  il  cui  soggetto 

Spezza  di  fiera,  non  che  d'  uom,  un  petto. 

Non  fu  già  pietra  in  quelle  mura,  pensi 

Un  cor  gentil  eh'  esser  dovea  la  madre, 
Che  non  s' intenerisse  ai  forti  intensi 
Gemiti  del  fanciullo,  a  le  leggiadre 
Rime  di  que'  cantori,  ond'  io  con  densi 
Sospiri  m'  avicino  al  bianco  padre, 
Col  qual  piangendomi  proposi  allotta 
Non  mai  distormi  più  di  quella  grotta. 

Grotta  gioiosa,  che  degnossi  '1  cielo 

Partir  de  le  sue  cose  in  mia  salute. 
Grotta  felice  in  cui  di  carne  il  velo 
Intorno  vidi  aver  T  alta  virtute, 
Grotta  salubre,  ove  servato  il  stelo 
Di  pudicizia  nacque,  tra  le  acute 
Mondane  spine,  il  fior,  tant'  anni  occulto 
Di. terra  uscito  senza  umano  culto. 

Poscia  che  i  quattro  spirti  bianchi  fine 
Poser  al  Funge  lingua  gloriosi^ 
Quel  da  la  croce,  ch'ha  laurato  crine, 
D'  avoglio  il  viso,  e  gli  occhi  sì  amorosi, 
U  ale  tessute  d'  oro  e  perle  fine 
Dritto  si  leva  in  piedi  con  ritrosi 
Guardi  ver  me,  stendendo  la  man  destra, 
E  la  croce  sostien  con  la  sinestra. 


GENIO. 


Uc 


I  omo  animale,  disse,  fra  gli  altri  solo  de  la  ragione 
capace,  che  de  gli  eterni  piaceri  con  meco  sei  ad  essere 
felicissimo  consorte,  non  già  perchè  ne  tu,  ne  di  tua  na- 


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Il  caos  —  Selva  seconda  59 


tura  alcuno    giamaì    facesse    impresa   veruna,   per  la  cui  ;i 

dignitade  ciò  guadagnar  si  potesse,  ma  l'infinita  d'Iddio  ! 

bontade  così  a  dover  avvenire   nel  principio  dispose.  Or  j 

odi  quale  e  quanta  verso  noi  uomini  sia  stata  di  lui  la 
benevolenzia,  lo  quale  da  V  antico  legame  di  perdizione 
per  scatenarvi,  già  non  sofferse  aver  a  schivo  se  istesso 
condonare  (1)  ad  essere  un  simile  vostro  di  cai'ne,  una  vit- 
tima, un  sacrificio,  un  miserabilissimo  spettacolo,  doven-  e 
dosi  egli  sottomettere  a  la  severa  legge  di  lei  non  pur 
conditore  ma  distretto  osservatore,  mostrandovi  con  esem- 
pio prima,  o  con  dottrina  poi,  per  quanto  piacevole  sen- 
tiero ciascuno  di  noi,  le  sue  vestigie  seguendo,  poti-ebbe 
al  lume  di  verità  pervenire.  Da  la  quale  per  V  infiata 
soperbia  de  gli  ignoranti  dottori,  e  saviezza  mondana,  -Y 
tutti  omai  sete  miserabilmente  sotto  V  empia  potestade 
d' un  tiranno  traboccati  :  lo  quale  sepolti  non  che  im- 
prigionati nel  puzzo  d'  ogni  sceleragine  sin  ad  ora  v'  ha 
ritardati.  Vedi  tu  cotesto  bellissimo  fanciullino,  questa 
leggiadretta  sopra  ogni  altra  criatura  ?  questo  uomo  di 
spii'to  e  carne  testé  nasciuto  ?  Lo  quale  so  che  ti  pare 
soave  tanto  che  già  di  non  voler  indi  partire  tu  ti  sei 
fermamente  deliberato.  Se  io  che  sol  spirito  sono,  cosi 
fussi  agevole  di  ragionar  la  lui  potenzia,  la  lui  maestade, 
la  lui  smisurata  benignitade,  come  tu  uomo  carnale  manco 
idonio  sei  ad  ascoltare,  potrei  quivi  acconciatamente  dar 
principio,  ma  debilissima  è  pur  troppo  da  noi  angioli  la 
natura,  e  viepiù  la  vostra  umana,  in  comparazione  di 
quella  profundissima,  incomprensibile,  e  impenetrevole 
divina.  Dilchè  sciocchi  e  presontuosi  furono  pur  troppo 
alquanti  dottori,  che  così  leggermente  a  tal  cosa  ispe- 
rimentare  si  sono  abbandonati. 

Ora  dunque  saperai  prima,  qualmente  la  intelligenzla 
del  sempiterno  padre,  la  quale  noi  similmente  prima  sa- 
pienza, e  divino  sermone  con  grandissimo  tremore  no- 
minamo,  tanto  di  vostra  salute  le  calse,  tanto  l' incom- 
mutabil  sua  natura  si  commosse  verso  di  voi  a  pietade, 
che  non  me,  non  alcun  altro  di  angelica  stirpe  si  elesse 
per  vostro  redentore  e  de  Y  inferno  destruggitore,  ma  da 

(1)  Le  due  edizioni  hanno  condonare,  che  credo  errato,  e  sia  invece 
di  condannare. 


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60  II  caos  —  Selva  seconda 


i 


se  medema,  volendo  oggimai  la  divinitade  sua  con  la 
uinanitade  vostra  conciliare,  discese  occiiltainente  dal 
empireo  nostro  ^n  questo  vostro  passibile  stato,  con.sti- 
tuendosi  ad  essere  con  essi  voi  fratello,  compagno,  e 
servitore,  quando  che  non  volse  il  benignissimo  figliuolo 
vestirsi  la  fonna  d' alcun  potente  signore,  ma  ben  gli 
piacque  con  perfettissima  umilitade  sottoporsi  a  vile  ser- 
vitude,  per  confutare  Y  alterigia  de  sapienti  mondani. 
Eccolo  quivi  d'  una  polcella,  mediantovi  (1)  la  verti'i  del 
Spirito  santo,  poverissimamente  nasciuto.  Dimmi,  uomo, 
dimmi,  animai  di  ragione,  qual  umiltade  di  cotesta  mag- 
giore potriasi  unqua  imaginare  ?  Parontì  forse  quelli 
duo  animaluzzi  vilissimi,  fra  li  quali,  su  '1  feno  lor,  egli 
'  giace,  convengano  a  la  omnipotenzia  di  sua  profondis- 
sima maiestade  ?  Parti  eh'  un  diversorio  immondo,  un 
presepio  de  buoi,  la  diroccata  stanza,  lo  notturno  pele- 
grinaggio,  la  freddissima  stagione  siano  al  divino  trono, 
a  la  celeste  beatitudine,  a  le  ierarchie  d' infiniti  spiriti 
convenevoli  e  corrispondenti  ?  Parti  che  questa  diminu- 
tezza d' un  infante  a  la  grandezza  del  creatore  e  fon- 
datore de  r  universo  s'  adegui  ?  Ma  quanto  più  di  mera- 
viglia prenderai  tu,  se  mai  sia  tempo,  che  Y  istrumenti 
orribili,  li  quali  con  questa  croce  intorno  a  lui  miri  es- 
sere portati,  tu  veda  crudelmente  adoperati  ne  la  inno- 
centissima  sua  persona?  O  gran  fortezza  di  pietade,  la 
quale  puote  1'  altissima  giustizia  così  piegare,  che  '1  padre 
per  riscotere  il  servo,  ti-aditte  l'unico  figliuolo,  che  avesse 
ad  essere  tra  gli  suoi  domestichi  un  bersaglio  di  mille 
onte,  ingiurie,  bestemie,  derisioni,  contumelie,  scorni,  guan- 
ciate, battiture,  flagelli,  sputi,  lanciate  e  finalmente  un 
vituperoso  spettacolo,  tra  li  doi  scelerati,  su  la  contume- 
liosa croce  inchiavato.  0  affocato  amore,  o  benivolenzia 
verso  noi  uomini  ardentissima  !  Iddio  fassi  omo  per  te 
salvar,  o  uomo,  offende  se,  diffende  te,  ancide  se,  vivi- 
fica te.  0  mansuetissimo  agnello  !  vedi,  vedilo  là,  uonio^ 
vedi  lo  tuo  salvatore,  vedi  la  via,  la  veritade,  vedi  come 
lagrimoso  dal  presepio  ti  mira  e  guata,  vedi  come  ge- 
stisse d'abbracciarti  in  foggia  di  caro  germano.  Egli  ben 

(2)  Lascio  mediantovi,  che  è  in  tutte  e  due  le  edizioni,  sebbene  sia 
evidente  che  vada  mediante. 


I 


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Il  caos  —  Selva  seconda  61 


sa,  che  per  te,  uomo,  solo  in  questa  miseria  fu  dal  padre 
mandato,  disceso  in  terra  per  guidarti  al  cielo,  s'  ha  fatto 
famiglio  per  costituirti  signore.  Or  dunque  chi  renderà 
mai  guidardone  a  tanto  beneficio  eguale  ?  qual  grazie, 
qual  lode  a  tanto  premio  ?  sia  forse  di  oro,  di  gemme, 
di  porpora,  di  altri  beni  temporali  cotesto  premio  ?  anzi 
del  preciosissimo  suo  sangue,  con  questo  ti  laverà,  ti 
monderà  de  le  pecata,  de  le  tante  sceleragini  con  questo 
ti  pascerò  e  nudrirà,  lasciandotilo,  con  la  carne  sua  pro- 
pria, ad  essere  tuo  cibo  di  vita  etema.  Stattene  dunque 
uomo,  nel  santo  proposito,  in  cui  testé  amorosamente  ti 
ritrovi,  e  quando  pur  sotto  '1  gravissimo  peso  di  questa 
tua  carne  averrà  che  ne  trabocchi,  levati  presto,  chiama 
dal  ciel  aiuto,  non  ti  addossar  in  terra,  non  vi  far  le 
radici,  Y  abito  solo,  e  quella  peste,  quel  morbo  se  non 
per  grandissima  misericordia  d' Iddio  sanabile,  quel  in- 
ferno d' ignoranzia,  quel  laberinto  d' errori,  ove  dubito 
non  sii  finalmente  per  tua  innavertenzia  dal  sfrenato 
desio  tirato. 

TRIPERUNO. 


Fenite  appena  l'  angelo  divino  questo  sermone,  che 
quattro  de  gli  più  vaghi  angioletti  cantando  così 
dolcemente  INCOMINCIARO. 


U 


r 


n  aspro  cuor,  un'  ampia  e  cruda  voglia,  .^  .• 

Una  durezza,  impresa  già  molt'  anni,  4* 

S'altrui  depor  contende,  non  s'affanni  ]K, 

Sperar,  eh'  altri  eh'  Iddio  mai  vi  '1  distoglia.  '} 

E  s'  uomo  stesso  il  fa,  dite,  che  spoglia  C 

Non  riportar  tirannide,  tiranni,  *.  >, 
Di  questa  mai  più  bella,  e  che  pi  fi  appanni                                       .      .  |l 

Ogn'  altra  gloria,  eh'  uomo  al  mondo  invoglia.  '  ]\ 

Ma  il  ciel  di  stelle  e  d'  acque  il  mar  fia  manco,  |i' 
Quallor  accaschi  in  uomo  tanta  forza, 

Ch'  ei  vecchio  stile  da  se  levi  unquanco.  '  | 


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62  11  caos  —  Selva  seconda 


Però  convien,  eh'  al  bon  lesù  si  torza 

Mercè  attendendo,  ed  anco  il  prieghi  ed  anco, 
Finché,  qual  serpe,  lasciavi  la  scorza. 


TEIPERUNO. 


Ve 


enuti  al  fine  de  Y  orribil  metro 
Eran  li  cantator  empirei,  quando 
Ruppesi  un  sono  fuor  de  la  capanna. 
Un  sono  di  percosse  e  battiture 
Meschiate  con  minaccie  e  alti  gridi. 

In  queir  instante,  ah  mio  crudel  destino  ! 
Giunsevi  un  altro  frettoloso  Genio 
Non  senza  gran  spavento,  e  disse  :  Or  presto 
Affrettati,  losefo,  prendi  il  figlio. 
Tu,  con  la  madre  sua,  scampa  in  Egitto, 
Insta  già  '1  tempo,  eh'  un  fier  mercenaro 
Insanguinar  si  voi  di  questo  agnello. 

Fra  gli  pastori  lia  ricondotto  d'  empi 
Lupi  cotanta  rabbia,  che  gli  agnelli 
0  morti  verran  tutti,  o  lacerati. 
Risse,  discordie,  gare,  aspri  litigi 
Esser  fra  lor  non  odi  ancor  diffora? 
Non  piti  dramma  d'  amor,  non  piti  di  pace 
Tra  queUi  omai  si  trova,  di  che  scampa 
In  altre  bande,  ove  già  nacque  Mosè. 
Ne  quindi  fa  ti  parti  fin  che  a  tempo 
Io  venga  darti  a^^so  del  ritorno. 

Taciuto  eh'  ebbe  il  nuncio,  vidi  gli  altri 
Angioli  su  le  penne  al  eiel  salire. 
Ne  pur  un  solo  a  dietro  vi  rimane, 
Tanto  le  liti,  le  contese  e  zuffe 
A  la  corte  d' Iddio  son  odiose. 

Arme,  arme  si  chiaman  tuttavia, 

Ma  stavami  sol  io  nel  antro  ascoso. 
Battendomi  gran  tema  sempre  il  cuore. 
In  su  quel  ponto  similmente  un'  atra 
Tempesta,  con  gran  vento  e  spessi  lampi, 
Incominciò,  tonando  farsi,  udire, 


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Il  càos  —  Selva  seconda  •       63 


Ove  '1  contrasto  cresce  ogn'  or  più  acerbo. 
Vinse  una  parte  finalmente,  e  V  altra 

Trassesi  ne  la  grotta,  per  suo  scampo. 
Io  mi  discopro  e  la  cagion  di  tanta 

Lite  fra  loro  cerco  di  sapere. 

Lasso  !  rispose  im  vecchio,  non  m' accorsi 

Avolto  in  un  agnello  esser  un  lupo. 


LAMENTO  DI  CORNAGIANNI. 


X^iangeti  meco  voi,  fiere  selvatiche. 

Voi  sassi  alpestri,  voi  monti  precipiti. 

Ripe,  virgulti,  e  stipiti, 

•lesù  da  noi  si  parte,  che  le  pratiche 

Trovate  fra  pastori  tanto  crebbero. 

Ahimè  !  eh'  a  fin  non  ebbero 

Se  non  forza  di  far  le  gregge  eratiche. 

Ahi  mercenaro  e  lupo  insaziabile 

Nato  d' inganno  e  mantellata  insidia. 

In  cui  tanta  perfidia 

Mai  puote  luogo  aver  !  O  incommutabile 

O  giustissimo  Dio,  perchè  non  subito 

Risguardi  a  noi  ?  deh  !  dubito 

Vani  sian  nostii  prieghi,  che  stoltizia 

Maggior  non  è,  s'  un  reo  chiede,  giustizia. 


TRIPERUNO. 


arlava  il  veccliio  lagrimando  forte, 
E  poi  le  labbra  così  chiuse,  eh'  egli 
Non  mai  più  volse  aprirle,  ma  con  gli  occhi 
In  un  parete  fissi,  geme  e  piagne, 
Tanto  che  fece  Y  ultimo  sospiro. 
Vattine  al  ciel,  alma  d'  ogni  ben  carca, 
S'  udì  una  voce  dir,  vanne  felice. 
Così  di  que'  pastori  giacque  il  padre, 
Orbato  d'  està  vita,  ma  in  ciel  suso 


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64  II  caos  —  Selva  seconda 


Rapito  a  r  altra,  e  V  empio  mercenaro 
Rimase  degli  armenti  possessore, 
Volgendo  e'  be'  costumi  degli  antichi 
Pastori  audacemente  in  frode  e  furti, 
Tanto  che  le  sampogne  e  dolci  rime 
Aodati  sensi,  e  d'arme  sol  si  parla. 
Deposto  duflkque  fu  lo  gran  pastore 

Entro  d'  un  cavo  sasso  :  e  a  quello  sopra, 
Carmi  leggiadri  e  rime  di  gran  sono 
Inscritte  fumo  da  pastori  e  ninfe, 
DcHtid' io  piangendo  ancor  questi  vi  posi. 


TUMULO  DEL  CORNAGIANNI. 


E 


^co  del  monte  congrega,  ciò  nella 

Rupe,  gran  pianto  pel  suo  cor  Narciso. 

Il  fior  anti  no  fu  sua  morte  fella. 

Tal  fu  '1  mio  verso  ma,  per  tèma,  scuro  (1). 


TRIPERUNO. 


I 


0  da  pastori  alquanto  dilungato. 

Con  quali  esser  mai  giunto  ancor  mi  dole, 
D'  un  monticello  in  largo  e  verde  prato 
Mi  porto,  giù  fra  rose  gigli  e  viole. 
Poi  dentro  ad  un  antico  bosco  entrato 
Tanto  vi  errai,  che  su  '1  montar  del  sole 


(l)  Ha  ragione  il  Folengo  di  dire  oscuro  il  suo  verso»  e  lo  è  tanto 
che  non  vi  si  capisce  nulla.  Non  si  sa  poi  quale  tema  lo  inducesse  a  fare 
una  sciarada  di  un  epitaffio.  Ma  forse  le  parole  :  Il  fior  anti  no,  si  deb- 
bano riunire  e  leggerle  :  Il  fiorantino,  o  fiorentino,  dal  che  se  ne  avrebbe 
un  significato  allusivo  alio  Squarcialupi,  cagione  della  morte  del  Corna- 
gianni,  e  probabilmente  in  Nar-ciso  si  asconde  un  aggettivo,  forse  anciso, 
riferibile  a  C07\  del  quale  significa  o  la  qualità  o  la  sorte,  per  cui  colle 
correzioni  ortografiche,  che  vi  ho  fatto,  e  con  questi  commenti,  parmi  che 
se  ne  abbia  un  senso  chiaro,  e  consono  a  quanto  si  iegge  qua  «  Jà  nei 
Caos  deir  abate  Squarcialupi. 


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r 


Il  caos  —  Selva  seconda  65 


\  Si  m'  appresenta  un  ampio  e  bel  palaccio  ; 

Cerco  r  entrata  e  presto  vi  mi  caccio. 


Nove  cose  giamai  non  auti  viste 

Veggio  fra  quelle  mura  in  un  vallone 

Di  urtice,  vepri,  spine,  e  lappe  miste 

Densato  sì,  che  mai  non  vi  si  pone 

Piede  senza  lacciarlo  a  V  erbe  triste, 

E  farsi,  o  voglia  o  no,  di  lor  prigione 

Ma  sì  mi  preme  V  ira  d'  una  donna, 

Ch'  io  scampo,  e  lascio  a  squarzi  la  mia  gonna. 

Perochè,  ne  l'entrar  quella  sopérba, 

Pallida  in  volto  magra  e  macilente. 

Con  voce  altera  minacciante  acerba 

Seguivami  gridando:  Mai  vincente 

Uomo  non  fia,  se  Y  animo  non  serba 

A  miei  flagelli  forte  e  paziente  : 

Io  allor  m'  offerii  al  suo  commando,  e  presto 

Scorro  di  qua  di  là,  ne  unqua  m'  arresto. 

Dov'  ir  mi  deggia  segno  non  appare 

Di  bestiai,  non  che  d'  uman  vestigio. 
Di  che  sovente  fammi  traboccare 
De  panni  co'  miei  passi  gran  litigio, 
Fin  tanto  che,  su  '1  lido  accosto  il  mare 
Giunto,  m'  assisi  stanco  a  gran  servigio 
Di  nostra  fragii  vita,  e  poi  mi  levo, 
E  del  camin  doppio  pensier  ricevo. 

Se  al  dritto  o  manco  viaggio  me  ne  vada 
Non  so,  che  nove  m'  eran  le  contrate. 
Ma  tr  ambi  doi,  mentre  '1  voler  abada, 
Ecco  a  le  spalle,  co  le  labbra  inliate 
Di  sdegno,  m'  è  la  donna  tutta  fiada 
Quanto  mai  fnsse  nuda  dì  pìetato. 
Tu  voi  pur  anco,  dice,  chi  t'  accolga 
Rubaldo,  e  ne  cape  le  man  t' involga. 

Io  dal  spavento  più  che  mai  commosso 

Lungo  la  manca  spiaggia  formo  e  stampo 


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66  II  caos  —  Selva  seconda 


Mìei  passi,  lor  frettando  quant  'i  puosso, 
Sin  che  dal  suo  furor  mi  fuggo  e  scampo. 
Così  infelice  non  più  aver  riposso 
Giamai  vi  spero,  e  d'uno  in  altro  campo, 
Qual  temidetta  lepre,  uscendo,  un  fosco 
Antro  di  spine  trovo,  e  vi  me  'mbosco. 

Ma  nel  entrar,  ah  quanta  mia  sventura  ! 
Ecco  si  mi  raffronta  un  uomo  strano. 
Anzi  doi,  sgiunti  fin  a  la  cintura. 
Più  mostro  assai  che  finto  non  fu  Giano, 

0  Proteo  falsator  di  sua  figura. 

Tal  anco  è  scritto  Castor  e  '1  germano, 
Che  sol  due  gambe  quel  corporeo  peso 
Di  duo  persone  tengono  sospeso. 

Ei  quando  avanti  lui  giunto  mi  vede. 

Scosse  le  membra  e  tutti  si  li  ruppe  ; 
Stupido  il  guardo  eh'  ei  digrigna  e  ride, 
E  par  che  'n  altri  volti  s'aviluppe, 

1  non  era  ne  Teseo,  ne  anco  Alcide, 

0  chi  nel  ventre  il  gran  Piton  disruppe  ; 
Che  fronteggiar  bastassi  un  mostro  tale. 
Onde  spiegai  pur  anco  al  corso  Y  ale. 

Per  un  sentier,  sol  un  sentiero  v'  era. 

Sforzo  me  stesso,  e  gran  tema  mi  punge  : 
Ma  poi  che  da  l' incerta  e  'nstabil  fiera 
Esser  mi  vidi  al  trar  d'  un  arco  lunge. 
Fermo  mi  volgo,  e  egli  sua  primera 
Forma  cangiando  in  doi  corpi  si  sgiunge  ; 
Questo  di  donna,  vago,  pronto,  ameno, 
Quel  d'  un  formoso,  e  bianco  palafreno. 

O  qual  mi  fece  al  apparir  di  loro 
Sì  grata  vista  e  dolce  leggiadra, 
Miir  altre  prime  faccie  assai  mi  foro 
Moleste  in  cui  cangiato  egli  s'  avia 
Che  ne  orso,  ne  leon,  ne  pardo,  o  toro, 
Ne  cervo,  ne  animai  chi  chi  si  sia, 


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Il  caos  —  Selva  seconda  67 


Gradir  mi  puote,  anzi  mi  fé'  spavento  : 
Di  questi  doi  sol  ne  restai  contento. 

Ella  succinta  in  abito  gentile 

Tra  fiori  al  aura  si  rendea  più  degna, 
Vidi  anco  intorno  lei,  si  '1  feminile 
Aspetto  valse,  con  lor  verde  insegna, 
Stesi  per  Y  erbe  e  fronde,  Marzo,  e  Aprile 
La  terra  far  d'  assai  colori  pregna, 
E  su  per  folte  macchie  lieti  e  snelli 
Facean  cantando  errar  diversi  augelli. 

Più  bello,  altero,  candido,  e  vivace 
Nullo  animai  di  questo  vidi  mai. 
Tanto  mi  piacque  allora,  che  '1  fugace 
E  timido  desio  presto  frenai, 
Volgendo  1  tutto  ove  sperava  pace 
In  duo  begli  occhi,  anzi  potenti  rai, 
Ch'  umilmente  alzati  sol  d'  un  cenno 
Quanto  temea  davanti  obliar  mi  fenno. 

Tratto  dal  mio  voler  già  torno  in  dietro, 
E  di  mai  non  partii-mi  da  lei  bramo, 
Ella  quel  bel  destrier,  eh'  ha  '1  fren  di  vetro 
"  E  già  salita,  e  d'  un  frondoso  ramo 
Di  mirto  il  tocca  e  contra  un  folto  e  tetro 
Bosco  lo  caccia  :  Io  che  pur  troppo  V  amo 
Correndo  a  tergo  me  ne  doglio  e  strazio, 
E  luntanato  son  da  lei  gran  spazio. 

Per  un  sentier  colmo  di  tosco  e  fel  va  (1) 
Battendo  sempre  il  palafren  da  tergo  : 
Tanto  che  scorse  ne  Y  oscura  selva, 
E  mi  si  tol  di  vista,  ond'  io  sol  m'  ergo 
Del  orme  a  i  segni,  che  sì  vaga  belva 
Perder  non  voglio  e  tutto  mi  sommergo, 
Non  pur  d'  averla  ne  le  insane  voglie. 
Ma  ne  intricati  rami,  sterpi,  e  foglie. 

(1)  Ambedue  le  edizioni  hanno  fel  va  che  dovrebbe  rimare  con  selva 
e  belva,  È  un'  altra  strana  licenza  del  Folengo. 


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68  II  caos  —  Selva  seconda 


Tanto  durai  nel  corso  a  quella  traccia, 

Ch'  al  fin  del  bosco,  fra  tre  alte  colonne, 

La  via  par  eh'  en  duo  branchi  vi  si  faccia  ; 

Qual  oggi  e  greci  fingon  V  ipsillone, 

Di  che  dubbio  pensier  1'  andar  m'  einpaccia, 

Fin  eh'  una  turba  d'  epolite  donne 

Mi  fur  in  cerco,  e  losingando  parte 

Di  loro  a  manca  man  mi  tranne  ad  arte. 

Quivi  d'  accorte  e  ladre  parolette 

Foggia  non  è,  che  non  mi  circonvenga, 

Ma  r  altra  parte  di  luntano  stette 

Pensando  in  quale  guisa  mi  sovenga  : 

Io,  che  fra  tanto  sono  entro  le  strette 

D'  abbaraciamenti  e  gaiTula  losenga  ; 

Irmene  al  manco  viaggio  mi  delibro, 

Ma  donna  mi  vietò,  eli'  ha  in  man  un  cribro. 

Un  cribro  in  mano  la  dongella  tiene, 

D'  acqua  ripieno  e  goccia  non  si  versa, 
Che  di  la  turma  luntanata  viene  # 

Gridando  forte.  Non  far  alma  persa, 
Non  far,  se  '1  sai,  tu  sol  n'  avrai  le  pene, 
Che  non  sai  quella  via  quanf  6  perversa, 
Ma  qui  piutosto  volge  a  la  man  destra, 
Che  dal  errante  volgo  altrui  sequestra. 

A  la  cui  note  gik  lo  entrato  piede 

Ritrassi  al  modo  di  eh'  un  serpe  calca. 
Deh  !  saggia  ninfa,  dinnni  per  mercede, 
Risposi  a  lei,  dove  '1  mio  ben  cavalca? 
Perchè  fra  voi  questo  altercar  procede  ? 
Perchè  tanto  di  tempo  mi  diffalca? 
Quella  sen  fugge,  e  tuttavia  non  cessa. 
Onde  non  spero  mai  pifi  veder  essa? 

Lascila  gir,  diss'  ella,  che  la  truce 

E  pestilente  donna,  tuo  malgrado. 

Del  improba  Fortmia  conduce 

Al  seggio  incerto,  e  a  T  instabil  guado. 


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Il  caos  —  Sklva  skconda  69 


Ma  se  tu  segui  me,  ti  sarò  duce 
Nel  destro  calle,  ove  di  grado  in  grado 
Montando,  e  non  col  volo  di  fortuna, 
Vedrai  quel  ben,  che  'n  se  virtù  ragguna. 

Or  viemmi  dopo,  che  su  V  alte  cime 
Di  sapienza  trovarai  V  ascesa, 
Fuggi  costoro,  perchè  al  fin  de  V  ime 
Valli  d'  enore  mostran  la  discesa. 
AUor  io  per  costei  lascio  le  prime, 
E  seco  me  ne  vo  ;  ma  gran  contesa 
Ecco  nascer  fra  Y  una  e  V  altra  turba, 
Cli'  el  mar  la  terra  e  sin  al  ciel  disturba. 

E  prima  di  parole  tanta  rabbia 

Si  sul  levò  tra  quelle  donne  e  queste, 
Che  non  bastò  menar  con  scura  labbia 
La  lingua  e  denti,  ma  Y  ornate  teste 
Vengon  a  scapigliarsi,  e  su  la  sabbia 
Già  molte  veggio  per  Y  orrende  peste, 
De'  calci  e  pugna  traboccar  a  voi  te. 
Ma  presto  vien,  chi  via  1'  ebbe  distolte. 

Che  a  r  apparir  di  donna  antica  e  grave 
Tosto  la  pugna  fu  da  lor  divisa  ; 
Chi  si  racconcia  il  sino  e  chi  le  flave 
Chiome  si  annoda,  e  chi  di  dar  sta  in  guisa. 
Ma  la  matrona  con  parlar  soave 
Voltossi  a  me  dicendo  :  qui  s'  avisa 
Per  me  qual  porta  entrar  deve,  chi  brama 

0  quinci  o  quindi  racquistarsi  fama. 

Quinci  vertù,  quindi  fortuna  aloggia, 

1  ti  r  ho  detto  :  va,  eh'  ambo  le  porte 

Ti  mostro  aperte,  e  detto  ciò,  s'  appoggia 
Su  '1  petto  il  viso  di  vertute  e  sorte 
Fra  le  colonne,  ed  io  ne  stava  in  foggia 
Di  chi  non  sa  de  le  dua  porte  apporte 
Quale  si  prenda  s'  uno  prender  deve, 
E  mentre  dubbia  gran  duolo  riceve. 


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70  II  caos  —  Selva  seconda 


La  destra  via  mi  elessi  finalmente, 

Così  movea  di  Nursia  il  saggio  spirto  (1), 
Ma  le  sinestre  donne  triste  e  lente 
Trasser  a  Y  ombra  insieme  d'  un  suo  mirto, 
Quivi  tra  loro  un  lupo  immantenente 
Comparse,  onde  non  so  minace  e  irto, 
Del  quale  una  di  lor,  se  ben  rimembro. 
Svelse  sdegnando  il  genitale  membro. 

Poscia  chi  per  il  pie,  chi  per  Y  orecchia 
Lo  tranno  a  terra  giù  quelle  fanciulle, 
Mentre  1'  altare  e  '1  foco  una  apparecchia. 
Ciascuna  par  che  'n  quello  si  trastulle 
Svenarlo,  e  qui  s'  accoglie  e  si  sorbeccliia 
Tanto  del  sangue  suo,  che  'n  tante  muUe  (2) 
Le  vidi  esser  cangiate  a  me  davante, 
E  1  foco  stesso  le  arse  tutte  quante. 

E  1  mirto  similmente  in  altra  forma 
Mutarse  vidi,  eh'  ogni  suo  rampollo 
Contrasse  al  tronco  dentro,  e  si  trasforma 
In  bella  donna,  e  gambe,  e  braccia,  e  collo, 
E  '1  lupo,  il  qual  sul  lido  par  che  dorma. 
Prende  a  l'orecchia,  e  dritto  suUevollo, 
Cangiato  omai  di  lupo  in  un  destrero, 
Saltavi  addosso  e  sgombra  via  '1  sentiero. 

Io  la  conobbi,  ahimè  !  nel  sguardo  acuto. 
Acuto  sì,  eh'  anco  smovermi  puote 
Dal  bel  proposto,  e  farmi  sordo  e  muto 
A  le  preghere  d'  ogni  affetto  vote 
De  r  altre  donne,  anzi  mi  faccio  un  scuto 
D' infamia  contra  il  ben  che  mi  percuote, 
E  gridami  nel  capo,  mi  urta,  e  auge. 
Ma  nulla  fa,  che  '1  suo  voler  si  frange. 

Onde  le  donne  insieme  neghitose, 

Poi  eh'  e  soi  prieghi  gittaron  al  aura, 

(l)  Allude  a  S.  Benedetto,  il  fondatore  dell'ordine  cui  apparteneva 
il  Folengo. 

(2) Mulle,  Strana  licenza,  usata  per  necessità  di  rima. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  71 


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MERLINUS  COCAIUS  (1). 

Uè  ego  qui  quondam  formalo  plenus  et  ovis, 
Quique  botirivoro  stipans  ventrone  lasagnas, 


In  un  pratel  de  gigli,  viole  e  rose, 
Sott'  ombra  de  la  petrarchesca  Laura, 
Stetter  in  cerchio  centra  me  sdegnose. 
Ed  un  quadrato  altare  qui  s' instaura, 
Sul  '1  qual  mentr'  ai-de  un  tenero  Licomo 
Ivan  quelle  piangendo  intorno  intomo. 

Io  pur  quantunque  V  ascoltassi  invito,  '  j 

La  fin  volsi  veder  del  sacrificio,  -*• 

Ch'  un  nuvol  bianco  su  dal  ciel  partito,  -^j 

Sì  mi  r  ascose,  e  per  divin  giudicio  v. 

Tal  tono  seco  fu,  che  tutto  '1  lito  \i 

Tremò  d' intomo,  e  sparve  lo  edificio,  'l\ 
Le  donne,  la  matrona,  e  '1  nuvol  anco. 
Restando  pur  la  via  del  lato  manco. 

Stavami  su  quel  punto,  che  la  terra 

Tutta  tremò  non  men  for  di  me  stesso 
Ch'  el  viandante,  il  quale  mentre  eh'  erra 
Cercando  un  tetto,  perchè  un  nimbo  spesso 
Li  tona  in  capo,  il  fulmine  si  sferra 
Dal  ciel  gridando,  e  piantasigli  appresso, 
Ch'  un'  alta  pioppa  in  sua  presenzia  tocca, 
E  tutta  in  foco  e  fumo  la  dirocca: 

Non  temer  d'  alcun  ciel,  che  ti  minaccia  ;  I 

Che  bella  botta  non  mai  colse  augello  ;  ,  -^ 

A  cotal  voce  rivoltai  la  faccia,  4 

Ed  ecco  un  uomo  lieto  grasso  e  bello  S 

Mi  sovragiunge,  e  stretto  a  se  m'abbraccia. 
S' io  gU  fussi  figlio,  padre  o  fratello. 
Io  r  addimando  vergognosamente 
Chi  fosse  egH,  rispose  immantinente. 


(I)  Nolla  edizione  seconda,  e  quindi  quella  fatta  dopo  la  hiorte  del 
Folengo,  questo  capitolo,  sopra  il  titolo  MERLINUS  COCAIUS,  ha  V  altro 
di  :  LA  CAROSSA,  cioè  la  Casa  rossa,  che  io  ho  creduto  bene  di  omettere. 


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72  II  caos  —  Selva  seconda 


Arma  valenthominis  cantavi  horrencia  Baldi, 
Quo  non  Hectorior,  quo  non  Orlandior  alter. 
Grandisonam  cuius  famam  nomenque  gaiarduni 
Terra  tremit  Baratrumque  metu  "se  cagat  adossiim  (1). 
At  nunc  Tortelij  (2)  egressus  g^innasia,  postquam 
Tanta  menestrarum  smaltita  est  copia,  Baldi 
Gesta  maronisono  (3)  cantemus  digna  sj^ivallo, 
Huc,  Zoppine  pater  (4),  tua  si  tibi  chiachiara  curae, 
Si  tua  calcatim  veneti  ad  pilastra  Samarchi 
Trat  lyra  menchiones,  bezzosque  ad  carmen  iucscat. 
Huc  mihi  cordicinam  iuncta  cum  voce  Rubebam 
Flecte  soporantem  stantes  in  littore  barcas. 
Ut  dorsicm^os  olim  delfinas  Arion, 
Tuque,  Comina,  tene  guidam  temonis,  e  issa 
Issa,  Pedrala,  mihi  ad  ghebbam  (5),  tuque  alta  sonantem 
Ad  Òighignolam  (6)  velanima  pande  levanto 
Berta,  Grego,  postquam  salpata  est  ancora  fundo. 
Non  ad  muscipares  voltanda  est  orza  canellos, 
Non  ad  fangosas  ladrorum  daccia  Bebbas,  (7) 
Bebbas,  cui  nomen  tum  splenduit,  a^quore  postquam 
Cingar  anegavit  pegoras,  saltantibus  illis, 
Una  post  aliam,  nullo  aiutante  Tesino, 
Dumque  trabucabant,  bè  bè  somiere  frequenter  (8). 
Hinc  Bebbas  dixere  patres,  quod  nomen  ad  astra 
Surgitm*,  e  lunge  soravanzat  onore  Popozzas. 
Non  mihi  Fornaces  per  stagna  viazus  ad  udas. 


(1)  Questo  verso  e  l'altro  ohe  lo  precede  si  trovano  nel  preambolo 
al  Baldo.  Vedi  Voi.  1,  Maccheronica  I,  pa^.  63,  colla  variante,  che  invade 
di  Grandisonam,  si  ha  AUisonam. 

(2) Tortelij  è  la  minestra  più  ghiotta  dei  mantovani,  che 

generalmente  ò  servita  alla  Vigilia  del  Natale. 

(3) Maronisono,  cioè  di  Marono,  o  Virgilio. 

(4)  È  un  nuovo  nume  che  introduce,  che  non  trovasi  nelle  altro 
opere  Maccheroniche,  cotesto  padre  Zoppino  è  poeta  veneziano. 

(5) Ghfhbam,  voce  veneziana  che  significa  rivolo. 

(6)  Ignoro  chi  sia  cotesto  Cighignola  e  che  significato  abbia. 

(7) Bebbas.  Vedi  in  alcuni  versi  più  basso  il  significato  che 

dà  al  Bebbas. 

(8)  Allude  airannedoto  delle  pecore.  Vedi  Baldo,  Maccheronica  XI, 
pag.  255,  256. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  78 


Perque  Padi  gremium  ad  Stellatam  Figaque  rolum  (1) 
Undantem  conti-a,  e  retro  cava  ligiia  ferentem. 
Seu  sit  Bondeni  seu  sit  mage  Francolini 
Piatta,  vel  Argente,  vel  Burchius  Sermidos  audax. 
Bramat  Alixandraì  portus  mea  Barca  tenere  (2). 

NAERATIO. 

ebanis  fabrefacta  vìris  antiquior  altris 
Urbibus  Italise  dum  Mantua  rege  sub  uno, 
Nomine  Gaioffo,  quasi  iam  dispersa  gemebat, 
Viderat  in  somnis  venientem  a  Marte  baronem, 
Mozzantemque  caput  Gaioffo,  seque  gridantem 
Libertatem  Urbi  et  populo  prestasse .  vetusto. 
Hinc  aliquod  confortum  animi  conceperat  illa, 
Speranzamque  omnem  Baldi  ficaverat  armis. 
Non  erat  buie  toto  quisquam  affì'ontandus  in  orbe 
Forcibus,  aut  potius  destrezza  corporis  ipsa. 
Nil  illum,  tanta  est  hominis  baldanza  gaiai-di, 
Arma  spaventabant,  nil  caelum,  nilque  diavol. 
Vir  inste  membrosus  erat,  mediocriter  altus, 
Largus  in  expassis,  relevato  pectore  spallis. 
At  brevis  angustos  stringit  centura  fiancos, 
Nerviger  in  gambis,  pedè  parvus,  cruribus  acer  ; 
Rectus  in  andatu,  levibus  qui  passibus  ipso 
Vix  sabione  suas  poterat  signare  pedattas. 
Aui-ea  iungebat  faciei  barba  decorem, 
Vivacesque  oculos,  bue  illuc  alta  rotabat 
Frons,  quse  spaventat  quando  est  turbata,  diablos  ; 
Sed  ridens  noctemque  fugat  giornumque  reducit, 
Spadazzam  levo  semper  galone  cadentem 
Poi-tabat,  guantumque  prese,  mortisque  daghettam. 
Saltando  legiadras  erat,  qui  pleniter  armis 
Indutus  montabat  equum  sine  tangere  staffam. 


(1)  stellata  Figaquerolu?n,  Stellata  e  Ficarolo,  due  paesi  ripuarii 
del  Po,  come  lo  sono  quelli  nominati  più  basso  e  più  su. 

(2)  Ignoro  che  sia  cotesto  porto  di  Alessandra,  nel  qual  la  barca 
del  poeta  brama  di  rimanere,  al  sicuro,  a  menochè  non  sia  una  allusione 
a  casa  Orsini. 


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74  II  caos  —  Selva  seconda 


Ipse  gubernabat  terram,  quam  diximus  olim, 
Nomine  Cipadam  gentemque  illius  habebat 
Ad  cenum  prontamque  armis  abilemque  bataia?. 
Praìcipuos  bine  tres  elegerat  ille  sodales, 
Quorum  Cingar  erat  strictissimus  alter  Acates. 

Is  veterem  duxit  Margutti  a  sangnine  razzam^ 
Qui  risu,  quondam  Simia  cagante,  crepavit. 
At  Cingai-  trincatus  erat  truflfator  in  arte 
Cingaris  (1),  aut  vecchium  segato  dente  cavallum 
Per  iuvenem  vendens;  aut  bolsum  fraude  baratane. 
Scarnus  in  aspectu,  reliquo  sed  corpore  nervis 
Plenus  erat,  nudusque  caput,  rizzusque  capillis. 
At  sassinandi  poltronam  exercuit  artem, 
In  macchiis  quandoque  latens  mala  guida  viai-um, 
Nanque  viandante»  ad  boscos  arte  tirabat, 
Spoiabatque  illos,  sibi  nec  restante  camisa. 
Sacchellan  semper  noctu  post  terga  ferebat^ 
Sgaraboldellis  plenam  surdisque  tenais, 
Is  mercadantum  reserabat  ssepe  botegas, 
Compagnosque  ipsos,  pannis  finoque  veluto 
Tornabat  caricos  ad  ladrorum  antra  Cypadam. 
Officioque  boni  compagni,  quisquis  aiuttum 
Porrexisset  ei,  tolta  sibi  parte  botini 
Ibat  contentus  :  Precibus  sed  denique  Baldi 
Destitit,  et  savius  forcam  lazzumque  seghetti 
Scansavit,  iam  iam  illorum  compresus  ab  orma. 

Huic  tanto  coniunctus  erat  Falchettus  amore, 

Falchettus  qui  ortum  Pulicani  ab  origine  traxit, 
Quod  sine  Falchette  poterat  nec  vivere  Cingai-, 
Nec  Falchettus  idem  facians  sine  Gingare  vixit, 
Non  fuit  in  toto  cursor  velocior  orbe, 
Namque  erat,  a  cerebro  ad  cinturam  corporis  usqiie 
Semivir,  et  restum  corsi  canis  instar  habebat. 
Hic  cervos,  agilesque  capras,  leporesque  fugaces 
Captabat  manibus  saltuque,  stupibile  dictu, 
Ssepe  grues  tardas  se  ad  volum  tollere  coepit. 

(1)  Qui  fa  un  bisticcio  sulla  parola  Cingam,  che  come  notai  nella 
prefazione  Voi.  I,  pag.  LXXXI  va  pronunciata  Singar^  o  Zingar^  che  è  lo 
stesso  che  Zingaro,  e  quindi  vuol  dire,  il  Folengo,  che  Cingar  o  Zingar 
era  esperto  nell'arte  dello  Zingaro. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  75 


Multi  illum  reges,  reginae,  papa,  papessse 
Ducere  (1)  tentabant,  donantes  munera,  secum. 
At  ille,  incagans  papse  regumque  parolis 
Cum  Baldo  semper  donnit  mangiatque  bibitque. 

Inde  gigantonem  Fracassum  Baldus  amabat, 
Progenies  quius  Morganto  advenit  ab  ilio, 
Qui  iain  suetus  erat  campanse  feiTC  bataium. 
Huius  longa  fuìt  cubitos  statura  quaranta, 
Grossilitate  stari  (2)  sequabat  sua  testa  misuram, 
Andassetque  trimus  per  boccam  manzus  apertam. 
In  spatio  frontis  potuisses  ludere  datis, 
Auriculisque  suis  fecisses  ceto  stivallos. 
Spallazzas  habuit  largas,  schenamque  decentem 
Ferre  boves,  carrumque  simul,  pesosque  ducentos. 
Arripiens  quandoque  bovem  per  cornua  grassum 
Ad  centum  passus  balzabat,  more  quadrelli. 
Marmoreos  etenim  pillastros  atque  columnas 
Tergere  gestabat,  nulla  straccante  fadiga. 
Streppabat  digitis  quercus,  stabilesque  cipressos, 
Ac  si  fortificam  foderet  tellui-e  cipoUam, 
Castronem,  mediumque  bovem,  denasque  menesti-as, 
Trenta  simul  panes  coena  mangiabat  in   una. 
Tanto  ibat  strepitu,  libras  tennille  pesoccus, 
Tota  sub  ipsius  pedibus  quod  terra  tremebat  (3). 

At  viltatis  homo,  crudeltatisque  minister, 

GaioflPus,  Baldum  Baldique  timebat  amicos. 
Imperij  zelosus  erat,  noctesque  diesque 
Masinat  in  cerebro,  lambiccat,  fabricat  altos 
Aere  castellos,  velut  est  usanza  tiranni. 
Suspectumque  super  Baldum  plantaverat  omnem. 
At  quia  grandilitas  animi,  generosaque  virtus 
Tum  gratum  patribus,  tum  plsebi  fecerat  illum, 
Stat  regno  metuens,  ut  vulpes  vecchia  quietus. 
Verum  mille  modos  fingit  groppatque  casones, 
Summittitque  homines  falsos  nugasque  silenter 


(l)  Ducere^  condurre,  o  assoldare,  come  significava  al  tempo  del 
Folengo. 

(2) SiarU  stajo, 

(3)  Di  questi  personaggi,  compagni  di  Baldo,  cene  dà  la  prosopo- 
grafia  nel  Baldo,  Maccheronica  U,  pag.  95  e  seguenti. 


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76  II  caos  —  Selva  seconda 


Seminat  in'  pepalo  ;  Baldi  bona  fama  gradatim 
Malmenata  fliiit,  iam  facta  infamia  crescit 
Baccaturquo  omnem  coelo  montata  per  urbem. 
Deque  viro  illustri  canto  straparlat  in  omni, 
Quod  ladronus  erat,  quod  far,  quod  mille  diablos 
Corpore  gestabat,  quod  forcas  mille  merebat 
Hinc  nactus  causam  patres  GaiofFus  adanat, 
Conseiumque  facit,  pensans  comprendere  Balduni, 
Mittaturve  suo  capiti  firmissima  taia. 

Maxima  patricij  generis  convenerat  illuc 

Squadra,  repossato  disponens  cuncta  vedere  (1). 

Est  locus  in  quadro,  salam  dixere  moderni, 

Bancarum  populique  capax  sibi  iura  petentis. 
Illius  ad  frontem,  inter  multa  sedilia  patrum, 
Aurea  Gaioffi  solio  est  errecta  levato. 
Scrannea,  spadiferis  semper  circumdata  bravis, 
Hic  sedet  ille  minax  vultu,  sitiensque  cruoris. 
Non  delatores  unquam  longantur  ab  ilio, 
Non  giottono  cum  bardassanimque  potentum 
Copia,  non  ladri,  furfantes  mille  parati 
Condonare  suam  minimo  quadrante  balottam. 
Inter  eos  garrit  centum  discordia  linguis, 
Millibus  et  zanzis  populi  complentur  orecchie, 
Semper  ut  offendant  proni,  referuntque  per  urbem 
Ambassarias,  quibus  arma  repente  menantiu-. 

Ergo  ubi  nobilium  cumulata  caterva  resedit, 

Claudunturque  fores,  plebisque  canaia  recedit, 
Imperat  annutu  prius  ille  silentia  dextrae, 
Talia  dehinc,  solio  pai-lans,  commenzat  ab  alto. 


ORATIO. 


V 


OS  Domini,  patria^que  patres,  circumque  sedentes 
Consiliatores,  qui  ad  nostrae  iussa  bacliettfe 
Presentati  estis,  causamque  modumque  sietis 
Quare  ad  campana?  bottos  huc  traximus  omnes. 


(1) Repossalo  disponens  cuncta  veder  o^  cioè  :  prò  vedendo 

ad  ogni  cosa,  con  riposato  consiglio. 


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Il  Ccaos  —  Selva  seconda  77 


Quippe  diu  nostis  vestra  non  absque  saputa 
Omnia  semper  ego,  dispono,  tracto,  ministro, 
Non  quia  me  pactus  vel  lex  magis  obliget  uUa, 
Verum  solus  amor  vestri  et  dilectio  regis 
Id  quod  amicitiae  tanquam  sit  iuris,  adoprat. 
Hactenus  instmulans  tacui,  grossumque  magonem 
Pectore  nutrivi,  ssepe  ut  prudentia  reges 
Expetit,  at  vobis  vebiti  experientia  mostrat, 
Tegnosum  fecit  mater  pietosa  fiolum. 
Nostis  enim  pridem  quse  quanta  et  qualia  Baldi 
Sint  probra,  nec  modus  est  in  furtis  atque  rapinis. 
Incepit  postquam  setatem  intrare  virilem, 
Incepit  secum  mariolos  ducere  bravos, 
Quos  mangiafeiTOS  vocitant  taiaquepilastros, 
Aut  taiaborsas  melius  quis  dicere  posset. 
Non  fuit  in  mundo  giottonior  alter,  et  ipsum 
Rex  ego  sustineam  ?  patiar  ?  fruiturque  ribaldus 
Sic  bontate  mea  ?  quid  non  prò  pace  meorum 
Cittadinorum  telerò,  postquam  improbus  iste 
.Urbis  in  eccidiimi  novus  ut  Catilina  pependit? 
Nostra  illum  patres  patientia  longa  ribaldum 
Fecit,  ut  in  ladris  non  sit  ladronior  alter. 
Quid  me  vosque  simul  bertezat  ?  soiat  ?  agabbat  ? 
Ad  quam  perveniet  sua  tandem  audacia  finem  ? 
Non  illum  facies  tanta  gravitudine  vestrae 
Maiestasque  mei  removent,  non  guardia  noctis. 
Non  sbirri  zaffique  simul,  non  mille  diavoi 
Spaventat,  tanta  est  hominis  petulantia  ladri. 
An  sentit  cselo,  terree  baratroque  patere 
lam  caedes  gladiosque  suos  ?  an  contrahit  omneni 
Qua*,  sassinorum  semper  fuit  arca,  Cipadam, 
Ut  cives  populumque  meum  gens  illa  trucidet? 
Illa  inquam  gens  nata  urbem  prò  strugere  nostran  ? 
Quis  rogo  scoppatur  nostra*  sub  lege  cadreghe, 
Quisve  tenaiatur,  mediaque  in  fronte  bolatur, 
Berlinseque  provat  scomum  forca^que  sogliettum. 
Ni  Baldi  Comes,  et  ville  mala  schiatta  Cipada* 
Dottoratur  ibi  robbandi  vulgus  in  arte, 
Estque  scolarum  Baldo  data  cura  magistro. 
Hinc  docti  iuvenes  sub  preceptore  galante 


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78  11  caos  —  Selva  seconda 


Blasfemare  deiim  varijs  didicere  loquelis  ; 
Mox  sibi  boscorum  ladri  domicilia  querunt, 
Expediuntque  manus  fiu'tis,  sti'adasque  traversant. 
Assaltant  homines,  amazzant,  inque  paludes 
Omnia  spoiatos  buttant  pascuntque  ranocchios. 
Qmim  simul  albergant,  sqiiadi'aque  serantur  in  una. 
Mille  cruentosas  roncas  teretesque  zanettas, 
Spontonesque  alebardas,  quetae  sunt  arma  diabli. 
Dantque  focum  schioppis,  tuf,  taf  resonante  balotta. 
Semper  abent  fedas  barbazzas  pulvere,  semper 
Cagnescos  oculos  nigra  sub  fronte  revolvmit. 
Protinus  ad  cifìlum  se  intendunt  esse  propinquum 
Quem  faciant  robbas  pariterque  relinquere  vitam. 
Prsesidet  is  ergo  Baldus  caporalis,  ab  ipso 
Tot  mala  dependent:  Baldo  cessante  quid  ultra 
Mercator  timeat  ?  quid  gens  peregrina  ?  quid  urbs  haec? 
Ad  caput,  o  patres,  est  ad  caput  ensis  habendus. 
Membra  nihil  possunt  quum  spallis  testa  levatur, 
Frange  caput  serpa?,  non  amplius  illa  minazzat. 
Dixi,  nmic  vero  qusenam  sententia  vestra  est 
Expecto,  ut  cunctis  sit  larga  licentia  fandi. 
Dixerat,  et  sdegnum  premere  ^alto  in  pectore  fingit. 

Confremuere  omnes,  aut  quse  contraria  Baldo 
Pars  erat,  aut  vafri  quot  longa  oratio  regis 
Spinserat  in  coleram,  toUentesque  ora  manusque 
lustitiam  clamant  :  quid  adhuc  mala  bestia  vivit, 
Quid  nisi  iacturas,  homicidia,  furta,  rapinas, 
O  rex,  a  ladro  poterit  sperarier  uhquam? 
Picclientur  fures,  brusetur  villa  Cipadse, 
Ipseque  squartatus  reliquis  exempla  ribaldis 
Praestet  amorbator  coeli,  terra^que  marisque. 

Tum  vero  ingemuit  strictis  pars  altera  buccis, 

Compescens  digito  GaiofFo  adstante  labellum. 
At  Gonzaga  pater  quo  non  audentior  alter 
lustitiaì  in  partes,  et  lingua?  et  robore  spada?, 
Omnium  ut  aspexit  vultus  firmarier  in  se, 
Stat  morulam,  dehinc  quantus  erat  de  sede  levatiis 
Apparet,  solvitque  ingentem  ad  dicere  linguani. 


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Ili  CAOS  —  Selva  seconda  79 


RESPONSIO. 


I 


nclyte  rex,  regisque  viri,  vosque  urbis  onori 
Lastantes  proceres,  quamvis  locus  iste  soluta 
Labra  petat,  laxasque  velit  sine  vindice  linguas, 
Attamen,  aut  iure  hoc,  aut  quadam  lege  rasonis, 
Quam  natura  docet  ne  me  angat  culpa  tacendi, 
Incipiam  Baldi  animum,  Baldique  valorem, 
Baldi  consilium  novi  a  puerilibus  omne. 
Ingenium  est  liomini,  quam  prima  setate  tenellus 
Luxuriat,  facili  scelerum  se  interré  camino. 
Si  incustoditus  fuerit  nulloque  magistro. 
Cursitat  huc  illuc,  ceu  fert  ignara  voluntas. 
At  puer  ingenuus  quamvis  retinacula  brene 
Non  tulit,  illecebras  seguitans,  si  forte  virum  (juem 
Maturum  semel  audierit,  leviterqne  monentem 
Principio,  ne  virga  nimis  tenerina  potenti 
Contractata  manu  media  spezzetur  in  opra, 
Deposita  sensum  patitur  feritate  doceri, 
Seque  hominemmonstrat,quemhumanamodestiatantum 
Retrahit  a  vitio  iurisque  in  glutine  firmat. 
Cemimus  indomitos  plaustro  succumbere  tauros. 
Quorum  duriciem  removet  destrezza  biolclii. 
Semper  idem  sa^viret  equus  cozzone  carente. 
Nec  venit  ad  pugnum  sparaverius  absque  polastro. 
Ne,  rogo,  conscripti  patres,  id  forsitan  unquam 
Rex  sensit,  pigeat  miras  audiro  prodezzas 
Quum  fanciuUus  erat  Baldus,  baculumque  sbriabat. 
Gallicus,  ut  fama  est,  e  France  partibus  olim 
In  Lombardia^  gravida  cum  uxore,  paesum 
Straccus  arìvavit,  nostrauKiue  liane  duetus  ad  urbeni 
Albergavit  agro  tantum  una  nocte  Cipada», 
Donec  ibi  gravidata  uxor  sub  fine  laboris 
Ederet  infantem,  qua  Baldus  prodijt  iste. 
Qui  nascens  oculos,  veluti  dixere  comadres, 
Huic  circunstantes,  ccx'lo  tendebat  apertos. 
Quem  nemo,  ut  mox  est,  infantum  fiere  notavit. 
Hinc  vox  e  summo  fuit  ascoltata  solaro  : 


( 


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80  II  Caos  —  Selva  seconda 


Nascere  macte,  puer,  cui  coelum  terra  fretumque 
Ac  elementa  dabunt  tot  afannos  totque  maloras, 
Non  terrae  sat  erit  centum  superare  travaios, 
Ense  viam  faciens  Inter  densissima  téla, 
Verum  quam  citius  pelago  tu  intrare  parabis, 
Cinctus  ab  undosis  montagnis   nocte  (fìeque 
Fortunae  ingentis  patiere  tonitrua  ventos 
Fulmina,  corsaros,  ac  centum  mille  diablos. 
Sed  tandem,  haud  dubites,  gaiarditer  omnia  vinces. 
Vocis  ad  hunc  sonitum,  niater  meschina  vel  ipso 
Supplicio  partus,  vel  sic  pirlamina  fusi 
Finierant  Pare»,  puerum  pariterque  fiatum 
Sborravit,  puerum  vulva  pulmone  fiatum. 
Vos  meditate  suo  qualis  tunc  doia  marito 
Ingruit,  ut  mortam  uxorem,  nattimque  puelliun 
Ante  oculos  proprios  tractu  sibi  vidit  in  uno. 
Ergo  infantillum  villano  tradidit  uni, 
Mox  abijt  tacitus  nec  post  apparavit  unquam. 
Nescitur,  fateor,  qui  sit,  verum  alta  gaiardi 
Forcia  si  Baldi,  si  animi  prudentia,  si  frons 
Gentilesca  alacris,  si  tandem  forma  notatm', 
Non  nisi  fortis  erat  prudens,  gentilis,  et  acer 
Fomiosusque  pater,  licet  buie  sors  aspra  fuisset, 
Nanque  bonum,  semper  fructum  bona  pai-turit  arbor. 
Interea  villanus,  adhuc  cum  coniuge  vivit, 
Infantem  ad  gesiam  causa  baptismatis  affert. 
Quem  dum  pretus  aqua  signat,  terque  ore  gudazzii 
Compadrumque  rogat  quod  debet  nomen  habere, 
En  quoque  ter  facta  est  snmmo  responsio  tempio, 
Baldum,  vos  Baldum  fantino  imponite  nomen. 
Constupuere  omnes  :  devenit  murmur  ad  urbem, 
Hic  testes  centum  tant<Te  novitatis  habentm-. 
Lactiferam  Baldus  tantum  bibit  ergo  madregnan, 
Ut  iam  carrìolum,  quo  imprendit  ducere  gambas, 
Linqueret  ecussis  rotolis  cantone  refractum. 
Et  pede  firmatus  nunc  huc,  nunc  tursitat  illuc, 
Quem  pater  ignarum  veri  patris  instruit  omni 
Rusticitate,  docens  villa?  poltronus  usanzam. 
Post  merdulentas  iubet  illum  pergere  vaccas, 
Sed  gentilis  eam  reprobat  natura  facendam, 


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Il  caos  —  Selva  seconda  81 


Non  it  post  vaccas,  at  saepe  venibat  ad  urbem, 
Atque  ad  villani  despectum  praticai  illam. 
Solis  in  occasum  villje  tamen  ipse  redibat, 
Atque  reportabat  testam  quandoque  cnientam. 
Magnanimns  quoniam  puer,  ut  solet  esse  per  urbes, 
Semper  pugnonim  guerris  gaudebat  inesse, 
Sive  bataiolis  bastonum,  sive  petrai'um, 
Nec  pensetis  eum  quod  certans  ultimus  esset, 
At  ferus  ante  alios  squadram  exortabat  amicam, 
Et  centum  lapidea  saltu  reparabat  in  uno. 

Quum  villanus  euin  villam  abborrere  notavit, 

Expeiimentum  aliud,  puerum  quo  exturbet  ab  annis, 
In  quibus  immersum  cognoverat  esse,  provavit  : 
Nam  neque  villanus  sese  cum  milite  confat. 
Comprat,  ei  fortcni  tabulettani  roboris,  illam 
Rupiesset  subito,  qua  sculptum  addisceret.  A.  B. 
Ule  scolam  primo  letanter  currere  cepit, 
Inque  tribus  magnum  profectum  fecerat  annis. 
Ut  quoscunque  libros  legeret  sine  fallere  iotam. 
At  mox  Orlandi  grandissima  bella  nasavit. 
Non  vacat  ultra  deponentia  discere  verba, 
Non  species  numeros,  non  casus  atque  figuras. 
Non  dottrinalis  versamina  tradere  menti. 
Regula  Donati,  prunis,  salcicia  coxit, 
Ivit  et  in  centum  scartozzos  Noraia  Perotti. 
Quid  catoliconis  malnetta  vocabula  dicam, 
Quse  quot  habent  lettras  tot  habent  menchionica  verba, 
Et  quot  habent  cartas  tot  culos  illa  netarent? 
Orlandi  tantum  cantataque  gesta  Rinaldi 
Agradant  puero,  quandam  in  cor  dantia  bramara, 
Ut  cuperet  iam  vir  fieri,  spadamque  galono 
Cingere,  et  auxilio  rationis  qua^rere  soldum  ; 
Ut  legit  errantes  quondam  fecisse  guereros. 
Viderat  Ancroiam  velut  orlandesca  necarat 
Dextra  gigantessam,  vel  quum  de  funere  Carlum 
Dongellettus  adhuc  rapuit,  tractoquc  guainis 
Ense  durindana,  secat  alto  e  tergore  testam 
Ingentem  Almontis,  Franzamque  recuperat  omnem. 
Viderat  ut  miris  Agricanem  forcibiis,  atque 
Mille  alios  fortesque  viros  fortesque  gigantos. 


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82  II  caos  —  Selva  seconda 


Arce  sub  Albracclie,  giorno  truncavit  in  uno. 
Viderat  ut  nimias  scoccante  Cupi  dine  stralas, 
Ipse  gaiardorum  princeps,  ipse  orbis  acumen 
Duxerat  ad  mortem,  rupto  gallone,  Cusinum  ; 
At  manus  Angeliche,  dum  caelo  brazzus  ab  alto 
Mortalem  ferret  colpum,  succurrit,  et  ipsum 
Orlandescum  animum  tenuit,  spadamque  pependit 
Sepius  bis  lectis  puer  instigatur  ad  arma, 
Sed  gemit  exigui  quod  adhuc  sit  corporis,  annos 
Prsecipites  cupiens,  ut  vir  se  denique  posset 
Vestire  ingentemque  elmum  ingentemque  corazzam, 
Is  tamen  ispanam  éemper  galone  daghettam 
Dependentem  habuit,  qua  plures  ssepe  bravettos 
Terruit,  inque  fugam  solettus  verterat  omnes, 
0  pueri,  audentes  animos  agilemque  prodezzam. 
At  video  e  vobis  bine  plures  volvere  testam, 
Nasutosque  milii  parlanti  ostendere  nasos. 
Quam  bene  nunc  vestri  pensiria  nosco  niagonis. 
An  subsannatis  quia  nostra  oratio  tandem 
Finiet,  ut  mores  videatur  in  hasce  favorem 
Porgere  Sbriccorum  ?  veluti  si  Baldulus  infans 
Tum  bene  fecisset  quum  Lanzalotta  vigazzum 
Traiecit  gladio  ?  sic  divi  nonne  Sbisaos 
Costigare  solent  ?  (1)  sic  nonne  superbia  nostra 
Cogitur  interdum  vilem  portare  cavezzam  ? 
Quid,  rogo,  quid?  (2). 


TRIPERUNO. 


V 


olea  seguir  ancora  il  vecchio  grasso, 
N  e  molto  mi  spiacea  di  starlo  udire, 
I  1  dol  nulladimanco,  il  troppo  indugio, 


(1)  Vedi  Baldo  Maccheronica  II,  pag.  87,  88. 

(2)  In  questo  capitolo  maccheronico,  egli  non  fa  che  narrare  la  cat- 
tura di  Baldo,  già  narrata  nella  Maccheronica  II,  pag.  1  IO  e  seguenti, 
sebbene  con  circostanze  del  tutto  diverse,  e  parte  della  di  lui  puerizia, 
r  andata  alla  scuola,  quasi  cogli  stessi  versi  coi  quali  cele  espone  nella 
Maccheronica  II,  pag.  82,  83. 


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i 

Il  caos  —  Selva  seconda  83  ] 

'-"^^^     -  =~^^  -  -      -  -'  -^  —^^-=-^=^-  =  ,,^ 

C  h'  era  di  ricercar  la  vaga  ninfa,  «> 

A  ndarmi  aliar  da  lui  liintan  mi  astrinse.  '^ 

Q  lieto  mi  stogilo,  senza  dirli  vale, 

V  olgendomi  d'  un  rio  lungo  a  la  ripa,  A 

E  pur  egli  mi  segue  passo  passo.  ' 

e* 

F  iumi  di  latte,  laghi  di  falerno,  " 

V  alli  di  macaroni  e  lasagnette,  ')■ 
E  eco  mi  veggio  intorno,  e  poggi,  e  alte  i 
R  upi  di  caccio  duro  e  sodo  lardo,  ■* 
A  eque  stillate  de  caponi  grassi,  *« 
T  orte,  tortelli,  gnocchi,  e  tagliatelle.  ;•- 

i 

B  eata  vita,  dissi  allor  mirando, 

E  questa,  che  di  tante  trippe  abonda, 

N  on  mai  quinci  partire  mi  delibro. 

E  con  questo  pensier,  mentre  ad  un  fonte 

1)  i  moscatella,  malvasia  m'  abbasso, 

I  o  tolsene,  bevendo  in  quella  copia 

C  h'  nn  bove  sitibondo  d'  acqua  sorbe. 

T  rincli  trinch,  con  altro  vaneggiar  tedesco 

I  ncomenciai  balordo  a  proferire  (1) 

R  otavasi  già  '1  mondo  a  gli  occhi  miei, 
E  sottosopra  il  mar,  la  ten-a,  il  cielo 
Gr  iran  intorno,  e  fannomi  qual  foglia 

V  olar  al  vento,  e  gli  arbori,  le  ripe, 
L  e  spiagge  mi  parean  cotanti  veltri 
A  i  fianchi  de  le  capre  gir  correndo. 

S  aitano  ad  alto  Y  erì^e  ed  i  virgulti, 
A  Ipe  con  monti  e  'nsicme  con  pogetti 
C  orreno  in  rota  e  danzano  leggiadri. 
R  apito  poi  con  elli  il  mio  cervello 
I  n  un  momento  scorse  V  universo 
S  enza  posarsi  mai,  senz'  uUa  tregna. 


(1)  Anche  questa  scena  dell'  ubbriaco,  la  si  trova  nel  Baldo,  che  è 
fatta  rappresentare  da  tedeschi. 


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84  II  caos  —  Selva  seconda 


M  entre  così  danzava  a  la  moresca, 

0  do  dir,  Triperuno  ?  Ed  ecco  in  mezzo 
R  atto  mi  vidi  posto  d' una  turba. 

1  o  contemplai  non  so  che  volti  grassi 
B  ere  sovente  e  poi  cantar  sonetti, 

V  ólando  zaine,  fiaschi  e  gran  bottazzi, 
S  altavan  poi  chi  su  chi  giù  d'intorno. 

I  n  quella  foggia,  che  vili  Fasoli 
G-  irano,  a  spessi  tomi  volteggiando, 
N  el  caldaio  su  fiammi  ardenti  posto, 
A  Uor  con  quelli  insieme  canto  in  gorga 
T  utta  tremante  :  Bacco  eu  oe. 
I  ncominciando  poi  così  dir  versi. 


FUEOR. 


^  urgite  trippivorae,  Merlin!  cura,  Camoense, 

T  rinch  trinch  si  canimus  quid  erit?  cantate  bocali. 

E  cce  menestrarum  quse  copia,  quantaque  stridet 

R  osiizzana  super  brasas  squaquarare  bisognat. 

C  unite  gnoccorum  smalzo  lardoque  colantum. 

0  conche,  plenique  cadi  plenique  tinazzi, 

R  ompite  brodiflues  per  stagna  lasagnica  fontes, 

E  rrantesque  novo  semper  de  lacte  ruscelli. 

F  estinate  meam  per  boccam  intrare  foiadse, 

E  t  vos  formalo  tortse  filante  sotilum, 

D  uni  canimus  trippas,  trippse  sint  gutture  dignae  ; 

A  tque  altis  cubitum  calchetur  panza  fiittadis. 

P  ande  tuae,  Merline,  fores  spinasque  Catinai, 
V  ernazzam  gregumque  simul  corsumque  bevanda 
T  rade  todescanae,  donec  se  quisque  prophetam 
R  erum  cognoscat  venientiun,  qualis  et  ipse  est, 
E  t  quisquis  cyatosque  levat  vodatque  caraffas. 
T  alia  dum  loquimur  somno  demergimur  alto. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  66 


V  enit  at  interea  mihi  trippiger  ille  Cocaius, 

I  Ile,  inquam,  cui  panza  pedes  cascabat  ad  inios, 
R  umpebatque  uteri  multa  grassedine  pellem. 
T  une,  ait,  o  Triperune^  tener,  Triperune  tenelle, 

V  enisti  ?  venirti  etiam  Triperune  galante  ? 

T  u  ne  ades  ?  o  mi  lac,  mi  mei,  mi  marzaque  panis, 

E  ya  age,  zuccarate  puer,  ne  pupule  dormi, 

S  urge,  oculosque  leva,  Lui,  sbadacchias  ?  surge,  gaiarde. 

A  n,  mellite,  fugis  sic  me  ?  me,  ingratule,  scampas  ? 

B  astardelle  levis  levisque  cinedule,  sic  sic, 

I  ndignatus  abis  ?  sta  mecum,  argutule,  semper, 

E  n  paradisus  adest,  en  hortus  deliciarum, 

R  eHigio  qu^nam  melior,  quse  tam  bona  lex,  quam 

E  sse  hac  in  vita,  qua  nivimus  absque  travaio  ? 

0  vitam  sanctam,  o  ritus  moresque  beatos, 

M  ellis  molle  mare  est,  illud  travogabimus  ambo, 
N  OS  ambo  travogabimus,  ambo  errabimus,  ambo 
E  t  simul  ad  poggiam  simul  et  veniemus  od  orzam. 
S  urge,  poeta  novelle,  cane,  heus,  puer,  accipe  pivam. 

D  ic  improviso  macaronica  gesta  coturno, 

1  ncipe,  parve  puer,  qui  non  suxere  fiascos, 
I  Ili,  consumpto  lardo,  sonuere  carettam. 


TRIPERUNO. 


V 


an  ha  il  pensier  e  il  desir  inutile, 
E  sser  chi  crede  un  cielo  a  questo  simile. 
R  idi  cor  mio,  che  cosa  verisimile 
T  ornar  un  alma  a  Dio  non  è,  ma  futile. 
I  tene  leggi  e  noi  scritture  ambigue, 
T  empo  eh'  eterno  sia  gli  dei  s'  appropriano, 
E  pel  nostro  sperar  di  risa  scoppiano. 


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86  II  caos  —  Selva  seconda 


MERUNUS. 

O  mi  belle  puer,  sic  sic  bene  concinis  ?  un  sic 
R  ecte  recta  canis  ?  iani  iam  macoronicns  esto. 
T  ale  tuum  carmen  nobis,  quale  ocha  piena 
E  st  aio  (1)  mensis,  quale  est  damatina  tedesco 
M  alvasia  recens,  sus  caula^,  melque  fritellis. 


TEIPERUNO. 


N 


e  per  speranza  d'  altri  beni,  ne 
V  oglio  per  alcun  pregio  for  di  qui 
R  eddurmi  ad  altri  più  felici  dì. 
S  ciocco  sperar  il  ben,  eh'  anco  non  è, 
I  o  nacqui  solo  per  gioir  qua  giù: 
N  oi  dunque  in  terra  e  Dio  nel  ciel  si  sta  ; 
I  ndamo  altrui  sperarvi  chi  non  sa. 


MERLINUS. 


V 


era  aìs,  o  corsi,  o  admiranda  potentia  gTCghi, 
T  antula  ne  in  puero  doctula  lingua  meo  ? 


TRIPERUNO. 


R 


iposte  cime,  poggi  ombrosi,  e  colli, 
E  voi  di  lardo  e  di  persuto  ripe, 
D  ensi  antri  d'  onto  e  tiìpe, 
E  mpìti  noi,  che  pieni  e  ben  satolli 
A  vostro  onore  scoppiaremo  versi  : 
T  a'  forse,  che  non  mai  sonor  più  tersi. 

(1) AìQi  cioè  aglio» 


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m 


Il  caos  —  Selva  seconda  87 


MERLINUS. 

l     annadse  hinc  abeant,  aqua  coctaque  febribus  apta. 
R  adices  herbseque  habiles  in  pascere  capras 
I  te  ad  menchiones,  ite  ad  saturare  legeros. 
S  tant  qui  per  boscos,  per  montes  perque  cavernas 
T  essere  sportellas,  tenuatum  battere  coi-pus, 
I  nglutire  favas,  giandas,  ac  millia,  quse  fert 
N  atura  et  porcis  et  asellis  atque  cavallis  : 
A  t  nos  hic  melius  stamae  turdoque  studemus. 


TRIPERUNO. 


N 


on  sia  cagion,  che  mai  da  te  mi  scioglia, 
0  mio  maesti^o,  e  guida, 
R  iposo,  ogetto  mio,  mia  scorta  fida, 
M  angiamo  dunque  e  rallentarne  i  fianchi, 
A  cciò  eh'  un  bon  castron  da  noi  si  fi-anchi. 


MERLINUS. 


r    ersutti  accedant  primo,  bagnentur  aceto, 
A  pponatur  apri  lumbus,  cui  salsa  maridet, 
T  ripparumque,  busaccarumque  adsit  mihi  conca, 
R  ognones  vituli  lessi,  sapor  albus  odoret, 
I  nsurgant  speto  quale,  mostarda  sequatur, 
S  ic  vi  venda  vita  hsec,  veteres  migrate  fasoli. 


TRIPERUNO   (1). 


s. 


ftavami   un   giorno   fra    li   altri,  col   mio  maestro 
Merlino,  su  la  ripa   d'  un    rapidissimo   fiume   di  latte,  lo 

(1)  Questo  capitolo,  nella  seconda  edizione  ò  intestato  a  Matotta. 


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88  Ih  CAOS  —  Selva  seconda 


quale  impetuosamente  le  fragil  sponde  di  pane  fresco 
diroccando,  un  snavissimo  talento  di  mangiar  suppe  di 
cotal  mistura  porgevacì.  Ma  io  talmente  trovavami  esser 
allora  di  fritelle  compiuto  (1)  e  satollo,  che,  in  mia  laude 
vo  dirlo,  col  dito  per  la  gola  quelle  toccare  averci  po- 
tuto, la  onde  fu  mistero  la  cintura,  se  scoppiai-e  non  vi 
voleva,  rallentaimi  su  fianchi.  Vero  è  che  '1  mio  precet- 
tore assai  di  me  non  pm'  meglior  poeta,  ma  bevitore, 
mangiatore,  e  dormitore  tutto  che  di  quelle  istesse  fri- 
telle dovea  ripieno  essere,  niente  dimeno  erasi  pm-  anco 
opposto  agiatamente  a  V  impresa  di  espugnare  un  ca- 
pacissimo vaso  di  lasagne,  non  già  di  pasta  per  zappatori 
usata,  ma  di  pellicole  de  grassi  caponi,  li  quali  del  istesso 
colore,  e'  hanno  la  testa  gli  giudei,  erano  (2).  E  mentre 
io,  con  seco  favoleggiando,  mi  trastullo  in  veder  un  porco 
col  griffo  nel  caldaio  di  broda  li  guazzare,  e  egli  per 
non  perder  il  tempo  mi  ascolta  solo  e  mai  nulla  risponde, 
ecco  vi  sovragiunse  un  damigèllo,  d' aspetto,  per  quel 
che  mi  ne  parca,  molto  gentile  e  saputo,  lo  quale  una 
sua  cetra  soavemente  ricercando,  così  accomodatosi  con 
la  voce  al  sono  e  appogiatosi  ad  un  lauro  a  lui  vicino, 
disse  : 

LIMERNO. 


xja  fama,  il  grido  e  V  onorevol  suono 

Di  vostra  gran  beltà.  Madonna,  è  tale. 
Che  'n  voi  tanto  1  desìo  già  spiega  V  ale, 
Che  non  mi  vai  s'  addrietro  il  giro  o  sprono. 

Di  che  s'  al  nome  sol  1'  arme  ripone. 

Con  cui  spuntai  d'  amore  più  d'  un  strale, 
Or  che  fia  poi  vedendo  l' immortale 
Aspetto  vostro,  a  noi  sì  raro  dono  ? 

Ma,  lasso  !  mentre  i  bramo  e  'nsieme  tremo 
Vederlo  più  s'  arretra  la  speranza, 


(l)  Si  legrge  compiuto  in  ambedue  le  edizioni. 

(2) Li  quali  delV  istesso   colore^  che  hanno  la  testa  gli 

giudei cioè  di  colore  giallo,  poiché  al  tempo  del  Folengo,  gli  Ebrei 

portavano  in  capo  una  berretta  gialla  con  un  0  nero. 


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Il  caos  —  Selva  seconda 


TRIPERUNO. 


89 


Quanto  Y  ai-dor  più  cresce  col  desìo. 
Però  di  quella  ornai  poco  m'  avanza^ 

E  pur  s' un  riso  vostro  aver  posa'  io. 
Resorto  fia  da  voi  su  '1  punto  estremo. 


I\ì  soavissimo  canto  e  suono  di  quel  giovane 
tacquero  sì  le  selve,  racquetatosi  ogni  vento,,  che  le 
fronde  niente  si  moveano,  non  già  perchè  nel  contado 
del  mio  maestro  fusse  de  fioriti  prati,  ombrosi  boschi, 
verdi  poggetti,  amenitade  veruna,  quando  che  la  va- 
ghezza di  quel  luogo  era  solamente  di  lardo,  botiro, 
cagiate,  brode  grasse,  e  altri  simili  lecardie.  Ma  quella 
fiumara,  che  dissi  essere  di  latte,  eravi  confine  di  tre 
molto  differenti  regioni,  come  se  fossero  la  Europa,  l'Aifrica 
e  l'Asia.  La  prima  regione,  ove  io  col  mio  maestro  abi- 
tavamo, già  pienamente  dissignata  avemo,  la  quale  Ca- 
rossa  fi  nominata.  La  seconda  tutta  vaga  e  ripiena  di 
vive  fontani,  frondosi  lauri,  mirti,  faggi,  abeti,  frassini, 
ohve,  querze,  e  d'  altri  assai  bellissimi  legni  addombrata, 
chiamavasi  Matotta,  ove  questo  Limerno  dimorava.  La 
terza  per  il  contrario  tutta  sassosa,  rigida,  secca,  asterile 
e  arenosa,  Perissa  fu  appellata,  ne  la  quale  un  eremita 
detto  Fulica,  senza  eh*  altrui  lo  invidiasse,  abitava.  Or 
dunque  m'  accorsi  quel  giovenetto  dover  essere  del  paese 
di  Matotta,  lo  quale  così  polito  de  vestimenta,  e  perfu- 
mato  di  muschio  sapeva  dolcemente  a  Y  istrumento  con- 
cordare la  voce,  onde  io  tratto  in  quella  parte  celata- 
mente,  che  né  egli,  né  Merlino  se  n'  avedesse,  trapassai 
lo  fiume  di  latte  in  quella  verdura  di  là,  e  drento  uno 
cespuglio  di  rose  e  spine  appietatomi  non  troppo  da  lui 
remoto,  stetti  ad  ascoltai-lo,  lo  quale,  dopoi  un  lunghetto 
ricercare  di  quelle  sonore  corde,  in  queste  rime  così  pro- 
ruppe, dicendo  : 

LIMERNO. 


)o  ben  che  '1  mio  lodarvi,  donna  altera, 

Quando  che  non  vi  giunga,  avete  a  sdegno; 


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90  II  caos  —  Selva  seconda 


So  ben  che  '1  mio  avezzato  in  fiumi  legno 
Trovar  porto  nel  vostro  mar  dispera, 

Ma  de  vostr'  occhi  se  quel!'  alma  spera 

Mi  si  scoprisse  alquanto, .  forse  al  segno 
Uguale  mi  vedrei,  che  '1  nostro  ingegno 
Ascende  amando  e  più  oltra  gir  non  spera. 

Non  è  barchetta  così  lenta  e  frale, 

Ch'  avendo  voi,  e  vosco  amor,  in  poppa, 
Per  ogni  ondoso  mar  non  spieghi  Y  ale. 

Onde  la  musa  mia  va  pegra  e  zoppa 
Se  schiva  udite  lei,  ma  se  vi  cale 
Il  suo  cantarvi,  allor  lieta  galoppa. 

TMPERUNO. 

X  osto  finito  ebbe  di   dire,  eccovi  sprovedutamente 

un    augelletto,    o    per    caso,    o    tratto    dal    suo  concento 

'-'^     "^  si  ripose    appresso    d' un   arbore    sopra   un    ramo   secco, 

!  ove,   tacciuto  eh'  ebbe,    Limerno,  con  un  dirotto   gemito, 

I  faceva  la  selva  intorno  richiamare,  di   che  egli  alzata  la 

fronte  a  quella,  così  a  l' improviso    incominciò  con  seco 

a  ragionare. 


LIMERNO. 


V. 


aga,  solinga  e  dolce  tortorella. 
Oh'  ivi  sul  ramo  di  queir  olmo  secco 
Ferma  t'  appoggi,  e  hai  pallido  il  becco. 
Spennata,  pegra,  e  men  de  V  altre  bella. 

Dimmi,  che  piagni  ?  Piango  mia  sorella 

Perduta  in  queste  selve,  e  lei  dal  stecco 
Di  questo  antico  legno  chiamo,  ond'  ecco 
Miei  lai  riporta  a  la  più  estrema  stella. 

Lasso  !  eh'  anco  la  mia  penando  i  chero 

Per  questi  boschi,  e  'ndamo  quella  abbraccio, 
Fingendo  lei  quel  albero,  quel  pino. 

M'  acciò  eh'  el  nostro  affanno  men  sia  fiero. 
Partiamo  a.  V  uno  e  1'  altro  il  suo  distino, 
Ch'  altrui  miseria  al  miser  è  solaccio. 


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Il  caos  ■—  Selva  SECONDA  91 


TRIPERUNO. 


JL  iacquemi  sommamente  cotale  foggia  di  dire,  senza 
eh'  avessevi  egli,  come  si  sole,  faticosamente  avanti  ripen- 
sato :  Ma  levandosi  quella  un'  altra  fiata  su  le  penne, 
giuso  in  una  valle  portata,  da  gli  occhi  di  quello  si 
tolse.  Ed  esso  rallentata  la  corda  del  canto  piìi  de  l'altre 
affaticata,  mettesi  a  passeggiare  accanto  il  fiume,  tutto 
sopra  di  se,  come  pensoroso,  levandosi,  non  avendo  an- 
cora scorto  lo  mio  maestro  di  là  del  fiume  su  la  ripa, 
del  pane  fresco  agiatamente  disteso.  Ma  vedendolo  così 
sproveduto,  ritenne  il  passo,  e  tutto  il  viso  in  riso  can- 
giatosi, cominciò  ad  interrogarlo  in  questo  modo. 


DIALOGO    PRIMO. 

LIMERNO  E  MERLINO. 

LiM.  V^^he  fai  Merlino? 

Meb.  Empiomi  lo  magazeno. 

LiM.  Avantagiato  mercadante  sei  tu,  mangi  tu  forse  ? 

Mer.  Non  hai  tu  gli  occhi  da  vederlo  ? 

LiM.  Ben  veggio  con  gli  occhi,  ma  non  comprendo. 

Mer.  Per  qual  cagione  mi  domandi  tu  adonca  s'io  mangio, 
non  lo  potendo  chiaramente  vedere  ? 

LiM.  Io  so  che  i  fabbri  trattano  solamente  cose  da  fabbri, 
la  onde  parebbemi  cosa  disusata  e  nova  veder  Mer- 
lino far  altro  che  mangiare. 

Mer.  Io  so  ben  far  altro  ancora. 

LiM.  Credolti  troppo,  ma  che  ne  facci  testé  la  prova 
non  molto  mi  cale. 

Mer.  Perchè  così  ? 

LiM.  Vi  faressi  sentire  d' altro,  che  zibetto  e  acqua  non  fa. 

Mer.  e  cosa  naturale. 

LiM.  Via  più  asinale. 


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92  11  caos  —  Selva  seconda 


Mer.  Da  quanto  tempo  in  qua  sei  tu  così  delicato  e 
schivoso  devenuto  ?  non  ti  fai,  se  mi  ranmiento  bene, 
chiamar  Limerno  ? 

LiM.  Limerno  son  per  certo. 

Mer.  Limerno  Pitocco  ? 

LiM.  Io  son  pur  desso. 

Mer.  Dimmi  adonca,  Limenio  Pitocco,  per  qnal  cagione 
tu  ti  mostri  ora  tanto  schivo  e  ritroso  d' udir  no- 
minare quella  cosa,  con  cui  lordamente  hai  sconca- 
cato  (1)  quel  tuo  Orlandino  ? 

LiM.  Da  te  solo  ne  tolsi  lo  esempio,  Merlino. 

Mer.  e  dove  ? 

LiM.  Ne  la  quinta  fantasia  dal  tuo  volume. 

Mer.  Più  questo  in  un  Zambello  (2)  potevasi  tolerare, 
che  in  un  cavallero  e  paladino  di  Franza,  e  più  col 
mio  stile  macaronico,  che  col  vostro  tanto  onorevole 
toscano. 

LiM.  Adonca,  se  ben   comprendo,    appresso  di  te  lo  stile 
toscano  è  avuto  in  riverenzia,  che  così  onorevole  lo 
f  chiami  ? 

|.  Mer.  Perchè  no  ? 

LiM.  Che  ne  so  io?  mi  pare  di  stranio,  eh' un  uomo 
macaronesco  voglia  magnificare  Y  eloquenza  toscana. 

Mer.  La  cagione  ? 

LiM.  Perchè  lo  bove  si  rallegra  nel  suo  puzzo. 

Mer.  Ed  a  te  quanto  la  lingua  toscana  viene  in  grazia? 
in  che  openione  V  hai  tu  ? 

LiM.  Sopra  tutte  le  altre  quella  reputo  degna,  laudo, 
magnifico,  e  contra  li  detti-atori  di  essa  virilmente 
lei  deffendo,  che  quando  talora  per  sotto  questo 
ombre  mi  trovo  le  belle  rime  del  mio  Francesco 
Peti'arca  aver  in  mano,  overo  quella  fontana  elo- 
quentissima  del  Boccacio,  uscisco,  leggendo,  fora  di  me 
stesso,  devengone  un  sasso,  un  legno,  una  fantasma, 
per  soverchia  meraviglia  di  cotanta  dottrina.  Qual 
più  elegante  verso,  limato,  pieno  e  sonoro  di  quello 

(1)  Lascio  sconcato^  invece  di  sconciato  che  trovasi  in  ambedue  le 
edizioni. 

(2)  Zambello  è  il  fratello  di  latte  di  Baldo.   Vedi  la  prima  Mac- 
cheronica del  poema  il  Baldo. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  93 


del  Petrarca  si  può  leggere?  Qual  prosa,  orazione 
si  può  eguagliare  di  dottrina,  di  arte,  di  arguzia,  di 
proprietade  a  quella  del  facondissimo  Boccaccio  ? 
Dilchè  io  reputo  gli  uomini  literati,  li  quali  nulla 
delettazione  di  questa  lingua  si  pigliano,  essere  non 
pur  di  lei  ma  di  cortesia,  gentilezza,  ed  umanitade 
privi. 

Mkr.  e  quali  sono  questi  detrattori  di  essa? 

LiM,  Alquanti  persianisti  pedagogi,  o  pedantuzzi. 

Mer.  Che  cosa  dicono  ? 

Ltm.  Cotesta  lingua  essere  cagione  di   lasciar  la  romana. 

Mer.  Ed  io  nel  numero  di  costoro  mi  rallegi-o  essere, 
che  di  te,  e  d'  altri  toi  simili  ignoranti  meravigliomi, 
li  quali  non  intendendo  dramma  de  la  tulliana  fa- 
condia, e  gi'avitade  virgiliana,  vi  sete  totalmente 
affisi  ed  addescati  al  quinci^  quindi^  testò,  altresì^ 
chiunque,  unquanco^  altronde^  e  altri  dal  tosco  usi- 
tati  vocaboli. 

LiM.  Ah  volto  di  tavolazzo  !  ubriacò  che  tu  ti  sei,  presimimi 
tu  forse  di  tanta  suffìcienzia  essere,  che  tu  poscia 
la  sullimitade  (1)  de  la  toscana  lingua  diminuire  ? 

Mer.  Ah  muso  di  giottone  e  forca  che  tu  ti  sei  !  ardisci 
tu  dunque  cotanto  lodare  lo  stile  petrarchesco  e 
boccacciano,  che  la  romana  eloquenzia  non  essendo 
da  te  nominata,  da  te  riporti  infamia? 

LiM.  Tu  ne  menti  molto  bene,  che  non  biasmo  io  la 
'romana  lingua. 

Mer.  Tu  ne  stramenti  (2)  molto  più,  che  mentre  innalzi 
quella  troppo,  questa  abbassi  e  deonesti  molto. 

LiM.  Deh  !  vedi  cotesto  poetuzzo  macaronesco,  in  che  modo 
non  pur  giudice,  ma  advocato  di  Tullio  e  Virgilio 
da  se  medemo  si  constituisse. 

MiiR.  Deh  !  mira  cotesto  zaratano  lombarduzzo,  come  si 
mette  al  rischio  si  saper  ragionar  toscano,  ove  egli 
non  men  si  affk  d'  un  asino  a  la  lira. 

LiM.  Che  zaratano  ?  che  louìbarduzzo  ?  come  se  un  conte 
di  Scandiano,  un  Ludovico  Ariosto,  un  Tebaldeo, 
un  Lelio,  un  Molza,  e  altri  molti  valenf  uomini  non 

(l) Stdlhnitade  per  sollenUarìe. 

(2) Slramenti.  Vedi  nota  N.  79  all' Orlandino. 


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94  II  caos  —  Selva  seconda 


fossero  in  Lombardia  nasciuti  ! 

Mer.  Non  sei  tu  già  del  numero  loro  ? 

LiM.  Desidero  esserne,  onde  ogni  mio  studio  h  di  se  non 
eguarmi,  almanco  appressarmi  a  loro  ? 

Mer.  Molto  luntano  tu  li  vai. 

LiM.  Lo  bon  animo  non  vi  manca,  ma  tu  come  hai  bene 
osservato  le  divine  vestigia  di  Virgilio  in  quel  tuo 
perdimento  di  tempo  ? 

Mer.  Quale? 

LiM.  Quel  tuo  volume  dico,  nel  cui  sobbietto  le  prodezze 
de  non  so  chi  Baldo  cachi  e  canti. 

Mer.  Quanto  al  cantare  non  ho  io  già  da  imitare  Vir- 
gilio, quando  che  del  mio,  idioma,  lo  quale  sopra 
tiitti  li  altri  appresso  di  me  vien  reputato  nobile,  io 
non  mi  tegna  aver  superiore  alcuno  ;  ma  quando  al 
cacare,  non  voglioti  rispondere  altrimente,  perchè  se 
neir  opera  mia  son  stato  io  fin  a  li  galoni  in  quella 
tal  materia  puzzolente,  tu  Limerno  mio,  fin  a  gli 
occhi  ti  vi  sei  lordamente  voltato  ;  però  lasciamo, 
pregoti,  questo  soprabondevole  ragionamento  in  di- 
sparte, che  tu  e  io  abbiamo  in  ogni  modo  straboc- 
chevolmente eiTato. 

LiM.  Io  tolsi  lo  nome  solamente  di  Pitocco  per  diro  un 
tratto  lo  mio  concetto. 

Mer.  Ed  al  soggetto,  qua!'  è  quello,  non  accascava  se 
non  malagevolmente  il  nome  di  Pitocco,  e  anco  de- 
dicarlo a  un  signore  non  si  doveva. 

LiM.  Orsù  dunque  lasciamo.  Merlino  caro,  le  dette  tra  noi 
ingiurie,  e  siamo  amighi  come  prima. 

Mer.  Fa  come  ti  pare. 

LiM.  Ma  vorei  da  te  una  grazia  sola,  caro  mio  Coccaio. 
impetrare  ;  non  mi  la  negare,  pregoti,  se  '1  botazzo 
non  mai  ti  si  parti  dal  galone. 

Mer.  Tu  non  poi  fallire  di  domandarmi,  che  a  me  starà 
poi,  parendomi,  darti. 

LiM.  Non  ti  voler  piti  oltra  con  esso  meco  tiubare,  se 
un  mio  concetto  auto,  già  molti  mesi  ora  sono,  per 
scoprirti 

Mer.  Con  la  lingua  dì  pur  ciò  che  ti  pare,  ma  tacciano 
sopra  tutto  le  manit 


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Il  caos  —  Selva  seconda  95 


LiM.  Non  vi  è  pericolo,  mediante  fra  noi  lo  fiume,  di 
conflitto  alcuno,  Merlino  caro.  Ma  taci,  prego,  non 
odi  ?  conosco  la  dotta  mano,  conosco  lo  novo  Am- 
fione,  conosco  4o  mio  Marco  Antonio,  o  mirabilis- 
simo musico,  che  ben  quella  vii-tude  a  la  gentilezza 
d'  un  tal  animo  degnamente  conviene.  Non  odi  tu  lo 
accomodatissimo  ricercare  d' un  Lauto  ?  Costui  di- 
scese da  Vinegia  di  tutta  Italia  nutrice.  Egli  per 
doi  giorni  s' è  dignato  qui  fra  noi  dimorare.  Or 
ascoltamelo  ti  prego,  egli  ancora  non  ci  ha  veduto, 
e  men  voglio  che  ci  lasciamo  da  lui  vedere,  acciò 
lo  rispetto  suo  verso  de  noi  cessare  no  1  faccia  da 
sì  dolce  impresa. 


A 


1  ciel  or  trionfando  spiego  1'  ale, 
N  on  ho  di  sorte,  eh'  io  più  tema  Y  onte, 
D  apoi,  eh'  anti  si  altera  e  degna  fronte 
R  agiono,  ed  ella  udirvi  assai  le  cale, 


E  perchè  del  suo  nome  alto  immortale 
A  Izar  più  non  potrei  le  note  conte, 
S  crissile  in  capo  de'  miei  versi  al  monte, 
D  ove  salir  vorei  con  più  alte  scale. 

Or  loria  del  mondo  non  che  d'  un  sol  stato 

R  egna  costui,  eh'  ai  fatti  egregi  e  ad  essa 
I  ntegra  forma  ogni  mortai  eccede. 

T  urchi,  mori,  tedeschi,  e  d'  ogni  lato 

V  ien  gente  al  grido,  e  mentre  1'  ode,  e  vede 
S  ovra  la  fama  esser  il  ver  confessa  (1). 

(1)  Per  errore  tipografico  non  venne  marcato  il  primo  anagramma, 
che  io  già  trascrissi  nella  mia  prefazione  al  Voi.  I  delle  Opere  Macche- 
roniche  pag.  XXXI  e  che  è  latto  dalle  poesie  di  Tripeì^uno,  a  pag.  52, 
Triperjino,  pag.  62,  Lamento  di  Coriiagianni  e  Triperuno,  pag.  63,  e 
Tumulo  di  Cornagianniy  pag.  64,  il  quale  anagramma  dice: 

i.  Divi  Benedicti  Regida,  sub  quarn  ipse  militatuncs  Jam  ingre- 
diot\  pietitissima  et  evangelica  est. 

2.  Vericm  Ignatii  Fiorentini  tanta  ambilio  ut  illa  purìtas  ani- 
fnorum  penitus  corrupta  deciderit. 


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96  II  caos  —  Selva  seconda 


i 


LIMERNO. 


J\\V  eccellenzia  e  magnanimitade  d'  un  co  tal  prìn- 
cipe meglior  tuba,  che  solo  sollevi  e  innalzi,  non  si 
potria  giamai  trovare  di  questa.  E  se  d' intender  brami 
lo  nome  del  lodato  signore,  li  capoversi  del  cantato  so- 
netto chiaramente  quello  ti  appresentano,  ma  ecco  si 
move  a  dirne  appresso,  sta  queto. 

Voi  che  soavi  accenti,  alte  pai'ole. 

Rime  leggiadre,  e  pronti  sensi  ognora 
Impetrate  dal  ciel,  deh  !  perch'  un  ora 
Ei  non  m'  en  spira  esser  di  vostra  prole  ? 

Direi,  che  d'  un  tal  principe  non  sole 

Già  '1  mondo  esser  adorno,  il  qual  onora 
Non  pur  Vinegia  bella,  ma  di  fora 
Le  genti  sotto  V  uno  e  V  altro  sole. 

Cantate  '1  dunque  voi,  che  a  me  se  diede 
Benigna  udienza,  onde  lieto  ringrazio 
L' inclita  sua  virtù,  V  atto  gentile. 

Quanto  più  voi  di  dire  avete  spazio, 

Ma  ben  v'  annunzio,  che  stolf  è  chi  crede 
Poter  tanf  alto  porger  uman  stile. 


LIMERNO  E  MERLINO, 

LiM.  \Jy  ecco,  Merlino,  che  a  tempo  questo  gentil  mu- 
sico persemi  bona  cagione  di  dirti  lo  già  mio  pro- 
messo a  te  concetto.  Per  qual  dunque  ragione  tu 
omai  attempato  di  questo  tuo  paese  di  Carossa,  paese 
dico  da  ubriachi,  parasiti,  lurconi,  crapuloni  oggi 
mai  non  ti  svelli  ?  perchè  pur  anco  vi  dimori  tu  V 
Qual  foggia  di  vita  potrai  tu  forse  in  questa  re- 
gione de  lupi  adoperare,  la  quale  posciati  con  la 
utilitade  insieme  recarti  qualche  onorevol  fama  in 
questo  mondo,  e  removerti  finalmente  quel  nome  di 


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Il  caos  —  Selva  seconda  97 


Coccaio,  nome  dico,  di  somma  leggerezza,  sì  come 
il  nome  di  Pitocco  ancor  io   spero  di  lasciare  ? 

Mer.  De  r  onorevol  fama,  tanta  io  me  ne  acquisto  col 
mio  butiro  e  lai-do,  quanto  tu  con  quelli  toi  zibetti 
e  ambracani.  Ma  de  V  utilitade  io  t'  ho  saggiamente 
da  rispondere  :  ninna  cosa  essere  piti  utile,  che  '1 
mangiar  e  bere,  non  dicoti  le  antiche  giande  da 
tutti  lodate  e  non  toccate  se  non  da  porci,  anzi 
parlo  di  questi  miei  delicatissimi  liquori,  ove  la  vera 
diritta  via  di  ben  vivere  già  molti  anni  passati  mi 
ricondusse. 

LiM.  Qual  immortalitade  di  animo  vi  consegui  tu  per 
bere  o  mangiare  V 

Mer.  Or  come  potrai  tu,  gi^ossolano  che  tu  ti  sei,  vivere 
senza  queste  due  parti  ? 

LiM.  Anzi  tu  vivi  allora  sol  per  mangiare,  e  questa  è 
vita  bestiale. 

Mer.  Vah  !  diavolo.  Vivi  tu  forse  senza  mangiai'e  ? 

LiM.  Ben  mangio,  ma  sol  per  vivere. 

Mer.  Ed  io  vivo  per  mangiare. 

Ltm.  Grandissima  differenzia  è  cotesta. 

Mer.  Anzi  è  una  istessa  cosa,  ma  non  la  comprendi. 

LiM.  Ben  io  la  conosco,  che  assai  ti  fora  meglio  vivere 
per  vivere,  clie  vivere  per  mangiare. 

Mer.  Ed  io  quel  istesso  ti  replico,  che  meglio  sarebbeti 
mangiare  per  smaltire,  e  smaltire  per  mangiare. 

LiM.  Qual  fama,  qual  gloria,  qual  immortalitade  ne  averai 
poi  ?  non  ti  reuscirebbe  meglio  mangiar  per  vivere, 
e  vivendo,  acquistarti  perpetuitade  di  gloria  ? 

Mer.  Di  qual  gloria  intendi  tu? 

LiM.  Di  questo  mondo. 

Mer.  Aspettava  che  mi  parlassi  del  cielo. 

LiM.  Mi  pensi  tu  forse  così  pazzo,  eh'  io  creda  sopra 
la  luna  ? 

Mer.  Ed  io  di  te  assai  manco  credo,  che  volendo  una 
fiata  salir  un  arbore  di  fico  ad  empirmene  de  le 
sue  frutta,  per  mia  sventura,  venendovi  abbasso,  rup- 
pemi  una  spalla,  onde  d'  allora  in  qua  non  ho  mai 
voluto  più  credere  fin  a  Y  altezza  de  li  arbori.  Ma 
qual'  è  questa  gloria  del  mondo  e'  hai  detto  ? 

7 


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.98  II  caos  —  Selva  seconda 


LiM.  Innamorati,  raccendati,  affocati,  impazzisseti  di  qual- 
che bella  donna. 
Mer.  Con  diavolo   impazzirmi  ?  dolti  forse   d'  essere  solo 
l  pazzo  che  me  in  compagnia  cerchi  di  aver  ancora  ? 

^  Ben  doppia  saria  cotesta  matezza,  che  io  ornai  vec- 

chio   ribambito    mi    cacciassi    in    cotal    impresa.   E 
quando  pur  io  lo  facessi,  qual  fama  onorevole,  come 
hai  tu  detto,  ne  conseguisco  poi  ? 
M  LiM.  0  dolce,  o    soave   mattezza   di  questo  tenero  Cupi- 

i  dine,  lo  quale  di  tanta  virtude  si  rende  negli  amanti 

ì^  cagione  !    Voglio    primeramente,    che    a  grande  con- 

jl  tento  siati  lo    gire    non    pur    de    fini    e  strafoggiati 

fe^  panni,    ma   de    costumi  e   gesti   lascivi   ornato,  per- 

^,  fumarti  le  mani,  lo  viso,  le  labbra,  li  capelli  sovente 

I»  di  zibetto,  muschio,    e    altri  unguenti    con  acque  di 

I  grato  odore,  sforzarti  di  sapere  ogni  arte,  ogni  astu- 

&-  zietta    con    qualclie    simulata    invenzione    di   farti  o 

^V  pur  conservarti   grato    a    la    tua    madonna,  non  per 

f'  donar  a  la  borsa  in    feste,  danze,    conviti,  notturne, 

J  matinate,  e  qualche  dono  per  truzzimani  a  lei  cola- 

:  tamente  dricciato.    Ma    sopra   tutto   per   il  sprono  e 

dolce  incarco  di  questo  amoroso  affetto  tu  sempre 
averai  lo  componer  arguti  versi  pronto  e  dilettevole, 
laonde  voglio,  clie  totalmente  a  la  musica  vocale 
tu  ti  abandoni,  cantando  le  cortesie,  gli  sdegni,  gli 
atti,  le  parole,  o  in  lira,  o  in  lahto,  o  in  altro  soave 
strumento  de  la  tua  diva. 
Mer.  Non  mi  fa  mistero  lo  giJi  perfettamente  imparato, 
imparare  di  novo.  Pensi  tu  forse,  o  Limerno,  ch'io 
non  sappia  le  passioni  di  quello  arciere,  per  cui  già 
tanto  cantai,  eh'  ora  ne  son  roco  e  imbolsito  ? 
LiM.  Troppo  ti  '1  credo,  che  '1  fiasco  per  soverchio  bere 

consuma  un  corpo. 
Meb.  Anzi  lo  bere  fa  bona  ed  espedita  voce. 
LiM.  Ed  anco  li  quattro  fa  parerti  otto.  Ma  dimmi  :  soni 

tu  d'  altro  istrumento  che  di  fiasco  ? 
Mer.  Ecco  lo  sacco. 

LiM.  Per  la  croce  di  Dio  !  tu  dei  essere  un  boia. 
Mer.  Che  voi  dir  boia? 


|^A£, .  Digitized  by  ^OO^l^  _j 


Il  caos  —  Selva  seconda  99 


LiM.  Un  mastro  di  giustizia,  al  quale  si  dk  per  sua  mer-  ;^*i 

cede  tre  libre  di  piccioli  e  un  sacco  (1).  "^ 

Mer.  Ma  non  gli  danno  però  la  piva  drento.  j 

LiM.  Tu  dunque  vi  tieni  drento  la  piva?  j;: 

Mer,  Eccola.  j 

LiM.  Gonfia  ti  prego.  "^ 

Mer.  Lirum  hi   Urum   (2).  Voi   eh'  io    ti    mostri    s' io    so  ^ 

meglio  di  te  cantare  ?  -ki 

LiM.  Aspetta,   prego,    eh'  io  prima  dirò  ne  la  cetra,  e  tu  \J 

con  la  piva  mi  succederai.  •[> 

Mer.  Io  ne  son  molto  ben   contento.   Ma  dimmi  in  lom-  ci; 

bardo  stile,  che  non  t' intenderei  toscano.  :  ! 

LiM.  Farollo  veramente.  Odi  un  endecasillabo  del  sonno  :  'J\ 

Hiic^  hnc^  nocfivafjie  pater  tenebrce^  huc  som 

Mer,  Taci  là  !  questo  mi  par  latino,  e  non  lombardo. 

LiM.  Anzi   e'  lombardi    fanno    pessimamente,    partendosi  ^ 

elli  da  gli  antiqui  soi  maestri  di  lingua  latina,  quando 
che  lo  materno  parlare  tanto  rozzo  e  barbaro  gli 
sia.  Onde  s' io  considero  chi  di  Mantoa,  chi  di  Ve- 
rona, ed  altri  luoghi  di  Lombardia  nacque,  dirò  che  1 
proprio  parlare  de'  lombardi  saria  lo  latino.  j 

Mer.  Or  ben  conosco,  che  sei    uomo  vano  e  smemorato,  • 

eli'  ora  contradici  a  la   openione    tua    innanzi  detta.  j 

Anzi  lo  proprio  de'  Lombardi  è  lo  barbaro   da  lon-  I 

gobardi  derivato,  ma  di  meglio,  forsennato  che  tu 
ti  sci,  che  1  proprio  idioma  de  gli  abitatori  di  Lom- 
bardia sarel)be  lo  latino,  perchè  Lombai-dia  non  fu 
Lombardia,  se  non  dapoi  che  longobardi  la  barbarie  '  j 

^ipsì  del  parlare  come  de  costumi  portarono  in  quelle  I 

parti.  Li  costumi  se  ne  sono  in  sua  malora  partiti, 
e  lo  parlare  vi  è  restato,  e  però  confermarotti  quello  i 

che  già  sopra   dissi,    che  tu    essendo  lombardo,  più  ' 

presto  avezzarti    dovressi    a    la    paterna    tua  lingua  . 

latina,  che  a  la  pelegrina   a    te    toscana,   che  molto  | 

più  di  fama  e  gloria    conseguiranno   per   lo  avenire 

(1)  Da  questo  passo  si  viene  conoscere  lo  stipendio  del  carnifice 
cioè  di  tre  lire  mantovane  all'anno,  ed  un  sacco. 

(2)  Con  queste  parole  intende  di  immitare  il  suono  della  che  si  fa  1 
neir  accordare  la  piva.  Vedi  Volume  I  Zanitonella,  Egloga  1%  pagina  9, 

Versi  10,  17,  18  e  pag.  107  verso  6^  del  Caos. 


X 


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100  Tl  caos  —  Selva  seconda 


li  scrittori  latini,  che  gli  toscani,  quantunque  oggidì 
a  molti  lo  contrario  appaia,  servando  però  sempre 
la  dignitade  de  la  mia  Macaronesca.  Or  dunque 
mentre  io  m' apparecchio  responderti,  di  suso  quel 
tuo  promesso  endecasillabo,  o  latino,  o  lombardo  che 
si  sia,  non  voglio  di  cotesto    più  teco  disputare  (1). 


H 


LIMERNO. 

uc  huc  noctivagaì  pater  tenebrie. 
Huc  somne,  huc  placidae  sator  quietis 
Morpheu,  huc  insiliens  meis  ocellis 
Amplexusque  thorum  cuba,  aut  pererra 
Totum  hoc  populeo  madens  liquore 
Corpus,  tum  gelidum  bibens  papaver. 
Hinc  hinc  mordicus  intirais  medullis 
Haerentes  abeant,  cadantve  curse, 
Ut  grato  superum  fruar  sopore, 
Mox  grates  superis  feram  diurnas. 

MERLINUS. 


X^ost  vemazzi  flui  sugum  botazzi, 

Post  corsi  tenerum  greghique  trinchum. 

Et  roccam  cerebri  capit  fumana. 

Et  sguerzae  obtenebrant  caput  chimaera?. 

0  dulcis  bibulo  quics  tedesco, 

Seu  feno  recubat  canente  naso. 

Seu  terrse  iaceat  sonante  culo. 

Mox  panzae  decus  est  tirare  pellem, 

Mos  est  sic  asino  bovique  grasso. 

(0  Le  idee  del  Folengo  sulla  formazione  e  suir  origine  dei  nostri 
dialetti  non  sono  giuste,  giacché  essi  non  vengono  dai  longobardi  e  si  sa 
che  esistevano,  in  tutta  l'Italia,  molti  secoli  avanti  la  calata  dei  barbari. 

Del  rasto  la  discussione  che  egli  fa  intorno  alla  prevalenza  del 
toscano,  o  del  latino  è  quella  che  si  laceva  ai  tempi  suoi»  il  quale  però 
nonostante  le  sue  predilezioni  per  il  latino,  capisce  benissimo  che  il 
toscano  era  accettato  oramai  come  lingua  nazionale  da  un  capo  air  altro 
della  penisola. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  101 


LIMERNO  E  MERLINO. 

LiM.  XA  h  !  ah  !  ah  !  tu  mi  rompi  de  le  risa  il  petto  con 
questa  tua  cosi  gentil  Camena.  Veridico  filosofo  ben 
fu  quello,  che  disse  lo  ranocchio  non  sapersi  com- 
portare del  suo  fango  fora. 

Mer.  Non  mi  dar  piglio  a  la  coda,  Limerno,  eh'  io  so 
meglio  mordere,  che  tu  pigliare. 

LiM.  Non  ti  addirare,  prego,  che  d'  addirarti  causa  non 
è  ;  già  cotal  proverbio  non  dissi  per  biasmo  tuo, 
anzi  contra  me  solo  volsi  accennare,  che  via  pia 
sono  manco  agevole  al  dir  latino  che  toscano. 

Meb.  Ed  io  similmente  trovomi  essere  manco  idonio  ad 
ascoltare  toscano  che  bergamasco,  e  questo  men  ag- 
gradiscemi  del  romano,  o  voi  latino.  Dilche  se  hai 
pur  a  dirne  più,  ecco  ai  nomeri  latini  mille  orecchie 
ti  spalanco  e  sbaratto. 

LiM.  Di  qual  nome  fassi  degno.  Merlino  mio,  un  uomo, 
che  ingrato  sia? 

Mer.  Dilli  ragionevolmente  bestia. 

LiM.  Così  da  bestia  te  ne  voglio  trattare  uno,  or  odi  : 

lam  gens  humanos  nec  quidquam  perfide  vultus  ; 

lam  cole  cum  nemorum   stirpe  ferine  nemus. 
Immemor  accepti  ([ui  muneris  infremis  instar 

Belluse,  et  in  nostrani  sa^vis,  inique,  fidem. 
Prodis  amicitìa3  foedus  :  nec  te  pudor  uUus 

Arguit,  i,  peto,  vir  non  eris  inde,  feras. 

Chiamavasi  costui  per  nome  Urbano,  e  male  conve- 
nivagli  veramente,  che  mai  né  il  più  scortese,  né 
il  più  rozzo,  ne  il  più  aspro  si  puote  vedere  di  hii 
fra  quante  ville  di  Padoa  o  Vicenza  si  ti'ovano,  del 
quale  fu  già  composto  quella  similitudine  contraria  : 

Lucus  luce  carens  nomen  de  luce  reca?pit  ; 

Bellum,  quod  bellum  sit  minus,  inde  venit. 


4     ? 


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102  II  caos  —  Sklva  seconda 


Hinc  quoque  te  Urbanum  merito  appellanius,  ut  isto 
.    Nomine  rustieitas  sit  tua  nota  ma^is. 


"o" 


Deh  !  pregoti,  amatissimo  Medino,  lasciami  eh'  io 
canti  di  amore  in  toscano  idioma,  che  veramente 
non  so  io  più  che  dirti  latino. 

Mkt?.  Non  lo  farò  io  giamai,  tu   canti  a  me  e  non  a  te. 

LiM.  Non  voglio  per  niuna  guisa  esserti  ritroso,  e  perchè 
di  cotesta  materia  latina  ho  molta  penuria,  e  tu  vi 
hai  pur  piantado  ostinatamente  lo  chiodo,  eh'  io  non 
debbia  se  non  latinamente  cantare,  non  mi  ritraggo 
a  dirti  alquanti  versi  da  me,  ancor  fanciullino  com- 
posti, trovandomi  su  quello  di  Ferrara  in  certa  villa, 
mandatovi  da  mio  padre  per  imparare  lettere  ap- 
presso d' un  frate,  lo  quale  molti  scolari  teneva 
sogetti,  e  più  li  belli  che  li  brutti,  nel  qual  luogo 
per  coruttela  di  grosso  aere,  soprabondavano  tante 
biscie,  rane,  zenzale,  e  pipastrelli,  che  mio  inferno 
mi  pareva  di  tonnentatori.  La  onde  ritrovandomi 
ogni  sera  in  guisa  d' un  lazzaro  mendico  tutto  da 
le  punture  di  quelli  volatili  animaluzzi  impiegato  (1), 
così  al  mio  maestro  puerilmente  recitai. 


LIMERNUS. 


0 


mihi  pierijs  liceat  demergier  undis, 

O  veniat  votis  dexter  Apollo  meis. 
Quidquid  ago,  fateor,  sunt  carmina,  carmina  sed  qiuc 

Non  sapiunt  liquidas  belorophontis  aquas. 
Hic  nisi  densa  pahis  iuncis  et  harundine  torpet, 

Hic  nisi  stagnanti  me  palus  amne  lavat. 
Advoco  si  musas,  prò  musis  ecce  caterva 

Insurgit  culicum,  meque  per  ora  notat. 
Dum  cantare  paro  fletu  mihi  himen  immdat, 

Factaque  per  culices  vulnera  rore  madent. 
Hic  quoque  noctiuagse  strident  idulantque  volucres, 

Ac  ventura  nigr?e  damna  minantur  aves. 

(l)  Ambedue  le  edizioni  hanno  impiegalo  per  impiagalo. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  103  | 

Quid  referam  piiHces  agili  qui  corpore  saltant  ?  .>j 

Utramque  quos  ca3dens  iam  earet  ungue  manus.  ; 


MERLINO. 


Q> 


^'uesti  tei  versi   quantunque   mi  sappiano  di  pue-  ^ 

rizia,  pur  non  vi  manca  l'arte,  e,  per  dir  meglio,  la  ve- 
ritadc,  imperochò  io  molto  più  volentieri  abiterei  su  lo 
contado  di  qualuncjue  altra  cittade,  che  su  quello  di  « 
Ferrara,  non  già  perchè  ella  non  abbia  tutte  le  bone 
condizioni,  che  si  ricercano  in  una  simil  terra,  così  di 
regimento  come  di  nodrimento,  ma  baldamente  dirò  che  f 

causa  venma  non  le   occorre,  perchè    del    aere  o  sia  del  -^ 

cielo  ella  si  debbia  lodare,  che    quando    la  industria  più  •' 

de  la    natura   non    vi    avesse    proveduto,  guai  a    le    sue  ! 

gambe.  La  ondo,  essendovi  non  so  qual  poeta  mantoano,  u 

per  un  eccesso  non  picciolo,  destinato  dal  signore  a  par-  j 

tinie  im   onesto    esiglio,  e  già  pervenuto  su  l'entrata  di  ]\ 

essa,  in  queste  parole  sospirando  ruppe. 


I 


MERLINUS.  ^:^ 


nsperata  meis  salve  Ferraria  curis. 

Tale  sisexilium  ne,  rogo,  quale  daris, 
Me  non  parva  reum  fecit  tibi  culpa,  reatum 

Ex  te  num  luerit  congrua  poena  meum  ? 
Noster,  ais,  venias  ;  nostros  quoque  suscipe  ritus, 

Vivitur  humano  sanguine,  trade  cibum. 
Mantous  cnlicis  funus  iam  lusit  Homerus 

Mantous  culicum  tu  quoque  gesta  cane. 

LIMERNO  E  MERLINO. 

Ltm.   l^he  quelle  bestiuole  siano    causa,  per  cui  lo  usar 
in  Ferrara  non    ti   aggrada,  malamente  te  lo  credo. 
Mer.  Poco  erroie  è  questa  tua  mescredenza. 
LiM.  Perchè  dici  tu  dunque  la  menzogna  ? 


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104  II  caos  —  Selva  seconda 


Mer.  Se  per  mezzo  de  la  menzogna  tu  intendi  la  veri- 
tade,  perchè  mentitore  mi  fai  ? 

LiM.  Mentitore  sei  per  certo. 

Mer.  Si,  ma  verace. 

LiM.  Qual  veritade  ho  io  gìh  inteso  per  la  bugia  teste 
fatta  ? 

Mer.  Perchè  Ferrara  certosa  non  per  mosche  o  tavanelle 
mi  è  a  noia,  ma  perchè  ivi  raccogliendosi  lor  vini 
su  le  groppe  de  le  rane,  pensa  mo  tu  qual  eccidio 
qual  ruina  sarebbe  del  mio  stomaco. 

LiM.  Ferrara  e  Mantoa  di  molte  qualitadi  si  corrispon- 
deno.  Ma  voglio  che,  si  come  ora  ti  concessi  lo  mio 
cantar  latino,  così  non  manco  tu  ti  comporti  nel 
ascoltarmi  un  breve  capitulo. 

Mer.  Chi  fu  lo  autore  di  esso  ? 

LiM.  Perchè  ciò  mi  domandi  tu? 

Mer.  Quando  che  non  mi  dilettino  molto  le  cose  tue,  e 
consequevólmente  non  ti  presto  udienza  se  non 
sforzato. 

LiM.  Non  è  mio  veramente,  io  già  fora  d'  un  scrigniolo 
quello  rubbai  dentro  di  Lementana  o  Nomentaua 
meglio  diremo,  luntano  da  Roma  diece  migliara,  ca- 
stello nobile  sì  per  la  vecchiezza  di  esso,  sì  per  la 
generosissima  famiglia  de  Orsini  di  quello  e  alti-e 
assai  terre  posseditrice,  e  madonna  ;  e  benché  io 
molte  volte  V  abbia  per  mio  recitata,  nulla  di  manco, 
mi  confesso  a  te,  non  esser  egli  mio  son  certo,  ma 
d' un  Gian  Lorenzo  capo  d' oca  secretarlo  del  si- 
gnore del  loco. 

Mer.  Ora  incomincia,  e  io  fratanto  un  sonetto  voglioti 
comporre. 


LIMERNO. 


s 


ia  pur  contrario  a  noi  Y  aspro  furore 
D'  ogni  stella  crudel,  d'  ogni  elemento. 
Che  r  ira  sua  non  piega  un  stabil  cuore. 
Latri  chi  voi  latrar,  io  gli  '1  consento, 

Che  tanto  si  alza  più  la  fiamma  accesa, 
Quando  lei  spegner  vole  un  picciol  vento. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  105 


Qual  più  lode  voi,  qual  più  chiara  enipresa 
D' una  costante,  d'  una  fede  piu'a, 
Ch'  odio  non  teme  ne  di  sorte  offesa. 

Un  fermo  scoglio  d'  onde  non  ha  cura. 

Ne  un  stabil  cuore  di  quahinque  olti-aggio, 
Che  fede  intorno  a  lui  più  allor  s' indura. 

Sol  ne  gli  affanni  si  conosce  il  saggio, 

Lo  qual,  per  eh'  im  bersagUo  sia  di  sorte. 
Non  parte  mai  dal  cominciato  viaggio. 

Né  di  ferro  minaccie,  né  di  morte, 

Mentre  animosamente  spiega  1'  ale 
Di  fede,  mai  paventa  un  uomo  forte. 

Però  la  forza  lor  in  noi  che  vale  ? 

Gik  chi  congiunse  in  ciel  altrui  non  scioglie 
Perchè  non  svaria  mai  corso  fatale. 

Lasciali  pur  empir  lor  empie  voglie, 

Livido  cuor  sol  di  se  stesso  è  pena, 
E  chi  semina  tosco,  tosco  accoghe. 

Pingon  in  ghiaccio  e  solcan  ne  la  rena, 
E  quelli  de  la  pugna  al  vento  danno, 
Che  rodon  la  fidel  nostra  catena. 

Ma  tu  la  lor  malizia,  il  lor  inganno 
Impara  di  conoscer,  e  lor  fraude. 
Che  bello  è  Y  imparar  a  Y  altrui  danno. 

Se  ride  '1  tuo  nemico,  se  '1  t'  api)laude. 

Tu  similmente  applaudi  e  ridi  ad  esso, 
Cli'  esser  falso  co  fal«i  e  somma  laude. 

Se  ancora  ti  minaccia  e  morde  spesso. 

Contieni  d' ira,  che  ti  fia  gran  palma, 
Summa  vittoria  e  '1  vincere  se  stesso. 

Non  de  turbarti  un  incolpevol  alma, 

S'  ognor  in  lei  più  Y  odio  si  rinforza, 
Ch'  un  gir  leal  non  sa  peso  ne  salma. 

ISlsi  se  considri  ben  sua  debil  forza 

Tu  riderai  di  lor  invidia  ed  onte  ; 
Ardor  di  paglie  subito  s'  ammorza. 

Sian  dunque  lor  insidie  occulte  o  conte 

Osserva  quelle  e  queste,  ride  e  sprezza. 
Ohe  '1  bon  nochiere  se  tien  la  fronte  a  fronte 

Di  sorte  accortamente,  mai  non  spezza. 


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106  II  caos  —  Sflva  seconda 


MERLINO  E  LIMERNO. 

Mer.   v^  quanto  m'  è  giovato  questa  dolcezza. 

LiM.  Or  vedi  tu  dunque,  clie  sin  a  te  la  soavitade  di 
rime  toscane  sono  aggradevoli  ? 

Mer.  Per  qual  segno  conosci  tu  in  me  cotal  effetto 
essere  ? 

LiM.  Come,  non  hai  tu  già  detto  questa  dolcezza  averti 
non  poco  gradito  ? 

Mer.  Si  del  sonno  che  ho  fatto. 

LiM.  Tu  dorme  vi  dunque  mentre  io  cantava  ? 

Mer.  Che  meraviglia?  non  sei  tu  già  di  minor  vigore 
d'  una  sirena 

LiM.  Dormivi  tu,  caro  Merlino  ? 

Mer.  Domine  ita.  Ben  ti  lo  dissi  da  prima. 

LiM.  Che  cosa? 

Mer.  Di  componerti  un  sonetto. 

LiM.  Or  baldamente  t' intendo,  grandissima  è  la  diffe- 
renzia ti-a  lo  sonnetto  e  soneto. 

Mer.  Quanto  è  tra  '1  persuto  e  lo  schenale. 

LiM.  Io  ti  voleva  domandare  lo  giudizio  tuo  si  de  Io 
verso  come  del  ricitatore,  ma  per  quello, .  che  me 
ne  pare,  ho  ragionato  con  le  mm-a. 

Mer.  Anzi  e  la  campana  e  lo  campanaro  mi  è  pia- 
ciuto, ma 

LiM.  Ma  che  ? 

Mer.  Aggradito  m'  averia  più,  se 

LiM.  Se  che  ? 

Mer.  Se  più  lungo  fusse  proceduto. 

LiM.  La  cagione  ? 

Mer.  Per  più  donnire. 

LiM.  E  pur  gran  torto  mi  fai  non  ascoltarmi  così  come 
io  voluntieri  ascolto  te,  non  gik  per  fasto  e  vana- 
gloria, ma  per  avere  solamente  qualclie  aviso  da  gli 
uditori,  se  dicendo  nel  istrumento  mi  sconcio  troppo 
nel  volger  il  capo,  nel  girar  de  gli  occhi,  nel  finger 
caldi  sospiri,  se  graziosamente  o  no  tengonii  sul 
braccio  la  ceti-a,  se   abbasso    o    pm-    troppo  innalzo 


-tìL. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  107 


la  voce,  e  altre  simili  particulari  eflfetti  d' un  amante, 
acciò  che  per  V  alti'ui  aviso  pii\  ragionevolmente 
avezzare  mi  sappessi,  dovendomi  egli  poscia  essere 
a  molto  accrescimento    de    lo    amore  di  mia  donna. 

Mer.  Se  queste  parti  non  hai,  ben  ti  le  poscio  mostrar 
io,  se  mi  ascolti  per  una  pezza,  e  forse  lo  sonno  ti 
starà  luntano  per  vigor  de  la  mia  piva,  or  odi  im 
oda  in  loda  d'  una  mia  ammorosa  detta  la  Mafelina, 
e  impara  da  me  gli  affettuosi  gesti. 

LiM.  Comincia,  eh'  io  mi  sento  voglia  di  mangiar  riso. 

MERLINUS. 

xxspra,  crudelis,  manigolda,  ladra, 

Fezza  bordelli,  mulier  diabli. 

Vacca  vaccarum,  lupaque  luparum 

Porgat  orecchiam. 
Porgat  uditam,  Mafelina,  pivse  ; 

Liron  0  hliron^  coleramque  nostri 

Denti s  ascolte t,  crepet  atque  scoppiet. 

More  vesighse. 
Illa  stendardum  facie  scoperta 

Fert  putanarum,  petit  et  guadagnum, 

Illa  marchettis  cupiens  duobu» 

Ssepe  pagari  (1). 
Semper  ad  postam  gabiazza  rosso 

Piena  belletto,  sedet  ante  portam. 

Chiamat,  invitat,  pregat,  atque  tirat 

Mille  fomatos. 
Mille  descalzos  petit  ad  cadregam, 

Perque  mantellum,  fuciens  carezzas, 

Intus  agraffat,  quid  habent  nìonetaj 

Prima  domandat, 
Quis  mihi  credat  quod  avara  stabit 

Salda  ad  unius  pagamenti  bezzi  ? 

Quis  bagassarum  similem  scoazzam 

Vidit  Arena? 

(1)  Da  questi  veràì  si  intende   il  prezzo  delle  generoio  dei  tempi 
dei  Folengo. 


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108  II  caos  -:-  Selva  seconda 

Nulla  Veronse  meretrLx  Arenae  (1) 
Peior  Ancroia  reperitur  ista, 
Heu  !  tapinelli  poverique  amantes 
Ite  dabandam. 

Ite  luntani,  moneo  ;  provator 

Ipse  crustarum  putride  carognre, 

Ibit  in  Fraiìzam  (2).  Pochi  pendit  istiim 

Quisquis  avisum. 


LIMERNO  E  MERLINO. 


M. 


LiM.  lVJ.erlino  mio,  questa  tua  foggia  di  cantare  non  sì 

dimanda  cantare,  ma  un   abbagliare,  un  mugire,  un 

tonare  su  per  le  ripe  del  Pado. 
Mep.  Sonano  li  pifari  su  per  li  argini  del  Pado. 
LiM.  E  raggiano,  come  dice  il  mantoano,  li  asini. 
Mek.  Tu  voi  dunque    dire,    che   in    questa  mia  chiusura 

fra  tanti  asini  io  canto  ? 
LiM.  Ed  anco  peggio  ti  direi,  s' io  sapessi. 
Mer.  Più  rozzo   cantore    di    lui   non    saperci  io  gik  mai 

trovare. 
LiM.  Si,  di  canto  figurato. 

Mer.  Cantano  forse  altramente  che  di  figurato  ? 
LiM.  Lo  suo  naturale  e  nativo. 
Mek.  Qual'è? 
Ltm.  Canto  quadrato,  largo,  sonoro,  e   molto  di  gorga,  e 

più    de    le   volte    fannoli   drento    un    sti-ano    conti-a 

punto. 
Mer.  In  qual  modo  ? 
LiM.  Con  la  musica  di  drieto,  la  quale   mantengano  con 

la  eguale  battitura  de  calzi,  non  mai  alterandovi  la 

misura. 
Mer.  Dunque  lo  asino  ha   una    parte    da    natura  più  de 

gli  altri  animali. 
LiM.  Come  cosi  ? 


(3)  Vedi  Voi.  I  Zanitonella  pag.  40  la  nota  P. 

(4)  Anche  qui  con  una  velata  allusione  al  nialfrancese  il  Folengo 
appalesa  la  sua  avversione  ai  francesi. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  109 


Mee,  Che  r  asino  con  due  voci  in  una  istessa  musica 
può  cantare. 

LiM.  Anzi  può  cantare,  sonare  e  battere  insieme. 

Mer.  Annodavi  un  altro  gruppo  a  questa  virtù. 

LiM.  Quale  ? 

Mer.  Messer  lo  asino  sa  chiudere  una  borsa  senza  se- 
raglie. 

LiM.  Meravigli avinii  se  da  gli  asini  si  potesse  guadagnare 
altro  che  calzi  e  correggie  e  da  un  Merlino  altro 
che  sporche  e  stomacose  parole.  Or  stattine,  tuo  mal 
grado,  in  questa  tua  lordura,  porco  da  brotaglie  che 
tu  sei,  che  ben  di  me  medemo  non  posso  fare,  che 
non  mi  meraviglia,  standomi  quivi  ad  altercar  con 
un  devorone  di  lassagne,  nemico  di  gentilezze  e 
cortesie. 

Mer.  Vanne  tu  vanissimo  e  ageminato  Cinedo,  che  gli 
odori  de  quelli  toi  unguenti  e  impiastri  fumentati 
per  altra  cagione  non  porti  tu,  se  non  per  ammon- 
tare e  spegnere  lo  fettore  de  le  sozze  bagasce,  fra 
le  quali,  giorno  e  notte,  sempre  tu  dimori. 


LIMERNO. 


X^  orsennato  e  pazzo  che  son  io,  essermi  raffrontato 
a  favoleggiare  con  questa  destruzione  di  raffiuoli.  O  me- 
schino me  !  se  la  unica  mia  signora  e  divinissima  dea 
giamai  pressentisse  lo  suo  Limerno  aver  dimorato  una 
bona  pezza  con  un  lordissimo  porco,  or  che  direbbe  ? 
or  che  farebbe  ella  "?  Per  lo  vero  non  mai  più  se  non 
con  torto  sembiante  mi  guardarebbe.  Voi  adunque  chiari 
fonti,  cristallini  ruscelli,  porporei  fiori,  amene  piagge, 
riposti  antri,  voi  gai  augelletti,  lascivetti  conigli,  guar- 
dativi che  alcuno  di  voi  non  presumi  lo  folle  mio  er- 
rore a  lei  manifestare,  a  lei  dico,  la  cui  presenzia  a  tutti 
con  un  sol  riso  vi  abbella,  che  molte  volte  degnavi  de 
r  angelico  suo  cons])etto,  appoggiando  le  belle  membra 
or  su  quella  fiorita  sponda  del  vivo  ruscello,  or  sotto 
quel  speco  inederato  di  allori,  mentre  Y  ardente  sole  a 
gli  animali  rende  Y  ombre  aggradevoli.  Deh  !  pregovi,  te- 


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110  11  caos  —  Selva  skconda 


netimi  dal  mio  sole  coperto,  che  dubbio  non  ò,  quando 
ella  non  più  si  degnasse  di  comportar  le  mie  lodi,  lo 
mio  ver  lei  amore,  io  ne  morirei  ;  io  da  me  istesso  di 
quel  olmo  al  vecchio  tronco  mi  sosi)enderei.  Ma  inantl 
la  miserabil  morte  mia  annunziovi,  che  crudel  A^endetta 
di  tutti  voi  ne  pigliarci,  non  è  fiore,  non  è  pianta,  non 
è  fonte,  che  impetuosamente  non  straziassi,  svellessi,  e 
disturbassi.  Statene  dunque  o  de  miei  secreti  consape- 
voli, statene  taciti  e  quieti,  ma  non  si  taciti  e  quieti. 
che  le  rime  mie,  le  quali  ora  sono  cantando  per  isfo- 
gare,  non  subito  le  riportati  e  recantati  a  le  sue  divine 
orecchie.  E  perchè  voi  avete  ad  essere  miei  fidelissimi 
compagni,  consequevolmente  voglio  che  d' ogni  mio  se- 
creto voi  siate  participevoli. 

Io  dunque  meritar  puotei  la  entrata  di  questo  san- 
tissimo giardino  allora,  quando  la  fama  sola  d' ima  non 
pur  bellissima,  ma  prudentissima  madonna  mi  cocque  le 
medolle,  lo  cui  bel  nome  voi  ne  capoversi  di  questo 
succendente  sonetto  potreti  conoscere,  lo  quale  già  lo 
fido  mio  falcone  nel  scorzo  di  quel  frassino  intagliando 
scrisse  : 


G 


loriosa  madonna,  il  cui  bel  nome 
I  n  capo  de  miei  versi  porrò  sempre, 

V  orrei  pur  io  saper  de  quali  tempre 

S  ian  que  A'^ostr'  occhi  neri  ed  auree  chiome. 

T  rema  ciascun  in  lor  mirando,  come 

I  vi  sia  la  virtude,  che  distempre, 

N  ostra  natura,  e  'n  ferro  i  cuori  tempre, 

A  cciò  più  di  leggier  lor  tiri  e  dome. 

D  i  calamita  dunque  se  non  sete, 

I  n  voi  di  cotal  pietra  è  forza  al  manco 

V  ivace  sì,  eh'  ogni  materia  liga. 

I  o  tragger  vidi  de'  vostr'  occhi  al  rete 
N  atura,  amor  e  'l  sol  di  sua  quadriga. 
A  Itra  simile  a  voi  chi  vide  unquanco  ? 


i 


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Il  caos  —  Selva  seconda  Ili 


LIMERNO. 


Mi 


girabilissima  è  per  certo  di  costei  la  beltade  e 
cortesia,  la  cui  fama  sola,  or  che  fa  poi  la  presenzia, 
puote  di  luntane  conti-ade  altrui  ricondurre  a  vedere  e 
contemplare  la  tanta  lei  vaghezza,  la  tanta  lei  graziosis- 
sima  onestade.  La  onde  chiunque  al  primier  assalto  la 
vede  subitamente  vien  con  stretto  ad  prorumpere  in  co- 
teste  simili  parole  : 


0. 


"r  non  più  fama,  or  non  più  '1  sparso  giido 
L'  unica  sua  bellezza  mi  dichiara, 
Che  mentre  a  gli  occhi  nostri  non  fu  avara 
Vidila  sì,  che  così  ardendo  i  grido. 

Per  r  universo  non  che  'n  questo  lido 

Più  bella,  accorta,  pronta,  onesta,  e  rara 
Donna  chi  vide  mai  ?  quivi  s' impara 
Nata  beltà  d'  amore  ad  esser  nido. 

Però  se  questo  e  quello  od  altri  l'ama 
Meraviglia  quaV  e  ?  ma  beu  saria, 
S'  uom  ò,  (^10  lei  mirando  non  s  impetra. 

Quel  guai'do  pregno  d'  alta  leggiadria. 

Quel  dolce  riso  anco  nel  cuor  mi  chiama. 
Costei  sola  del  ciel  le  grazie  impeti-a. 


LIMERNO. 


M. 


La  si  come  dal  ciel  ogni  grazia  in  lei  discese, 
così  ella  in  me  non  dedignossi  la  sua  impartire,  con- 
tentandosi, eh'  io  di  lei  faccia  resonare  voi  sollevati  colli, 
e  ombrosi  poggetti.  Or  dunque  abbassativi  o  verdi  cime 
de  voi  faggi  e  abeti,  de  voi  lauri  e  mirti,  de  voi  querze 
e  illiei,  de  voi  viti  e  olmi;  abbassativi  dico  ad  ascoltare 
questa  mia  sonora  cetra,  ma  non  bastevolmente  sonora 
a  r  altezza  di  quella  madonna  :  ad  udire  queste  naie  leg- 


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112  II  caos  —  Selva  seconda 


giadre  rime,  ma  non  leggiadre  al  merito  di  quella  dea, 
a  sentire  lo  mio  dirotto  pianto,  ma  non  si  dirotto,  che 
poscia  r  ardentissime  faci  spegnere  de  Y  aflfòcato  core.  E 
se  troppo  baldanzosamente  vi  paio  di  fare  mentre  io 
dico  di  lei  d'  ogni  alto  stile  degna,  incolpate  sol  amore, 
lo  quale  mi  fa  sovente  dire,  quello  che  di  tacere  assai 
mi  fora  meglio,  e  sognandomi  più  volte  movemi  a  va- 
neggiare quanto  ora  sete  per  udire  in  questa  mia  debil 
cetra  : 

V^uesta  madonna,  che  si  dolce  altiera 

Un  sol  di  tante  stelle  in  mezzo  asside, 
Dimmi,  dond'  è  che  austera  in  volto  ride 
Scoprendo  insieme  il  v(3rno  e  primavera? 

Vedi  se  di  virtù  donna  si  intera 

Fu  mai,  eh'  un  cor  a  un  sol  riso  conquide, 
Ma  lui  tropp'  alta  speme  non  affide, 
Che  fugge  '1  riso  ed  egli  più  non  spera. 

Cosi  r  alta  guerrera  e  sferza,  e  freno 

Tien  di  chi  1'  ama,  ed  ama  chi  la  vede, 
Anzi  chi  r  ode,  anzi  chi  dir  ne  sente. 

Cosi  '1  regno  d'  amor  costei  possedè, 
Ove  tanti  bei  spirti  saggiamente 
Bella  nudrisse  al  dolce  suo  veleno. 


LLAIERNO. 

Viuando  1'  alma  gentile,  per  cui  sola 

Moro  la  notte  e  poi  rinasco  '1  giorno, 
Venne  dal  ciel,  per  farvi  anco  ritorno. 
In  questa  vita,  eh'  fc  d'  errori  scola. 

Amor,  che  'n  queto  quinci  e  quindi  vola. 
Si  le  fé  centra  di  sue  spoglie  adorno 
Qual  fier  tiranno,  eh'  al  suo  carro  intorno 
A  tanti  uomini  e  dei,  eh'  al  mondo  invola. 

Ma  lei  di  se  maggiore  e  d'  altre  frezze 
Vista  luntan  alteramente  armata, 
Stette  smarrito  e  dal  triunfo  scese. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  113 


Quella  da  sue  virtù,  da  sue  bellezze, 

Di  che  r  ornò  natura  e  '1  ciel,  levata 
Nel  carro  stesso,  in  noi  V  arco  si  tese. 


LIMERNO. 


jLAlluntanato  è  '1  sole,  e  noi  qui  manchi 
Del  suo  bel  raggio  fan  più  giorni  lassa. 
Io  pur  spiando  s'  altri  quindi  passa. 
Spesso  alzo  gli  occhi,  di  mirar  già  stanchi. 

I  dico  s'  alcun  passa,  che  rifranchi 

Noi  d'  està  valle  del  suo .  lume  cassa, 
Narrando  il  suo  ritomo;  ma  trapassa 
Con  speme  V  anno  e  morte  abbiamo  ai  fianchi. 

Sleguasi  '1  tempo  ne  pur  anco  appare, 

Chi  dica  :  annuncio  a  voi  grande  alegrezza, 
Ecco  toma  colei,  che  '1  mondo  abbella. 

Lasso  !  non  so,  che  più  mi  speri,'  eh'  ella 
Per  su  que  monti  con  Diana  pare 
Va  solacciando  e  noi  qui  giù  non  prezza. 


LIMERNO. 


I 


n  quelle  parti,  ove  di  poggio  in  valle 

Di  valle  in  poggio,  va  scherzando  Aprile, 
Madonna  or  giace,  e  in  atto  signorile, 
Sovente  in  V  erbe  pon  su  fior  le  spalle. 

Zefiro  intomo  baldamente  valle 

Spirando  in  quella  faccia,  in  quel  gentile 
Sino  d'  avorio  schietto,  e  chiama  vile 
Di  borea  1'  Orizia  e  biasmo  dàlie. 

Tal'  or  ella  si  parte  al  loco,  dove 

Già  di  sua  Laura  sì  altamente  disse. 
Colui,  che  'n  rime  dir  ha  '1  più  bel  vanto. 

Quivi  s' inchina  umile  al  sasso,  e  move 

A  r  ossa,  eh'  entro  stanno,  un  dolce  pianto, 
Ch'  amor  sul  maraio  di  sua  man  poi  scrisse. 


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114  II  caos  —  SiiLVA  seconda 


LIMERNO. 

\9xiBXìào  'ì  tempo,  madonna,  a  noi  sì  parco, 
Dramma  di  se  concedemi  tal'  ora 
Di  vosco  ragionar,  i  grido  allora  : 
Dolci  fiamme  d'  amore,  dolce  1'  arco. 

Ma  quando  invidia  le  più  fiate  il  varco 

Mi  serra  a  i  lumi,  ove  convien  ch'io  mora, 
Vo  richiamando  mille  volte  Y  ora, 
Non  è  amarezza  a  l'amoroso  incarco. 

Qui  poi  la  fede,  che  di  par  col  sòie 

Certar  solca,  s'  annebbia  di  sospetto, 
Fulgura  il  sdegno  e  zelosia  tempesta. 

Però  scusar  si  deve,  se  d'  un  petto 

Scacciato  '1  cor  dal  vermo,  che  V  infesta, 
Non  già  d' invidia,  ma  d'  amor  si  dole. 


LIMERNO. 


I 


nvido  ciel  che  tante  stelle  e  tante 

In  grembo  hai  sempre  e  di  lor  vista  godi, 
A  che  per  cento  vie,  per  cento  modi, 
La  mia  levar  contendi  a  me  davante? 

N'  hai  mille  e  mille  di  splendor  prestante, 
E  pien  d' invidia  pur  t'  affanni  e  rodi 
Per  cui,  sol  per  colei,  che  acciò  mie  lodi 
Sian  le  più  belle,  starmi  degna  innante. 

Bastar  ti  deve  il  tuo,  lascia  '1  sol  mio, 

Ch'  en  fiamme  in  spirti  e  sopra  se  l' innalzi, 
Come  1  tuo  nutre  i  corpi  1'  erbe  i  fonti. 

Ma  '1  mio  perch'  è  più  bello,  in  tal  desio 
Rancor  ti  sferza,  che  ne  trai  de'  calzi, 
E    n  su  le  cime  tue  voi  eh'  egli  monti. 

LAMENTO    DI    BELLEZZA. 

T  '' 

X  o  tratto  a  Y  ombra  d'  un  gentil  bcjiechetto 
V  idi,  giacendo  su  la  piaggia  erbosa,  \ 

\ 


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Il  caos  —  Selva  seconda  115 


S  tarsi  donna  solinga  e  penserosa, 
T  urbata  in  vista  col  mento  sul  petto. 
I  n  tal  vaghezza  stava,  eh'  ivi  intonio 
N  è  f u  pianta,  né  augel,  che  non  movesse 
A  lei  mirai-,  e  seco  ne  piangesse. 


In  queste  bande  su  dal  primo  cielo 

V  ols'  egli  in  scherno  mio,  eh'  un  alma  stella 
S  cendesce  umile,  e  assai  di  me  più  bella. 

T  ant'  ella  è  più  gentil  quant'  ha  più  '1  velo 
I  n  cerco  de'  ligustri  e  rose  adorno. 
N* acque  non  per  mostrar  qUant'  è  bellezza, 
A  nzi,  benché  sia  bella,  lei  disprezza. 

I  o  son,  perche  ti  miro  star  sospeso, 

V  ana  beltà,  eh'  orno  di  gigli  e  rose 
S  ol  delle  donne  i  volti,  ma  ritrose 
T  utte  le  faccio  e  di  cuore  scortese 

I  n  lor  amanti,  cui  di  giorno  in  giorno 

N  udrendo  van  di  speme,  e  mai  non  giunge 

A  lor  il  patto,  ma  si  fa  più  lunge. 

(1)  Ambedue  le  edizioni  hanno  alteragia,  che  io  ho  creduto  di  mu- 
tare in  alterigia. 


I 


I  mi  le  appresso  e  per  veder  m'  abbasso.  i 

V  idila  troppo,  ahimè  !  che  alzando  il  viso  * 
S  i  mi  scoperse  in  lei  tal  paradiso, 
T  al  dico  che  mi  fece  d'  uom  un  sasso. 
I  n  me  si  volse  e  disse  :  fa  ritorno, 
N  e  star  qui  meco  ove  star  sóla  deggio 
A  pianger  quel  che  tarda  in  me  con-eggio. 

I  1  dolo  amar  che  più  sempre  si  acerba 

V  ien  d'  alterigia  (1)  molta  e  troppo  orgoglio, 
S  on  bella  come  vedi,  e  mi  raccoglie 
T  utta  sovente  in  donna,  ma  soperba 
I  nalzo  lei  così,  che  'n  questo  scorno 
N  e  son  rimasta,  onde  1'  alta  boutade 
A  ma  siippor  T  orgoglio  ad  umiltade. 


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Ji  116  II  caos  —  Sklva  seconda 


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i 


;  In  questo  V  alto  padre  più  addirato 

f  V  er  me,  eh'  abbello  i  visi  e  i  cuor  ìnaspro, 

;  S  culpendo  lor  di  porfido  e  diaspro 

I  T  olse  '1  bel  spirto  e  Y  ebbe  incatenato 

f.,^  I  n  quelle  belle  membra  ove  soggiorno. 

%'  N  on  fu  soperbia  mai,  non  schivo  sdegno, 

t'  A  nzi  è  d'  alte  virtudi  un  vaso  pregno. 


S<    *  Il  nome  suo  dal  ciel  in  terra  stette, 

f^  V  olendolo  saper  fa  che  misure 

i.  S  cendendo  d'  alto  le  maggior  figure  : 

[i  T  re  volte  e  quattro  il  trovarai  di  sette 

^^.  In  sette  versi.  Allor  indi  mi  torno, 

Hi  N  e  posso  più  di  lei  dolermi  fina 

^  A  tanto  che  sei  nosco,  alma  divina. 


CENTRO  DI  QUESTO  CAOS  DETTO  LABEBINTO. 

CLIO. 


0. 


'ual  gode  in  carne,  perchè  in  carne  viva, 
E  'n  terra  stando,  Y  animo  da  terra  i 

Non  leva  al  ciel,  onde  si  parte,  unquanco,  ì 

Colui  d' umana  spezie,  in  cui  si  serra  \ 

L'  alta  ragione,  ad  or  ad  or  sì  priva, 
SI  come  di  candela  il  lume  stanco 
Vedesi  giunto  al  verde  venir  manco. 
Di  che  già  spento  non  che  morto  il  sole 
De  la  giustizia,  resta  cieco  e  palpa 
La  circonfusa  nebbia,  e  come  talpa 
Sotterra  errando  uscir  ne  sa  ne  volé. 
Tanto  che  '1  miser  sole 
Un  nuvol  d' ignoranzia  farsi  tale. 
Che  mai  dal  ciel  non  sa  trovar  le  scale. 
Se  mi  deggia  pensar  o  in  terra  dentro, 

0  sotto  M  ciel  fra  terra  e  Y  aere  puro. 
Esser  in  pene  stabil  altro  inferno 
D'  un  core  ne  peccati  antico  e  duro. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  117 


Non  80,  sassel  pur  Dio  ;  mi  par  un  centro, 

L'  abito  nel  mal  far,  di  foco  eterno. 

Quando  che  ne  d'  estade  ne  di  verno 

Forza  veruna  o  sia  losinga  d'  uomo, 

Questo  sperar  dal  cielo  sol  si  debbe. 

Quel  infelice  misero  potrebbe 

Indi  ritrarlo  più  di  bestia  indomo. 

Però  tal  vizio  nomo 

L'  orribil  ombre  del  Caos  deforme, 

Cui  sempre  a  morte  in  grembo  un'  alma  dorme. 

TRIPERUNO. 


O  tavami  basso  nel  cespuglio  e  queto, 

V  ago  d'  udire  più  che  mai  Limerno, 
E  già  m'  era  disposto  per  adrieto 

V  olgermi  di  Merlin  for  del  governo. 
E  alfin  sbuccato  da  la  macchia,  lieto  . 
R  lochiamo  lui.  Deh  !  svellemi  d' inferno, 
A  lui  dico,  che  gik  callando  il  sole 
T  olsesi  dal  cantar  dolci  parole. 

0  vago,  a  lui  diceva,  giovenetto, 

B  en  mi  terrei  de  gli  altri  più  beato, 

S'  io  fusse  tale,  che  tu  avessi  grato 

T  enermi,  ecco  son  presto,  a  te  soggetto. 

R  estossi  allora  quello  e  col  bel  viso 

I  1  novo  Ciparisso,  over  Narciso, 

C  hi  chiama  ?  disse,  e  vistomi  soletto,  t 

T  ennesi  a  lunge  il  naso  fra  le  dita, 

O  tu  mi  sai,  dicea,  di  lorda  vita. 
C  acciati  presto  in  quel  fragrante  rivo, 

L  avandoti  lo  puzzo  sin  eh'  io  torni. 

A  Uor  si  parte  ritrosetto  e  schivo, 

V  edendo  una  carogna  in  luoghi  adorni. 
S  pogliomi  nudo  in  quel  fonte  lascÌA'o 
T  emprato  d'  acque  nanfe,  che  da  forni 
R  igando  viene  giù  d'  un  monticello, 
O  ve  Ciprigna  gode  Adonio  bello. 

C  elavasi,  ne  Y  alpe  giunto,  il  sole, 


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Il  caos  —  Selva  seconda 


E  eco,  fra  molte  ninfe  vaghe  e  snelle, 
L  imerno  torna  solacciando,  e  quelle 
L  ui  van  ferendo  a  botte  de  viole. 
I  o,  eh'  era  nudo,  ambe  le  mani  addano 
S  II  quelle  parti  ossene,  che  ciascuno 
Q  uantunque  sia  picino  coprir  sole. 

V  edrai,  parla  Limerno,  quant'  è  meglio 

E  sser  di  miei,  che  di  quel  sporco  veglio. 
R  ecativi  'ì  in  braccio,  o  belle  ninfe, 
E  d  a  la  Dea  portandolo  direte  : 
M  adonna,  dentro  le  muschiate  linfe 

0  fferto  s'  è  costui  nel  nostro  rete, 
T  egnamolo  qui  nasco  se  vi  pare. 

1  donio  testimon,  quando  che  v'  abbia 
S  empre  a  lodar  ne  V  amorosa  rabbia. 

0,  dissi  allor,  o  di  vaghezza  fiore, 

C  hi  mi  porge  la  stola  ond'  io  mi  copra  ? 
<  /  uor  mio,  rispose,  quivi  non  s'  addopi'a 

V  estir  alcuno  dove  regna  amore, 

L  o  qual  ignudo  va  co  suoi  seguaci  ;    . 
T  aci  Ik  dunque,  pazzarello,  taci. 
A  llor  fui  riconduttoa  grand' onore, 
T  ra  gioveni  leggiadri  e  damigelle 
A  vanti  una  pih  bella  delle  belle. 

V  enere  fu  costei,  la  qual  nel  seggio 
R  egina  di  Matotta  il  settro  tiene. 
B  enedetto  sia  '1  cuore  di  chi  viene, 
I  ncomenciossi  allor  cantar  intorno, 
S  otto  Amatonta  al  dolce  lei  soggiorno. 

L  auti,  cetre,  lire,  e  organetti 

I  van  toccando  parte,  parte  al  sono. 
T  emean  le  voci  giunte,  ahi  !  quanto  vaghe. 
I  n  quel  medesmo  tempo,  a  vinti  a  trenta, 
B  asciandosi  V  un  V  altro  insieme  sti-etti 

V  anno  danzando  intorno,  e  questi  sono 
S  inceri  giovenetti,  e  donne  maghe. 

K  rano  mille  fiamme  intorno  accese 
S  otto  gli  aurati  travi  de  la  sala, 
S  tanno  da  parte  alquanti,  e  fan  un  ala 
E  qua  e  là  mirando  le  contese. 


L 


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Il  caos  —  Selva  seconda  119 


P  endono  da  pareti  alte  cortine 

R  icchissime  di  seta,  argento,  e  oro, 
O  ro,  sopr'  oro,  dico,  spesso  e  rizzo 
C  on  mille  gioppi,  zifFare  e  bescliizzo, 

V  asi  di  pietre  di  gran  pregio  e  fine, 

L  ungo  a  le  mense  fanno  un  bel  tesoro. 
A  eque  rosate,  nanfe  e  altri  odori 

T  endon  spruzzare  i  pargoletti  amori. 
N  ascosi  molti  a  le  cortine  drieto 

V  anno  non  so  che  far,  e  escon  dopo    * 
N  el  volto  fatti  in  guisa  di  piropo 

C  he  furon  d'  alabastro  per  adrieto. 


amore  di  tbiperuno  e  gal  anta. 


I 


o  dunque  nudo  fra  cotanti  nudi 
N  on  più  arrossisco,  non  più  mi  vergogno, 
F  atto  di  lor  famiglia,  ove  m'  agogno 
L  assivamente  in  quei  salaci  studi. 
A  lato  la  regina  sta  Limerilo, 
T  enendole  la  bocca  ne  V  orecchia, 

0  nd'  io  ne  fui  chiamato  possia  al  trono. 
I  n  terra  umilmente  i  m'  abbandono, 

N  anti  eh'  al  primo  grado  vi  montassi, 
C  he  d'  altro  che  de'  marmi,  petre  e  sassi 
E  rano,  ma  sol  oro  e  gemme  sono, 
D  ritto  poi  snllevato  già  m'  avento 

1  n  fretta  nauti  a  Y  aha  imperatrice, 

T  remando  per  viltà,  qual  foglia  al  vento. 
I  ncomenciò  V  altiera  :  o  Triperuno, 

V  asallo  mio,  de  gli  altri  non  men  cai-o, 
S  appia  che  'l  tuo  Limerno  saggio  e  raro, 
T*  ha  impetrato  da  me  quel  che  nessuno 
I  n  questa  corte  mai  gioir  non  puote. 

N  ove  anni  e  sei  non  passa  una  fanciulla 
A  te  la  dono  e  facciovi  la  dote. 
C  ostei,  pronta  vivace  accorta  e  bella, 

V  oglio  eh'  ami,  desideri  prima  e  ardi, 

C  he  piagna  e  canti,  assorto  ne  soi  guardi, 


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120  II  caos  —  Selva  seconda 


V  ersi  pregni  d'  amor  e  sue  quadrella. 
L  imerno  tìa  tuo  maestro  e  fida  scorta, 
L  imerno  sa  quel  si  ricerca  amando. 
Oh  dolce  sorte  a  chi  entra  cotal  porta! 

A  firettati  Lagnilla,  e  qui  Galanta 

T  ien  modo  di  condur  fm-tivamentc, 

Q  uando  eh'  ella  non  escie  mai  di  ciambra. 

V  enne  la  ninfa  chiesta  finalmente, 
E  tutto  di  rossore  il  viso  ammanta. 

G  alanta  mia,  dicea  l' imperatrice, 

A  Iza  la  fronte  e  mira  il  novo  amante. 

L  evo  la  vista  dunque,  ove  si  elice 

E  eco  una  fiamma,  ed  ove  un  cieco  infante 

R  accolto  r  arco  e  la  saetta  altrice 

A  hi  I  di  quanti  martìri  lo  diamante 

T  rito  mi  ruppe  al  petto  e  quindi  svelse 

I  1  cor  già  fatto  de'  sospiri  al  vento 

S  tridente  face  e  d'  acque  un  fiume  lento. 

0  quante,  da  queir  ora,  incomenciai'o 

P  ene,  tormenti,  affanni,  sdegni,  e  ire 
T  ravagli,  doglie,  angoscie,  e  zelosie  ! 
A  rsi,  alsi  di  ghiaccio  e  fiamme  dh'e, 
T  al  che  '1  mio  dolce  alfln  divenne  amaro. 

1  mperò  eh'  una  Laura  sozza,  e  lorda 

N  efanda,  incanfcitrice,  invidiosa 
E  ra  del  nostro  amor  la  lima  sorda. 
S  orda  lima  costei  fu  senza  posa 
S  enza  quiete  mai  del  dolce  nodo, 
E  bra  sol  di  spuntar  col  chiodo  il  chiodo. 
T  ancella  fece,  ch'io  nel  fin  m'accorsi 

0  mbrosa  esser  cotesta  ria  cavalla. 
G  alanta  ne  ridea,  donde  più  acerba 

1  niqua  più  ne  venne  ai  duri  morsi, 

S  ì  eh'  io  le  scrissi  questo  in  una  querza. 

TKIPERUNO. 


) legnati  in  polve  fulminando,  Giove 
0  tu,  che  sozza  tanto  lorda  e  vieta 


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Il  caos  —  Selva  seconda  121 


Lo  nome  hai  di  colei,  che  '1  gran  pianeta, 
Mosse  da  prima  ad  alte  imprese  e  nove. 

Fogo  dal  ciel  giamai  non  casca,  dove 
Natura  strinse  Y  onorata  meta 
Del  sempre  verde  lauro,  che  non  vieta 
Ulla  stagion  far  le  sue  antiche  prove. 

Ma  Dio  in  tal  legge  in  te  servar  non  deve  ; 
C  hai  sol  il  nome  e  non  di  Laura  i  gesti, 
Sei  di  carbone,  e  credi  esser  di  neve. 

Pur  meglio,  acciò  '1  bel  lauro  non  s^  incesti. 
Quel  U,  che  '1  terzo  seggio  vi  riceve, 
Tolgasi  1  quarto  acciò  che  LiWa  resti. 


DIALOGO    SECONDO. 

LIMERNO,  TRIPERUNO  E  FULICA. 
LIMERNO. 


I 


canto  sotto  V  ombra  del  bel  lauro 
Che  pose  il  gran  Petrarca  in  tanta  altura. 
Lo  qual,  mercè  d'  amore,  mentre  dura 
Il  ciel  terrk  la  chiave  del  tesauro. 

Nel  mese  quando  '1  sole  si  alza  in  tauro, 
Ed  empie  il  monte  e  piano  di  verdura, 
Nacque  una  bella  e  saggia  creatura, 
Che  riconduce  a  noi  1'  età  del  auro. 

Cantar  vorrei  sue  lodi,  o  fresche  linfe, 
'Linfe  fresche  di  Gira  or  dati  bere 
A  chi  dicer  d'  un  Febo  novo  brama. 

Girolamo  (1)  sol  dico,  in  cui  non  spere 
Pi  fi  di  me  affaticar  altrui  le  ninfe, 
Che  pi  fi  di  me,  so  bene,  altrui  non  1'  ama. 


(1)  È  itìeà^o  in  maschile  il  nome,  nientre  dovrebbe  esseve  femminile, 
perchè  è  il  medesimo  dei  capiversi  della  seguente  canzone. 


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^"    HJ^ 


122  II  caos  —  Selva  seconda 


LIMERNO. 


H 


or  che  per  prova,  amor,  t'intesi  a  pieno  (1), 
I  n  fiamme  ove  già  ne  alsi  e  'n  ghiaccio  n'  arsi, 
E  eco  mi  tieni  d'  altro  dol  a  freno. 
R  egnar  di  se  niedemo,  e  suo  già  farsi 

0  chi  porrà  giamai  sotto  '1  tuo  giovo  ? 
N  iun,  o  se  pur  gli  è,  non  sa  trovarsi. 

1  o  quella  via^ quest'altra  cerco  e  provo, 
M  a  che  mi  vai  ?  tu  mi  travolvi  e  giri 

A  l'aspro  tuo  voler,  ne  schermo. i  trovo. 

D  i  luntanarmi  volsi  e  placar  Tiri 

I  ri  tant'  empie  di  te,  fier  tiranno, 

E  nulla  feci,  che  più  in  me  t'  addiri. 

D  i  magior  pene,  onde  maggior  è  '1  danno, 

A  mor  mi  sproni,  e  fai  il  tuo  costume.. 

H  aggia  chi  più  s'  allunga  più  d'  affanno. 
I  o  piansi  già  molt'  anni  sotto  '1  nume 
E  rrando  d'  una  ninfa,  onde  per  pace 
R  ecarmi,  mi  privai  del  suo  bel  lume. 

0  qual  mi  crebbe  ardente  e  cruda  face 

N  el  petto  allor,  che  gli  occhi,  anzi  due  stelle, 

1  o  non  più  vidi,  e  '1  raggio  lor  mi  sface. 
M  i  sface  il  raggio  lor,  e  pur  senz'  elle 

I  non  vivrei  giamai,  perchè  non  pirise 

M  ai  Zeusi  un  si  bel  volto  o  tagliò  (2)  Apelle. 
E  eco  donna  il  martir,  eh'  al  cor  s'  avinse       "^ 
R  itrassimi  da  voi,  ma  non  lo  volle 
C  olili,  che  'n  me  sovente  ragion  vinse. 

(1)  Per  fare  Hieronima  e  Hiei^onimi  in  latino,  lascio  la  H  in  Hor 
ed  in  Uaggia^  come  trovasi  in  ambedue  le  edizioni. 

(2)  Ambedue  le  edizioni  hanno  taglio  che  io,  e  per  dare  im  senio 
al  verso,  e  perchè  ritengo  che  così  abbia  scritto  il  Folengo  ho  mutato  in 
tagliò^  sebbene,  in  questo  caso,  non  abbia  senso  storico. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  123 


A  dunque  per  gir  lunge  non  si  lolle 
T  anta  mia  passion,  eh'  ebbi  già  inante, 
E  questo  avien,  che  '1  mal  è  in  le  medolle. 
L  untan  il  corpo  mi  portar  le  piante, 
L  untan  il  cor  non  già,  perchè  vel  diede 
I  n  su  l'aui'ata  punta  il  vosti-o  amante.   , 

D  iede  1  a  voi,  eh'  avesse  ad  esser  sede 
I  ramobile  perpetua  di  esso,  e  voi 
V  i  '1  toglieste  per  cambio  data  fede 
A  l'un  e  l'altro  sempre  esser  fra  doi. 

TRIPERUNO  E  LIMERNO. 

Trip.  1^  el  vero,  caro  mio  maestro,  non  sono  giammai 
tanto  fastidito  ed  anoiato,  che  udendo,  voi  e  X  aurea 
vostra  lira  insieme  cantare,  non  subitamente  mi  rac- 
consoli. 

LiM.  Ed  io  credevami  tanto  da  la  turba  e  volgo  entro 
questa  selva  luntanato  essere,  che  niuno,  se  non  le 
(j[uerze  e  olmi  avessero  ad  ascoltare. 

Trip.  Dogliomi  essere  uomo  di  turba  e  vulgare,  ma  la 
dolcezza  di  vostre-  muse,  ovunque  mi  volgo  sen- 
tendo, non  men  di  ferro  a  la  tenace  calamita  son 
io  da  quella  tirato  :  nulla  di  manco  se  da  me  voi 
sete  del  vostro  singular  concetto  impedito,  paren- 
dovi, ora  mi  parto  e  solo  vi  lascio. 

LiM.  Solo  non  è  chi  ama,  anzi  de'  pensieri  ne  la  molti- 
tudine sommerso  :  io  sopra  ogni  altro  veggioti  vo- 
lontieri,  Triperuno  mio.  Vero  è  che  lo  essermi  da  h\ 
consueta  nostra  compagnia  distratto  potevati  accer- 
tare che  da  me  dovevasi  far  cosa,  la  quale  fusse 
da  essere  secreta.  Io,  come  tu  sentisti,  cantai  testé 
una  canzone,  li  cui  capoversi  non  vorrei  già  eh'  uomo 
del  mondo  avesse  notato,  che  '1  gentilissimo  spirito, 
di  cui  sono  già  molto  tempo  fa  umile  servitore,  non 
men  ha  cura  de  1'  onorevole  suo  stato,  che  del  co- 
mun  obietto  di  questo  nostro  amore.  Dimmi  dunque, 
hai  tu  lo  nome  suo  compreso  ? 


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124  II  caos  —  Selva  seconda 


[ 


Trip.  Non  ;  per  il  dolce  groppo  di  mia  Galanta. 

LiM.  Non  senza  molta  cagione  ricondotto  mi  sono  a 
r  ombra  di  questo  lauro,  lo  quale  tanta  agiatamente 
diffeso  da  queste  duo  collaterali  querze,  così  da 
venti  e  procelle,  come  da  raggi  de  Y  ardentissimo 
sole,  al  sopranominato  giovene  con  le  sue  sempre 
chiome  verde  fa  di  se  gratissimo  soggiorno.  Ma 
dimmi,  sei  sai,  questi  doi  versi  latini,  li  quali  nel 
tenero  scorzo  di  esso  lauro  tu  vedi  quivi  intagliati 
essere,  chi  fu  lo  sottil  interpretatore  di  essi  ? 

Trip.  Isidoro. 

LiM.  Isidoro  Chiarino  ? 

Tkip.  Esso  fu. 

LiM.  Oh  divino  spirito  d' un  fanciullo  !  che  veramente  nel 
sino  di  Talia  succiò  le  dotte  nomme,  ne  maggior  fama 
e  onore  si  areca  lo  autore,  che  1  commentatore  loro. 

Trip.  Sono  as&ai  male  insculpiti. 

LiM.  Scriveli,  prego,  un'  aitila  volta  piti  ad  alto,  e  perchè 

lo  argomento  loro  in  quello sai  ?  Intagliali  col 

ferro  acuto. 

Trip.  Intendo. 


DE   SOMNO. 


Hi 


Jc  laceo.  Et  Repens,  Oculis  Natat  Intima  Mors,  At 
Divorum  Imperio  Est  Dulcior  Ambrosia. 


LIMERNO. 


T, 


u  quelli  hai  già  scritto  ?  Oh  quanto  bene  stanno. 
Fammi  appresso  una  piacere,  perchè  lo  ingegno  del  gio- 
vanetto piti  ogn'  ora  posciasi  addestrare,  scrivi  ancora 
un  altro  enigna  non  men  di  questo  laborioso,  lo  quale 
dopoi  la  morte  di  GiugUo  pontifice,  sotto  Leone,  fu  nel 
candidissimo  tumulo  di  Catarina  dal  suo  consorte  cru- 
delmente uccisa    sculpito,    dove    ella   così  parlando  dice; 


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1 


Il  caos  —  Selva  seconda  125 


TUMULUS    CATHARIN-ffi. 


G 


^ONfodit  SORS  ME  VSum  ROboris  ERige 

TUScha 
Sphera,  necis  causa  est  non  nisi  nulla  mese, 

TRIPERUNO. 


VJotesta  Catarina,  se  bene  mi  soviene,  fu  gentilis- 
sima e  amorosa  donna,  a  la  quale  fti  già  mandato  quel 
sonetto  con  un  paio  de  guanti  insieme,  li  capoversi  del 
quale  dicono  lo  nome  suo  : 


D' 


una  tenera,  bianca,  leggiadretta, 
I  ntegra  onesta  man  elesse  '1  cielo 
V  oi  puri  guanti,  ad  esser  dolce  velo  : 
A  ndati  a  lei,  eh'  omai  lieta  v'  aspetta. 

C  ortesamente  la  terrete  stretta, 

A  nzi  pur  calda  centra  V  empio  gelo, 
T  utto  però,  eh'  io  per  soverchio  zelo 
H  abbia  di  voi  non  a  prender  vendetta, 

A  mo  r  alta  virtù  che  'n  se  diversa 

R  egna  più  eh'  in  Aracne,  od  ella  istessa 
I  nventrice  del  ago  e  bel  trapunto. 

N  è  man  più  dotta,  né  più  dolce  e  tersa 
A  vinse  guanto  mai,  ne  chi  promessa 
Onestamente  più  sei^vasse  appunto. 


LIMERNO  E  TRIPERUNO. 


Di 


LiM.  JL/irotti  la  veritade  o  Triperuno,  questi  capoversi 
non  usati  mai  da  valentuomo  veruno,  poco  a  me 
sono  aggradevoli,  e  a  gli  altri  sodisfacevoli,  impero 
che  altro  non  vi  si  trova   se  non   durezza  di  senso, 


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126  II  caos  —  Selva  seconda 


ed  un  impazzire  di  cervello.  Ma  ragionamo  d'un' altra 
cosa  di  assai  più  importanza  di  questa.  Confessati 
meco,  e  non  vi  aver  un  minimo  risguardo.  Chi  fa 
lo  compositore  di  que  versi,  li  quali  oggi  furono  da 
tutta  la  corte  in  una  querza  letti  e  biasmati  ? 

Tkip.  Perchè,  caro  maestro  ?  sapeno  forse  con  gli  altri 
miei  ? 

LiM.  Di  che  ? 

Tri.  Di  mastro  di  scola? 

LiM.  Perchè  così  di  mastro  di  scola? 

Trip.  Li  quali,  per  la  varietà  de  stili  da  loro  addoperati 
pedantescamente,  come  voglio  dire,  scrivono  e  fanno 
un  Caos  non  men  intricato  del  mio. 

LiM.  Io  bene  di  cotesto  tuo  ravviluppato  Caos  mi  sono 
meravigliato,  lo  quale  potrebbe  a  gli  uomini  dotti 
forse  piacerci,  ma  non  lo  credo,  e  spezialmente  per 
cagione  di  quelle  postille  latine  suso  per  le  margini 
del  libro  sparse. 

Trip.  Io  per  confunderlo  più,  come  la  materia  istessa 
richied<3,  volsivi  ancora  la  prosa  latina  in  aiuto  de 
lo  argumento  porre. 

LiM.  Lasciamo  in  disparte  lo  stile  tuo,  o  sia  pedantesco 
o  triviale,  ma  peggio  è,  che  sono  quelli  versi  mor- 
daci de  la  fama  di  tale,  che  leggermente  potrebbch 
oifendere.  Tu  non  conosci  ancora,  buono  uomo,  la 
rabbia  d'  una  addirata,  e  orgogliosa  donna,  la  quale 
tengasi  de  qualcuno  oltraggiata  e  sprezzata. 

Trip.  Qual  bene  o  male  puosso  io  sperare  o  temere  da 
questa  Larva,  o  volsi  dire  Laura? 

LiM.  Voglia  pur  Iddio,  che  tu  non  ne  faccia  vemna 
isperienza. 

Trip.  In  qual  modo  un  sacco  di  carcami,  una  cloaca  di 
fango^  una  stomacosa  meretrice  del  dio  sterquilinio 
è  per  vendicarse  di  me  ? 

LiM.  Con  mille  modi  non  che  uno. 

Trip.  Come  ? 

LiM.  E  peritissima  vendicatrice. 

Trip.  Qual  si  terribile  ruffiano  d'una  trita  bagascia  pren 
deria  giamai  la  diffesa? 

LiM*    Non   vi    mancano    gli    affamati    al    mondo.  Ma  sei 


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Il  caos  —  Selva  seconda  127 


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male,  Triperuno,  su  la   via  di  conoscere,  in  cui  po- 

sciati  ella  dannegiare. 
Trip.  Avelenarmi? 
LiM.  Nò. 

Trip.  Farmi  con  ferro  uccidere  ? 
LiM.  Né  questo  ancora. 
Trip.  Tormi  la  fama? 
LiM.  Non  ha  credito. 
Trjp.  In  qual  foggia  dunque? 
LiM.  Trasformarti  in  un  asiho. 

Trip.  Che  dite  voi?  > 

LiM.  Un  asino  si  ;  tu  ti  meravigli  dunque  ? 
Trip.  Ho  ben'  io  più  volte  inteso  queste  donne  aver  po3-  ^ 

sanza,   con  non  so  che   unguenti,   voltai-  gli  uomini  ; 

in  becchi.  '  * 

LiM.  Anzi,  assai  più  becchi,    fanno    che   castroni.  Quanti  ( 

oggidì  conosco  io,  li  quali  già  per  violenzia  de  suf-  j 

fumigi  da  queste  maghe  addoperati,  furono  in  bovi,  .  J 

buffali  e  elefanti  conversi  ?  ; 

Trip.  Questo  saria  ben    lo    diavolo.  Se  questa  Laura  mi  \ 

trasfigurasse  in  un  becco.  Vorebbemi  più  oltra  bene  [ 

aalanta  ?  i 

LiM.  Più  che  mai. 

Trip.  Come  ?  io  sarei  pur  un  becco  ? 

LiM.  Ed  ella  una  capra. 

Trip.  Cambiarebbe  ancora  lei? 

Ltm.  Che  credi  tu? 

Trip.  Io  già  comincio  temere. 

LiM.  Tien  stretto. 

Trip.  Forse  che  non  sa  ella  ancora,  chi  sia  lo  autore? 

LiM.  Tu  sei  pazzo  persuadendoti  una  malefica  non  sa- 
pere quello,  che  a  tutta  la  corte  già  divolgato 
leggesi. 

Trip.  Lasso  !  eh'  io  me  ne  doglio. 

LiM.  Tu  vi  dovevi  più  per  tempo  considerare,  e  pren- 
derne da  me  consiglio. 

Trip.  Nò,  l'ho  fatto  in  mia  malora. 

LiM.  Se  tu   sapessi    la    importanza    di  questo  scrivere,  e 


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128  11  caos  —  Selva  seconda 


Io  mandar  cosi  facilmente  a  lace  le  cose  sue,  vi 
averessi  meglio  pensato,  che  pagarci  un  tesoro  di 
Tiberio,  non  mai  ne  gli  occhi  de  tanti  valentuomini 
una  mia  operetta  scoperta  si  fdsse. 

Trip.  Come  farò  io  diinqae,  misero  me  ?  eh'  io  debbia 
un  asino  diventare  ? 

LiM.  Or  va  più  animosamente,  tu  già  sei  volto  in  fuga, 
e  ninno  ti  caccia.  Non  ti  partirai  da  me  se  non 
bene  consigliato  e  consolato  ;  ma  pregoti,  Triperuno 
mio,  non  t' incresca  sotto  V  ombra  di  quel  platano 
corcati,  finché  io  faccia  la  prova  di  alquanti  versi 
con  la  cetra,  da  essere  in  questa  sera  da  me  recitati 
avanti  la  regina,  e  veramente  assai  averò  che  fare, 
se  li  quattro  sonetti  da  lei  richiesti  agradirla  po- 
tranno. 

Trip.  Questo  tal  compon-e  a  Y  altnii  petizione  difficil- 
mente può  sodisfare  a  coloro,  li  quali  non  vi  hanno 
parte  alcuna.  Ma  ditemi,  prego,  avanti  che  da  voi 
mi  parta,  lo  sogetta  de  quattro  sonetti. 

LiM.  Dirotilo  ispeditamente.  Già  la  signora  non  è  ca- 
gione propria  di  questi,  ma  eri  Giuberto  e  Focilla, 
Falcone  e  Mirtella  mi  condussero  in  una  camera 
secretamente,  ove  trovati  eh'  ebbeno  le  carte  kisorie 
de  trionfi,  quelli  a  sorte  fi-a  loro  si  divisero,  e  volto 
a  me  ciascuno  di  loro  la  sorte  propria  de  li  toccati 
trionfi  mi  espose,  pregandomi,  che  sopra  quelli  un 
sonetto  gli  componessi. 

Trip.  Assai  più  duro  soggetto  potrebbevi  sotto  la  sorte, 
che  sotto  lo  beneplacito  del  poeta  accascare, 

LlK.  E  questa  tua  ragione  qualche  bona  iscusazione  ap- 
presso gli  uomini  intelligenti  recarammi,  se  non 
cosi  facili,  come  la  natura  del  verso  ricchi  ede,  sa- 
ranno. Ora  vegnamo  dunque  .  primeramente  a  la 
ventura  overo  sorte  di  Giuberto,  dopoi  la  quale,  né 
più  né  meno,  voglioti  lo  sonetto  di  quella  recitare, 
ove  potrai  diligentemente  considerare  tutti  li  detti 
trionfi  a  ciascaduno  sonetto  singulannente  sortiti, 
essere  quattro  fiate  nominati,  si  come  con  lo  aiuto 
de  le  maggiori  figure  si  comprende: 


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Il  caos  —  Selva  skconda  12& 


Giustizia,  Angiolo,  Diavolo,  Foco,  Amore. 

V^uando  1  Foco  d' Amor,  che  m'  ai-de  ogn'  ora. 
Penso  e  ripenso  fra  me  stesso,  i  dico  : 
Angiol  di  Dio  non  è,  ma  lo  nemico. 
Che  la  Giustizia  spinse  del  ciel  fora. 

Ed  è  pur  chi  qual  Angiolo  Y  adora. 

Chiamando  le  sue  fiamme  dolce  intrico. 
Ma  nego  ciò  ;  che  di  Giustizia  amico 
Non  mai  fu,  eh'  in  Demonio  s' innamora. 

Amor  di  donna  è  ardor  d'  un  spirto  nero. 

Lo  cui  viso  se  'n  gli  occhi  un  angiol  pare. 
Non  t' ingannar,  eh'  è  fraude  e  non  Giustizia. 

Giustizia  esser  non  puote,  ove  malizia. 
Ripose  de  sue  faci  il  crudo  arciero. 
Per  cui  Satan  Angiol  di  luce  appare. 

TKIPERUNO  E  LIMERNO. 

Trip.   IVJLolto   arguto   panni    questo    primo,   ne  anco  di 

soverchio  difficile;  ma  che    egli  aggradire  debbia  la 

regina  con  l'altre  donne,  non  credo. 
LiM.  Dimmi  la  causa. 

Trip.  Lo  sobietto  non  lauda  il  femiiiile  sesso. 
LiM.  E  Giuberto  non  lo  volse  d' altra  sentenzia  di  quella, 

eh'  hai  udito.    Or  vengone  al    secondo,  nel   quale  la 

sorte  di  Focilla,  contienesi  : 


Mondo,  Stella,  Rota,  Fortezza, 
Tempkranzia,  Bagatella. 


Q 


uesta  fortuna  al  mondo  e  'n  Bagatella, 
Ch'  or  quinci  altrui  solleva,  or  quindi  abbassa. 

9 


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130  II.  CAOS  —  Sklva  skconda 


Non  è  Temperanzia  in  lei,  però  fracassa 
La  forza  di  chi  nacque  in  prava  Stella. 

Sol'  una  temperata  forte  e  bella 

Donna,  che  di  splendor  le  Stelle  passa, 

La  instabil  Rota  tien  umile  e  bassa  ; 

E  'n  Gioco  lei  di  galle  al  mondo  appella. 

Costei  temperatamente  sua  Fortezza 

Usato  ha  sempre  tal,  che  '1  mondo  e  'nsieme 
La  sorte  delle  stelle  a  scherzo  mena. 

Ben  può  fortuna  con  sua  leggerezza 

Ir  nelle  stelle  di  più  Forze  estreme, 
Chi  sa  temprarsi,  lei  col  mondo  affrena. 


TRIPERUNO   E  LIMERNO. 

Trip.  V^uesto  altro  sonetto  appresso  di  me  piti  del  primo 
lodevole  mi  pare,  cosa  che  gik  per  lo  contrario  giu- 
dicai da  prima  dover  essere,  attendendovi  quella 
sorte  del  Bagatella  non  potere  se  non  li  soi  con- 
sorti disconciare  ;  ma,  si  come  a  me  pare,  degli 
altri  assai  meglio  vi  quadra. 

LiM.  Ogni  cosa  che  ad  essere  patisce  durezza,  lo  più  de 
le  volte  eccellente  diviene,  la  onde  P^ocilla,  donna, 
come  si  vede,  prudentissima,  contristandosi  prima  di 
cotal  leggerezza  a  lei  per  ventura  sortita,  or  che 
reuscita  la  vede  in  magior  suo  onore,  giubila  e  sal- 
tella. Ma  vengo  al  oscurissimo  soggetto,  de  li  disor- 
dinati trionfi  di  Falcone,  al  quale  sopra  tutti  gli 
altri  gentile,  doveva  la  meglior  fortuna  accadere. 


Luna,  Appicato,  Papa,  Imperatore,  Papessa. 


E, 


iuropa  mia,  quando  fia  mai  che  Y  una 
Parte  di  te,  eh'  ha  il  turco  traditore 
Rifrkncati  lo  Papa,  o  hnperatore. 
Mentre  hai  le  chiavi  in  man,  per  lor  fortuna? 
Ahimè  I  la  traditrice  ed  importuna 


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Il  caos  —  Selva  seconda  131 


Ripose  in  man onore 

Di e  tien furore 

Sol  contra  il  giglio  e  non  contra  la  Luna. 

Che  se  '1 non  fusse  una 

Che  per  un  pie sospeso  tiene, 

La  Luna  in  grifo  e  V  aquila  vedrei  ; 

Ma  questi miei 

Fan  sì  che  mia  papessa  farsi  viene 

La  Luna,  e  vo  apicarmi  da  me  stessa  (1). 

TRIPERUNO  E  LIMERNO. 

Tuip.    V  oi   giocate,   maestro  mio,  sovente   al  mutolo  in 

questo  sonetto  (2). 
LiM.  Fu  sempre  lodevole. 
Trip.  Che  cosa? 

LiM.  La  verità 

Trip.  Confessare? 
LiM.  Anzi  tacere. 
Trip.  La  cagione  ? 
LiM.  Per  scampar  Y  odio. 


(1)  Nella  seconda  edizione  le  lacune  del  sonetto  sono  riempite,  percui 
si  legge  cosi  : 

Europa  mia,  quando  fia  mai  che  V  una 

Parte  di  te,  eli'  ha  il  turco  traditore 

Rifràncati  lo  Papa,  o  Imperatore, 

Mentr'  ha  le  chiavi  in  man,  per  lor  fortuna  ! 
Ahimè!  la  twiditrice  ed  importuna 

Ripese  in  man  di  donna  il  summo  onore 

Di  Piero  e  tien  T  imperiai  furore 

Sol  contra  il  figlio  e  non  contra  la  Luna. 
Che  se  '1  Papa  non  fusse  una  papessa. 

Che  per  un  piò  Marcin  spesso  tiene, 

La  Luna  in  grifTo  a  T  aquila  vedrei. 
Ma  questi  papi,  o  imperatori  miei 

Fan  sì,  che  mia  papessa  farsi  viene 

La  Luna,  e  vo  appicarmi  da  me  stessa. 

(2)  Allude  alle  lacune  del  sonetto. 


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132  II  caos  —  Silva  seconda 


Tbip.  Di  poco  momento    è    questo    odio,   se  non  vi  sus- 
seguisse la  persecuzione. 
LiM.  Però  lo  freno  fu  trovato  per  la  bocca. 
Trip.  Meglio  è  maitre  che  confessore. 
LiM.  Cotesto  è  più  che  vero.  Ma  veggiamo  finalmente  lo 
sonetto  di  Mirtella,  la  cui  sorte  fu  questa. 

Sole,  Morte,  Tempo,  Carro,  Imperatrice,  Matto. 


k^imil  pazzia  non  trovo  sotto  '1  Sole, 

Di  ch'ha  gioir  del  tempo  tempo  aspetta, 
Morte  su  '1  Carro  Imperatrice  affretta 
Mandar  in  polve  nostra  umana  prole. 

Al  Sole  in  breve  tempo  le  viole, 

Col  strame  il  vilhmel  su  '1  Carro  assetta, 
Matto  chi  teme  la  mortai  saetta, 
Ch'  anco  V  imperatrici  uccider  vole. 

Però  de'  sciocchi  avrai  su  '1  Carro  imperio 
S' induggi,  donna,  più  mentre  sei  bella, 
Che  '1  Sol  d'  ogni  bellezza  invecchia  e  more. 

Godi,  pazza,  che  a  tempi  ?  (1)  godi  '1  fiore. 
Fugge  del  Sol  il  CaiTO,  e  il  cimitero 
La  nera  Imperatrice  empir  s'  abbella. 


TRIPERUNO,  LIMERNO  E  FULICA. 


0. 


Tkip.  v^r  questo  de  gli  altri  piti  sodisfarmi  pare,  mae- 
stro mio. 

LiM.  Avrei  con  men  durezza  composto  loro,  se  la  divi- 
sione di  essi  trionfi  in  mia  balia  stata  fusse,  onde 
pregoti  non  t' incresca  udirne  un  altro  molto,  per 
quello  che  me  ne  pain,  degli  già  recitati  men  rozzo, 
e  triviale,  quando  che  la    libertade    di  esso  tutta  in 

(1)  In  ambedue  lo  edizioni  si  lojr^e:  C  idi,  pazza,  che  a  tempii 
mentre  credo  che  si  debba  invece  leggere:  Godi,  pazza^  che  attendi f 


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1 


Il  caos  —  Selva  seconda  133 


me  solo  stata  sin,  dove  li  ventiuno  trionfi,  aggion- 
gehdovi  appresso  la  fama  ed  il  matto,  si  conten- 
gono (1): 


A. 


Lmor,  sotto  '1  cui  impero  molte  imprese 
Van  senza  Tenìpo  sciolte  da  Fortuna, 
Vide  Morte  su  '1  Carro  orrenda  e  bruna 
Volger  fra  quanfci  gente  al  Mondo  prese. 

Per  qual  Giustizia,  disse,  a  te  si  rese 

Ne  Papa  mai,  ne,  s'  è,  papessa  alcuna  ? 
Rispose  :  chi  col  Sol  fece  la  Luna 
Tolse  centra  mie  Forze  lor  diffese. 

Sciocco,  qual  sei,  quel  Foco,  disse  amore, 

Ch'  or  Angiol  or  Demonio  appare,  come 
Temprar  sannosi  altrui  sotta  mia  Stella. 

Tu  Imperatrice  ai  corpi  sei,  ma  un  cuore 
Benché  sospendi,  non  uccidi,  e  un  nome 
Sol  d'  alta  Fama  tienti  un  Bagatella. 

LiM.  Ma  che  miracolo  è  questo  eh'  ora  veggio,  Tripe- 
runo  mio  ?  (2) 

Tuip.  Dove  ? 

Ltm.  Quel  matto  solenne   di  Fulica   veggio  a  noi  venire. 

Tkip.  L  dunque  passato  di  Parissa  in  Matotta? 

LiM.  Costui  veramente,  se  non  fallo,  ha  gittato  in  di- 
sparte le  sportelle  col  breviario,  e  vole  de'  nostri 
farse,  o  vecchio  forsennato  ;  che  così  inutilmente  da 
gli  soi  primi  verdi  anni  s'  ha  ricondotto  fin  a  la  im- 
possibilitade  di  poter  pifi  gioire  di  questi  nostn 
piaceri.  Oh  come  ha  lunga  barba  il  santo  CFcmita  ! 
Oh  come  va  savio  !  noverandosi  li  passi  questo  san- 
tuzzo  del  tempo  vecchio. 

Tbip.  Taceti,  per  Dio  che,  omai  troppo  vicino  potrebbevi 
sentire. 


(1)  Secondo  il  conto  tlol  Folengo  sareb))ero  ventitre  i  trìontì  usati 
a  soggetto  dei  sonetti,  ma  invoco  sono  vcntidiie. 

(2)  Credo  per  errore  tipo^rHlioo,  in  ambedue  le  edizioni  questa  di- 
manda non  ha  il  nome  deirintoilooiitore,  Limerno,  che  io  ho  creduto  bene 
di  mettere. 


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134  II  caos  —  Selva  seconda 


I 


FuL.  Dio  vi  salvi,  amici  miei. 

LiM.  E  voi,  domine  pater. 

FuL.  Di  che  cosa  ragionate  voi  ? 

LiM.  Di  amore. 

FuL.  Sta  molto  bene. 

LiM.  Ma  dite  voi,  qiial  importante  causa  vi  mena  In 
questa  regione  amorosa?  qual  convenienzia  è  di 
questi  nostri  muschi  e  ambracani  con  quelli  vostri 
rigidissimi  costumi  ? 

t'uL.  Causa  non  pur  importante  ma  importantissima  mi 
driccia  a  te,  Limerno  mio,  acciò  che  con  gli  altri 
toi  simili  omai  da  questo  mortai  sonno  vi  svegliati. 
Queste  tre  nostre  regioni  Carcssa  Slatotta  e  Perissa 
veramente  sono  uno  laberinlo  di  cento  migliara  di 
errori,  ne  mai  se  non  testé  la  ignoranzia,  la  scioc- 
chezza, la  soperstizia  di  me  e  mei  compagni  ho  co- 
nosciuto, li  quali  avevamo  la  felicitade  nostra  riposto 
nel  andar  scalci,  radersi  il  capo,  portar  cilizio,  e 
altre  cose  assai,  le  ([uali  quantunque  siano  bone, 
fanno  però  lasciar  le  meliori,  ma  non  v'  incresca 
udirmi,  che  forse  oggi  la  comune  nostra  salute  averii 
principio. 

LiM.  Vi  ascolteremo  voluntieri,  or  incomenciate. 

LA      ASINARIA, 
DIALOGO    TERZO. 

FULICA,  LIMERNO  E   TRIPERUNO. 

FuL.  Jn  poco  frutto  reuscirebbe  lo  mio  ragionamento 
assai  lungo,  se  primamente  non  mi  movessi  al  sommo 
principio  de  tutte  le  cose,  e  pregarlo,  eh'  egli  si 
degni  aprirvi  gli  occhi  e  il  core,  giìi  tanto  tempo 
fa  cieco  e  da  la  veritade  di  lungo  intervallo  dis- 
giunto : 


0 


mnipotens  pater,  a^thereo  qui  limiine  circum 
Mortale  hoc  nostrum  sepis  ubique  genus, 


L  ^  ^^^  Digitizedby  Google 


Il  caos  —  Sklva  skconda  135 


Ut  qiieat  artificio  tenebrarum  evadere  fraudes, 
Utve  queat  recti  trami tis  ire  viam, 

Excipias  animam  liane,  iisu  qiise  perdita  lungo, 
lam  petit  infernas  non  reditura  sedes. 

LiM.  Ah  !  ah  !  ah  !  ridi  meco  Triperuno  mio,  vedi  questo 
insensato  come  ha  pregato  non  so  che  suo  dio  per 
me,  come  se  altro  Iddio  fusse  più  di  Cupidine  da 
esser  tenuto  e  pregato. 

Trip.  Ascoltiamolo,  caro  maestro,  che  egli  già  si  leva  da 
la  orazione. 

FuL.  Ritrovandomi  eri,  per  aventura,  non  molto  luntano 
da  la  spelonca  mia,  col  mio  fideHssimo  Liberato,  da 
me  molto  amato  e  auto  caro,  avenne  che  vedendomi 
egli  tutto  nel  viso  maninconioso,  di  me  tenero  e 
pietoso  divenuto,  si  come  colui,  che  di  benigno  in- 
gegno era,  e  non  poco  mi  amava,  umilmente  mi 
domandò  la  cagione,  perchè  sì  tristo  io  fossi  e  pen- 
seroso,  e  quasi  tutto  in  uno  freddo  ed  insensibile 
sasso  tramutato  ed  appresso  tanto  mi  pregò,  che 
insieme  con  esso  lui  in  sin  ad  un  boschetto,  lo  quale 
assai  vicino  era  alla  grotta  mia,  ne  andai.  Cami- 
nando  dunque  noi  con  lenti  e  tardi  passi  verso  il 
delettevole  boschetto,  deh  !  dissi  allora,  caro  mio 
Liberato,  gìh  fussi  io  morto  in  culla,  che  poi  eh'  io 
mi  sono  dato  agli  vani  studi  de  la  naturale  filosofìa, 
a  cercare  di  conoscere  le  proprietadi  de  le  cose  a 
voi  occulte  e  impenetrabili,  non  ebbi  mai  V  animo 
mio  tranquillo  ne  quieto,  ed  ora  piti  che  mai  V  ho 
travagliato,  e  de  vari  diversi  pensieri  tutto  ripieno 
e  distratto.  Io  non  veggio  ornai  quello,  che  per  me 
se  debba  addoperare  o  credere,  perchè  se  veraci 
sono  gli  evangelici  dottori,  e  se  parimente  li  sottili 
e  tenebricosi  maestri  in  teologia  e  nostri  sofisti 
dicono  il  vero,  se  li  pontificali  decreti,  overo  umane 
leggi,  che  volianìo  dire,  ligano  o  ligar  possiano  le 
nostre  coscienze,  ed  oltra  di  questo  se  alcuni  altri 
dottori  moderni  non  sono  uè  capitali  nemici  de  la 
vera  fede,  ne  bugiardi,  uìa  hanno  la  verità  ritrovata, 
a  cui  crederò   io  ?    a    cui    prestarò   fede  ?  Nel  vero, 


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136  II  caos  —  Selva  seconda 


io  non  comprendo  come  tutti  non  possine  errare,  sì 
come  coloro,  che  omini  sono,  ne  mi  può  entrare 
nel  capo  come  a  tutti  egualmente  noi  debbiamo  o 
possiamo  credere.  O  miseri  cnstiani  !  ov'  è  fnglta  la 
ferma  fede  e  piena  di  credenza  de  li  venerabili  pa- 
triarchi, de  gli  santi  profeti,  de  poveri  apostoli,  e 
de  tutti  e  nostri  maggiori  ?  Ohimè  !  donde  sono 
tante  e  si  diverse  openioni  ?  Donde  sì  contrarie 
sette  e  sì  ripugnanti  ?  onde  tante  vane  questioni  ? 
onde  tante  liti,  e  empie  contenzioni  ?  Se  ima  è  la 
fede,  e  uno  battesmo,  poscia  che  è  uno  sol  Dio,  e 
un  signore  e  fattore  di  tutte  le  cose  così  invisibili 
e  incorporee  e  eterne,  come  ancora  de  le  visibili  e 
corporee,  e  mortali,  perchè  dunque  siete  voi  tra  voi 
tutti  divisi  ?  —  Non  così  tosto  quelle  poche  parole 
ebbe  detto,  una  asinina  voce  subitamente  rompendo 
lo  aere,  con  soi  pietosi  accenti  percosse  le  nostre 
orecchie. 

LiM.  Ditemi  la  verità,  Fulica. 

FuL.  Io  son  presto. 

LiM.  Donde  veniti  ? 

FuL.  Da  Perissa  ;  per  qual  cagione  questo  mi  domandi? 

LiM.  Le  parole  vostre  mi  sapiono  di  Carossa  :  balda- 
mente che  Merlino  vi  ha  retenuto  ne  laCatinasua: 
non  gli  è  mancato  una  di*amma,  che  questo  asino 
da  la  bocca  vostra  non  abbia  parlato. 

FuL.  Anzi  così  chiaramente  con  queste  mie  orecchie  io 
r  ho  sentito  ragionare,  come  ora  facemo  noi. 

LiM.  Con  diavolo  !  (1)  clr  un  asino  ha  parlato. 

Trip.  Lasciamolo  finire,  caro  maestro  ! 

LiM.  Seguita  a  sua  posta. 

FuL.  "^  Confortiitivi,  disse  quella  voce,  o  boni  uomini,  e 
non  abbiate  paura,  ma  siate  di  forte  animo  „.  Per  la 
qual  cosa  noi  tutti  sbigottiti  datorno  volti  guarda- 
vamo, se  alcuno  vi  fusse,  che  noi  senza  esserne 
adveduti  ascosamente  ascoltasse.  Ma  nessuno  veden- 
dovi,   se    no    questo   asino,    che    vecchissimo   essere 


(1)  Nella  prima  e  .^ieeonda  eilizoiìo  si  \cggo:  Con  diavolo,  ma  io  credo 
che  sia  errato,  e  che  vada:  Che  diavolo! 


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Il  caos  —  Selva  seconda  137  ^- 


il 


pareva   e    molto    attempato,    il    quale    quivi  nel  bo-  9, 

schetto  pasceva,    essendo    noi    già    alfine    pervenuti  / 

del  nostro  camino,  vie  pia  che  innanzi  la  pietosa  e  /; 

lamentevole  voce  udendo,  temuto   non  avevamo,  in-  ■ 

cominciammo  a  stordire  e  forte  temere,  e  varie  cose  > 

fra  noi  stessi  a  rivolgere.  \ 

La  onde   questo   asino  alzata  un  poco  la  testa,  i^ 

quasi  sol-ridendo  un'  altra  volta  racconfortandosi  disse  :  > 

"   Cacciati  da  voi  ogni  gelata  paura.  Io  sono  a  voi 
da  Dio  mandato  a  mostrarvi  la  cristiana  e  vera  fede,  J 

e  sciolvervi  ogni  dubbio   e  ogni   vostra  questione  a  l 

finire  e  terminare  „.  ? 

Le  quali  parole  udendo  noi,  quale  e  quanto  fusse  | 

lo  stordimento,  voi    da   voi    stessi   puotete  pensare  : 
dico  che  tutti  li  capelli   se   ne    arricciarono,  e  quasi 
perdute  tutte  le    sentimenta    più    morti    che  vivi  in 
teiTa  cademmo.   Ma    ritornate   poscia   in  noi  le  per- 
dute forze  e   il   naturai    vigore,    e    rassicuratene  al-  » 
quanto,  lo  cominciamo  a  scongiurare  e  a  comandare                                   \ 
da  parte  de  Dio,  che  se  ciò  inganno   fusse  del  dia- 
volo, tosto  indi  si  dipartisse.  Ma  egli  che  veramente 
da  Dio  era,   tutto    immobil    si    stette,    e   per  levarci 
ogni  sospetto,  e  ogni  dubbiosa  mescredenza,  che  nel                                   : 
animo  nostro  nasciuta  fusse,  o  nascerci  potesse,  con 
voce  assai  umana  e  umile  rispose  così.   "  Quanto  sia, 
figliuoli  mei,  da  fuggire  e  biasmare  V  essere  sciocco 
e  imprudente,  e    troppo   agevolmente    e    di  leggiero 
dare  orecchie,  e  aver  fede  a  visioni  e  parohi,  quan- 
tunque e  buone  e   veracissime  quelle   ne  paiano,  io  ; 
non  potrei   giamai    con   parole    spiegare,   ne  con  la 
penna  scrivere.  Ma  colui,   il  quale   vorrà   più  sottil- 
mente co  l'acume  de  lo  intelletto  considerare  la  ca- 
gione de  tutte  r  umane  miserie,  nò  potrà  certamente 
ritrovar  alcuna  altra,  che  la  sciocchezza,  e  la  subita 
e  empia  credenza    bevuta  dalli   nostri  primi  parenti 
al  velenato   e    mendacissimo    serpente,    onde  Cristo, 
che  troppo  bene  conosceva    il    malvagio  ingegno  di 
questo  fallace  nemico,    state,    disse    a  gli  ai)ostoli,  a 
suoi  cari  discepoli,  saggi  ed  adveduti    a   guisa  delli 
serpenti  e  de  gli  aspidi  sordi,  i  quali  come  è  sqritto 


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138  II  caos  —  Selva  seconda 


nel  salmo,  si  ritiirano  gli  orecchi,  acciò  che  non  sen- 
tano la  voce  ne  li  versi  dell'  incantatore.  Perchè  io 
reputo  gran  senno  a  sapersi  guardare,  e  defendere, 
da  li  aguatti  e  da  gì'  inganni  de  l' infernale  Lucifero 
primo  inventore  e  padre  della  bugia,  E  voi  bene 
in  ciò  e  saggiamente  avete  addoperato,  che  ancora 
che  per  avventura  alcuna  volta  il  credere  sciocca- 
mente non  reclii  il  creditore,  ne  lo  nietta  in  gi*ande 
miseria,  anzi  il  tragga  da  grave  noia  e  da  grandis- 
simi pericoli,  e  ripongalo  in  sicurissimo  e  '  felice 
stato,  non  è  perciò  da  commendare  molto,  dove  la 
instabile  fortuna,  e  no  Y  umano  ingegno  s' interpone. 
Ne  per  il  contrario  è  da  biasimare  e  riprendere 
colui,  lo  quale  essendogli  la  fortuna  nemica,  e  niente 
favorevole,  si  ritrova  al  fine  in  povero  e  assai  vile 
stato,  e  in  grandissima  miseria,  dove  bene  addope- 
rare  egli  si  sia  ingegnato,  ponendo  ogni  solicitudine 
ed  ogni  arte,  ed  ogni  forza  per  potere  a  buono  e 
laudevole  fine  condurre  i  fatti  suoi.  Ma  lasciamo 
ora  stare  cosi  fatti  ragionamenti,  e  si  per  non  esser 
troppo  lunghi,  ed  in  quella  cosa  massimamente,  ne 
la  quale  non  è  di  bisogno,  e  si  ancora  per  potere 
più  pienamente  ragionare  de  la  cristiana  fede,  la 
quale  assai  larga  ed  empia  matej-ia  di  sé  ne  dai*à 
da  parlare  „. 

LiM.  Non  mi  meraviglio  punto  se  nel  parlare  molto  sete 
lungo  e  fastidioso,  e  più  di  noi,  che  stiamovi  quivi 
ad  ascoltare. 

FuL.  Perchè  son'  io  cosi  lungo  e  fastidioso  ? 

LiM.  La  pienezza  di  quel  vostro  biancuzzo  volto  dicenil 
voi  essere  di  flemma  tutto  ripieno. 

Trip.  Un  flemmatico  è  dunque  molto  verboso  ? 

LiM.  Si,  secondo  li  fisici  nostri.  Ne  solamente  la  flemma 
causa  moltiloquio,  e  niigacitade,  ma  tutte  Y  altre 
operazioni  del  corpo  rende  più  tarde  e  pegre,  al 
contrario  d'  uno  che  colerico  sìa,  lo  quale  il  più  de 
le  volte  le  cose  comincia  due  fiate,  non  riescendogli 
bene  la  prima  per  Y  ingordigia  solamente  del  so- 
perchio desiderio. 

Tbip.  Tu  voi  forse  inferire,  che  egli    flenimatico  ti  neca. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  139 


LiM.  Che  voi  dir  neca  ? 

Trip.  Amacela,  uccide,  aneide. 

LiM.  Anzi  gli  sta  cotesto  vocabolo  molto  bene,  che  fer- 
mamente non  trovo  morte  a  quella  d' una  lingua, 
quale  è  (quella  d' im  Alberto  da  Carpo  di  testa  rasa. 

Tkip.  Io  molto  bene  lo  riconosco,  lo  quale  già  d' anni 
carco  ed  attempato.  Ha  fatto  la  più  bella  pazzia  che 
fusse  mai,  che  dirotti  poi,  ma  fra  V  altre  sue  vertù 
è  mordacissimo,  loquacissimo,  e  vanissimo,  ed  ap- 
presso lui  un  Sebastiano  non  men  di  lui  chiachia- 
rone  e  puzzolente  di  bocca,  lo  quale  mentendo  fassi 
fiorentino  (1). 

LiM.  Megliore  vendetta  non  si  può  fare,  che  scrivere, 
se  non  ti  lasciano  stare,  li  soi  costumi. 

Trip.  Anzi  odi  questo  mio  Tetrastico  de  la  nugacitade 
di  quello  da  non  nominare  Alberto,  fondato  sopra 
questo  verbo  latino. 


NECAT. 


N 


on  necat  uUa  magls  nos  N  ex,  non  unda  necat,  no  N 

E  t  necat  igne  modo,  necat  E  t  modo  luppiter  imbr  E. 

C  um  necor  a  lingua,  mos  C  ui  nescire  loqui,  ne        C 

A  t,  tamen  obthurat  tot  hy  A  ntia  dentibus  or  A 

T  e  necat  ore,  necat  ges  T  u,  nece  totus  abonda  T  (2) 

LIMERNO,  FULICA  E   TRIPERUNO. 

LiM.   IVJLolto  e  bello   e   artificioso,    ma,   per   quello   che 
me  ne  paia,  oscuro  e  faticoso. 

(1)  I  personaggi  che  sono  Toggetto  di  questa  sfuriata  sono  i  detrat- 
tori del  Folengo,  per  i  quali  vedi  la  nota  5  all'Orlandino,  e  quanto  dice 
Linierno.  Ad  un  altro  Alberto  da  Carpo,  in  line  del  Caos. 

Di  codesti  detrattori  parlo  nella  prefazione. 

(2)  Questi  versi  non  sono  troncati  dal  NECAT  di  mezzo,  perciò  vanno 
letti  per  disteso,  essendo  esametri;  tronca  però,  con  bizzarra  licenza  il 
necat  alla  ftn^  del  terzo  verso  terminandolo  con  NEC  e  principiando  il 
quarto  con  AT. 


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140  II  caos  —  Selva  seconda 


FuL.  Deh  !  per  lo  amore  de  la  passione  di  Cristo  non 
siate  cosi  ritrosi  a  la  salute  vostra,  lasciatimi  finire, 
non  mi  sconciate  dal  bono  e  santo  proposito,  ch'io 
sono  certo  delettarannovi  li  miei  ragionamenti. 

LiM.  Posciovi  molto  bene  ascoltai-e,  ma  non  voluntieri, 
se  non  mi  parlate  di  qualche  bella  donna. 

Trip.  Or  oltra  che  vi  porgemo  le  orecchie. 

LiM.  Assai  men  lunghe  di  quelle  del  suo  asino. 


FULICA. 


k^tupefatto  dunque  Liberato,  eh'  un  asino  cosi  qual 
uomo  saputamente  parlasse,  gridando  disse.  Oh  che 
cosa  è  questa  eh'  io  veggio  e  sento  ?  Dove  son  io  ? 
Or  dormo  io  ancora,  o  son  desto  ?  Io  per  quello 
che  me  ne  paia,  non  so  se  vedo  quello  che  vedo, 
ne  se  altresì  se  odo  quello  che  odo.  Sarei  io  mai 
un  altro  divenuto  ?  Dimmi  dunque,  messer  V  asino, 
come  può  egli  essere  che  essendo  tu  una  bestia,  la 
quale  di  grossezza  ogn'  altra,  quantunque  grossis- 
sima  ella  si  sia,  avanzi,  ora  parli,  e  ragioni  non 
altrimenti,  che  se  uno  saggio  uomo  fussi  e  molto 
adveduto  ?  Questo  è  contra  alla  tua  natura.  Ne  di 
ciò  è  meno  da  meravigliare,  che  se  il  luogo  freddo 
divenisse,  e  pih  non  rescaldasse.  E  qual  mai  fia 
colui  si  stolto  e  d' intelletto  si  scemo  e  senza  senno, 
che  raccontandogli  noi  quello,  che  ora  co  gli  occhi 
della  fronte  ne  pare  di  vedere,  non  ci  reputi  ub- 
briachi,  over  dormiglioni  ?  Perchè  voluntieri  io  sa- 
perci, se  vano  sogno  è  quello,  che  io  veggio,  o  no. 
Queste  ed  altre  simigllanti  parole  udendo  messer 
r  asino  schiopava  tutto  della  risa,  ma  aspettando 
puoi  il  fine  di  quello,  poi  eh'  egli  si  ta.cque,  così 
incominciò  : 

"  Estimava  io  assai  sofficiente  e  bastevole  testi- 
monianza avervi  potuto  fare  i  vostri  scongiuri  allora 
quando  per  essi  non  mi  mossi  io  punto,  ma  tanto 
immobile  mi  vedeste  stare.  Or  egli  è  altrimenti  adve- 
nuto  che  io  advisato  non  mi  sono,  per  la  qual  cosa 


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Il  caos  —  Sklva  seconda  141 

nel  rimanente  di  questo  giorno,  che  fia  poco,  in- 
tendo io  di  dimosti-ai-vi  con  vere  e  aperte  ragioni 
quello,  che  voi  vedete  e  udite  non  essere  né  vana 
spezie,  o  sogno,  né  favole,  né  alcuno  inganno.  E 
ciò  di  leggero  mi  potrà  venire  fatto,  dove  voi  vo- 
rete  con  intento  apimo  raccogliere  tutte  le  mie  pa- 
role. Però  quando  a  grado  vi  sia,  vi  potrete  su  la 
verde  erba  poiTC  a  sedere,  per  ascoltare  più  agiata- 
mente le  mie  ragioni,  a  le  quali  poscia  che  il  sole 
con  frettolosi  passi  incomincia  già  traboccare  da  la 
sommità  del  cielo,  tempo  mi  pare  convenevole  da 
dar  omai  principio. 

Dovete  adunque  sapere,  che  ogni  artefice,  il 
quale  secondo  il  suo  arbitrio  e  voluntà  opera,  può 
fare,  ed  altresì  non  fare  imo  medesimo  effetto  come 
e  quando  il  meglio  li  piace.  E  cotal  principio  è 
diritissimamente,  da  V  empio  Averoi,  chiamato  prin- 
cipio di  contradizione.  E  un  altro  principio  natu- 
rale, il  quale  è  determinato  ad  un  sol  fine,  e  sola- 
mente uno  medesimo  effetto  in  ogni  luogo  e  in 
ciascuno  tempo  sempre  necessaiìamente  produce,  il 
che  manifestamente  essere  veggiamo  nel  fuogo,  il 
quale  è,  come  dicono,  foi-malmente  caldo,  e  sempre 
genera  il  calore,  e  sempre  scalda,  e  non  può  altri- 
. menti  adoperare  dove  egli  si  ritrove.  Né  sono  da 
essere  ascoltati  quelli  filosofi,  li  quali  niegavano  af- 
fatto cotesto  naturale  principio,  dicendo  ogni  cosa 
essere  or  buona,  or  rea,  or  dolce,  or  amara,  or 
calda,  or  fredda,  e  brevemente  ogni  cosa  essere  tale, 
quale  a  noi  ne  paia,  e  quale  le  varie,  e  diverse 
openiòni  de  gli  uomini  essere  giudicassino.  Nel 
vero  stoltissimo  fora  colui,  che  dicesse  le  cose  gravi 
ugualmente,  e  senza  alcuna  differenza,  ma  secondo 
la  falsa  openione,  e  umano  giudicio,  or  scendere 
nel  centro,  ed  or  salire  alla  circonferenza,  conciosia- 
cosaché  qua  giù  sempre  quelle  da  loro  gravezza 
sospinte  discendano,  ma  la  su  mai  elevare  non  si 
possino,  se  no  per  violenza  e  per  altrui  forza  e 
contra  loro  natura,  ancora  che  altrimenti  estimi  la 
nostra    openione,    la  quale   mutare    non   può  le  na- 


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142 


Il  caos  —  Sklva  seconda 


ture  e  proprietati  de  le  cose,  sì  come  colei,  che 
naturalmente  seguitare  dee,  e  la  cui  verità  depende 
e  nasce  da  loro  verità,  come  apertamente  si  può 
vedere  negli  sopradetti  esempi.  Che  perchè  noi  cre- 
diamo la  grave  pietra  discendere,  non  è  perciò  la 
nostra  openione  cagione  de,  la  verità  de  lo  scen- 
dere de  la  pietra  ;  ma  si  bene  il  discendere  di  quella 
è  cagione,  perchè  vera  sia  la  nostra  openione  e 
credenza.  Ma  perchè  mi  distendo  io  in  più  parole? 
dico,  che  ogni  nostra  openione  o  conoscenza  o 
vera  o  falsa  che  ella  si  sia,  viene  dietro  a  le  cose, 
come  scrive  Aristotile  nel  libro  della  interpretazione, 
ed  ogni  cosa  procede  e  va  innanzi  a  la  nostra 
scienza,  sì  come  oggetto  e  cagion  di  quella.  Ma  il 
contrario  aviene  de  V  eterna  ed  immutabil  sapienza 
del  Padre,  la  quale  è  principio  e  cagione  de  tutte 
le  cose,  de  la  quale  ancora  ne  parlaremo  con  lo 
aiuto  di  colui,  che  ogni  cosa  col  suo  intelletto,  e 
governa,  e  regge,  e  dispone  con  la  sua  infinita  virtiu 
e  providenza.  Ma  da  ritornare  è,  perciò  che  troppo 
dilungati  siamo,  là  onde  ne  dipartinnno. 

Dissi,  elle  duo  erano  gli  piincipii,  Y  uno  libero. 
e  volontario,  l'altro  naturale,  necessario,  e  determi- 
nato. Iddio  dunque,  il  quale,  come  cantando  dice  il 
profeta,  creò  e  produsse  tutto  ciò  che  egli  volle,  e 
fece  i  cieli  e  la  terra  coir  intelletto,  non  è  da  dire. 
clie  egli  sia  alcuno  naturale  principio  o  determinato, 
ma  del  tutto  libero,  e  volontario,  anzi  essa  prima 
ed  eterna  voluntà,  e  potentissimo  arbitrio  senza  prin- 
cipio e  sopra  ogni  principio,  come  più  pienamente 
dimostraremo,  quando  ragionare  ne  converrà  della 
creazione  di  questo  mondo  sensibile  contra  a  gli 
naturali  filosofi,  e  massimamente  contra  al  princi])e 
delli  peripatetici,  e  contra  al  suo  ostinato  comnie- 
tatore,  gli  quali  vogliano  questo  mondo  sempre  es- 
sere stato  senza  mai  cominciare,  e  sempre  dovere 
durare  senza  mai  finire.  Non  è  dunque  gran  mera- 
viglia, nonché  impossibile,  purché  a  Dio  piaccia. 
che  un  asino  parli  ragioni  così  come  uomo  d'alto 
ingegno  dotato  ragionarebbe.  Or  non  può   egli  fore, 


k^ 


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Il  caos  —  Selva  seconda  143 


ciò  che  egli  vole  ?  E  forsi  egli  cosi  infermo  e  im- 
potente, che  adempire  egli  non  possa  ogni  sua  vo- 
glia, e  sodisfare  a  ogni  suo  appetito  e  desiderio  ? 
Il  che  se  fare  non  può,  ov'  è  la  sua  omnipotenza  ? 
ove  è  la  sua  infinita  virtù  ?  ove  è  la  sua  perfettis- 
sima beatitudine  e  felicità  ?  Nel  vero  io  non  so, 
come  egli  possa  cosi  agevolmente  a  uno  sasso,  non 
pur  a  uno  animale,  come  Y  asino  è,  dare  la  vita  e 
r  intelletto,  come  liberalissimamente  a  gli  uomini 
dare  gli  piace.  Ne  veggio  simigliamente  alcuna  dif- 
ferenza tra  '1  nosti-o  e  vostro  corpo,  e  perchè  piut- 
tosto il  vostro  possa  ricevere  tanta  nobile  forma, 
quanto  è  V  intelletto,  che  non  possa  ancora  il  no- 
stro. Ma  lasciamo  ora  alquanto  le  ragioni. ne'  loro 
termini  stare,  e  produciamo  in  mezzo  le  sacre  e 
veracissime  storie,  e  manifestamente  vedremo  nes- 
suna cosa  essere  a  Dio  faticosa  e  impossibile. 

Leggiamo  nel  Genesi  che  la  verga,  la  quale 
teneva  Mosè  in  mano,  d'  uno  legno  per  divina  po- 
tenza divenne  uno  serpente  e  ritornò  poi  di  ser- 
pente nella  sua  primiera  fonna.  Ecco  chiaramente 
veggiamo,  che  puote  egli  le  spezie  mutare  e  le 
forme  de  le  nature  delle  cose,  sì  come  colui  nel 
cui  arbitrio  è  dare,  e  torre  ogni  essere,  e  ogni  vita, 
e  ogni  intelletto.  Leggiamo  ancora,  che  molte  statue 
o  idoli  di  mettallo,  o  di  pietra  per  diabolica  virtfi 
parlavano,  e  rispondevano  a  coloro,  che  gli  diman- 
davano. Che  direte  voi  qui  ?  niegherete  voi  non 
potere  Iddio  operare  in  uno  asino  quello,  che  gli 
diavoli  hanno  potuto  operare  in  uno  insensibile 
marmo  o  metallo  ?  Questo  certamente  non  neghe- 
rete voi,  che  niegare  non  si  dee  il  vero,  ne  a  quello 
mai  contrastare  ma  dargli  perfetta  e  piena  fede. 
Taccio  io  Lazaro  e  molti  altri  da  Cristo  e  da  suoi 
santi  risuscitati,  taccio  altresì  molti  ciechi  allumi- 
nati, taccio  gli  attratti  dirizzati,  taccio  e'  leprosi 
mondati,  taccio  finalmente  tutti  gV  infermi  da  lunghe 
e  mortifere  infermitadi  con  la  sola  parola  curati  e 
a  perfetta  ed  intera  sanità  renduti,  i  quali  tutti 
senza  alcun  dubbio   ne   mostrano  la   divina  potenza 


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144  II  caos  —  Selva  seconda 

e  virtfi.  Ora  vengo  a  pii\  aperto  argomento  di  quella, 
e  dico  che  ninno  è,  il  quale  non  sappia,  che  l'asino, 
o  asina  che  ella  si  fusse,  di  Balaam  profeta  non  so- 
lamente parlò,  ma  profeta  ancora  divenuto  profetò, 
e  predisse  quelle  cose,  le  quali  da  Dio  gli  erano 
state  rivelate.  Che  pih  dunque  m'  affatico  di  volere 
ciò  più  apertamente  dimostrare  ?  Chiarissimo  argo- 
mento :  è  quella  cosa  essere  possibile,  la  quale  alcuna 
volta  è,  overo  fu  già  buono  tempo  passato.  Ne  mi 
fa  qui  ora  mistieri  di  produrre  V  asino  d' Apuleio, 
anzi  di  Luciano,  stimolo  de  tutti  filosofi,  e  mordi- 
tore d' ogni  laudevole  opinione,  perciò  eh'  io  non 
intendo  nò  voglio  ora  dimostrare,  come  possine  gli 
uomini  in  uno  asino  o  in  qualunque  alti'o  animale 
mutarsi,  di  che  io  non  ho  dubbio  alcuno,  e  volesse 
Iddio,  che  pochi  fussono  quelli,  li  quali  sovente  di 
uomini  divengono  crudelissime  fiere,  e  rivolgendosi 
nella  bruttura  de  tutti  e'  vizii  e  peccati,  sono  vie 
pii\  peggiori  delle  bestie,  le  quali  buone  sono,  perciò 
che  vivono  secondo  la  loro  natura,  la  quale  buona 
fu  dal  sapientissimo  e  ottimo  maestro  criata.  Ne 
altro  forsi  Pittagora,  divinissimo  mattematico,  volse 
intendere  per  lo  trasmigrare  d' uno  in  uno  altro  ani- 
male, il  che  ancor  mi  pai'e,  che  abbia  confennato 
il  principe  de  tutti  e  filosofi,  Platone  dico,  il  quale 
di  gran  lunga  avanza  e  trappassa  d' ingegno  ogni 
altro  filosofo,  che  mai  fusse,  o  sarà  nel  mondo,  to- 
gliendo dal  nuovero  quelli  solamente,  li  quah  allu- 
minati furono  dalla  vera  fede,  o  saranno,  per  opera 
del  spirito  santo,  il  quale  per  tutte  le  cose  averk 
scienza.  Io  credo  fennamente  avere  sodesfatto  se- 
condo il  mio  giudizio  a  le  vostre  questioni,  ora  in- 
tendo piti  domesticamente  con  voi  ragionai-e  e  ri- 
contarvi le  più  meravigliose  cose  del  mondo. 


LIMERNO,  FULICA  E  TRIPERUNO. 

LiM.  JL  atimi  prego,  o  padre  Stunica,  un  piacere. 
Trip.  Con  cui  parlate  maestro  ?  ove  trovasi  questo  Stunica . 


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Il  caos  —  Selva  seconda 


146 


FuL.  Volse  egli  dirmi  Fulica. 

LiM.  0  sia  Fulica  o  Stunica,  vorei  da  vostra  santitade 
una  grazia. 

FuL.  E  dna,  potendo. 

LiM.  Non  mi  vogliate  più  oltra  imbalordii^e  lo  debol  cer- 
vello con  queste  vostre  filosofie.  A  che  tanti  Fiatoni 
Ai'istotili  e  asini  ?  voi  potreste  cosi  con  le  mura 
ragionare. 

Tkip.  Anzi  vorei,  cHro  mio  maestro,  che  vi  piacesse,  di 
ascoltarlo,  ma  facciamone  qualche  poco  di  pausa. 

LiM.  Ditemi,  prego,  santo  Fulica,  foste  giamai  dì  alcuna 
bella  donna  innamorato  ? 

FuL.  Io  fui,  e  sono  innamorato  per  certo. 

LiM.  0  sia  lodato  il  Dio  d' amore,  che  più  oltra  non 
veiTÒ  necato  di  parole  al  vento  gittate.  Voglio  che  'n 
questa  mia  cetra  cantiamo  tutti  noi  tre  successiva- 
mente qualche  amoroso  canto,  come  più  al  suo  par- 
ti colar  soggetto  ciascuno  de  noi  aggradirà.  Io  dunque 
sarò,  piacendovi,  lo  primiero,  e  cantarovi  di  mia 
diva  la  suma  cortesia,  la  quale  dignossi  mandarmi 
un  biancliissimo  panno  di  lino,  lo  quale  dapoi  lungo 
sudore,  nel  danzare  preso,  mi  avesse  ad  scìugare  le 
membra. 


B 


ruggia  la  terra  il  lino  col  suo  seme, 
Disse  cantando  il  manteau  Omero, 
Perdi'  un  verso  non  gionse  a  dir  più  intiero 
Del  lin  cosa  non  è  eh'  im  cor  più  creme  ? 

Quel  lin,  che  le  man  vostre  medeme 

Dopo  il  grato  sudor,  donna,  mi  diero. 
Tessuto  r  ha,  chi  'I  nega  ?  il  crudo  arciere, 
Tanto  m' incende  Y  ossa  e  '1  cor  mi  preme. 

Vi  lo  rimando.  Ahi  !  rimandar  non  posso 

L'  ardor  però,  eh'  ogni  or  sta  'n  le  medoUe, 
Ne  umor  di  pianto  va,  che  giù  mil  lave. 

Ma  prego  amor,  sì  come  intender  volle 

Tutte  le  mie,  che  almanco  roda  un  osso 
In  voi,  0  di  mia  vita  ferma  chiave. 


IO 


1^.... 


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146  II  caos  —  Selva  seconda 


LiM.  Piacquevi  cotesto  bel  soggetto,  o  padre  Eremita? 

FuL.  Molto  aggradisce  V  umana  generazione  questa  vo- 
cale musica. 

LiM.  Or  segui  Triperuno. 

Tuip.  Dirò  io  di  quante  parole  d' un  oroglio  di  vetro, 
con  lo  quale  mediantovi  una  tritissima  rena  si  mi- 
sura d'  ora  in  ora  lo  tempo. 


X  ensarsi  non  sapea  pia  agevolmente 
I  Cosa  che  d'  uman  stato  avesse  imago 

I  D'  un  fragil  vetro  in  vista  cosi  vago, 

i  Che  libra  il  tempo  a  polve  giustamente. 

'  Vedi  le  trite  rene  come  lente 

'  Filan  e'  giorni  pe  '1  foro  d'  un  ago, 

E  fan  col  fiume  or  quello,  or  questo  lago 
'  In  doi  grembi  s'  altrui  volge  sovente. 

Ma  cotal  opra  tosto  va  in  conquasso, 
I  Se  avien,  che  fra  doi  vetri  a  la  giuntura 

Quel  debil  filo  e  cera  si  dissolve. 
0  forsennato,  chi  d'  aver  procura 

In  terra  stato,  sendo  un  vetro  al  sasso, 
Al  foco  molle  cera,  al  vento  polve, 

FuL.  Assai  più  lo  discipolo  mi  piace  che  lo  maestro,  e 
particolarmente  la  fine  di  questo  tuo  morale  sonetto, 
Triperuno  mio  dilettissimo,  ed  annunzioti,  che  in 
breve  cangiarai  vita  e  costumi  in  assai  meghore 
stato. 

Trip.  Io  non  son  tale,  che  mai  potessi  adeguare  l'alto 
ingegno  del  mio  maestro,  ma  toccavi  padre  la  volta 
vostra. 


FULICA. 


N 


acque  di  fiera  in  luogo  alpestro  ed  ermo. 
Ed  ebbe  co  le  man  il  cor  d' incude, 


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Il  caos  —  Selva  seconda  147 


Ove  di  e  notte  già  molt'anni  sude 
Far  al  inopia  il  pover  fabro  schermo. 

Qualunque  al  pio  lesù  già  stanco  infermo 

Al  onte,  a  i  scherni,  a  le  percosse  crude, 

Sofferse  in  croce  le  sue  membra  nude 

Al  segno  traer  per  dai-vi  un  chiodo  fermo. 

Quinci  ima  mano  quindi  affisse  Y  altra 
Ed  ambo  e  piedi  al  misurato  trave, 
Ne  vinse  lui  quel  mansueto  aspetto. 

ita  questo  avien,  che  'n  prava  mente  e  scaltra 
E  che  di  sangue  uman  sempre  si  lave, 
Non  cape  amor  ne  alcun  pietoso  affetto. 

LiM.  Non  altramente  sperava  io  dover  avenire  di  questo 
ipocrita  e  torto  collo,  e  degno  da  esser  nominato, 
se  lo  capo  raso  vien  bene  considerato,  cavaliere  de 
la  gatta.  Mal  abbia  chi  giamai  ti  mise  quello  bardo- 
cucuUo  al  dosso,  frate  del  diavolo. 

Trip.  Deh  !  caro  maestro,  non  vi  partite  ! 

FuL.  Lascialo  andare,  figliuolo.  Colui  che  su  nel  cielo 
regna,  solo  può  fare  di  Saolo  Paolo,  di  lupo  agnello, 
di  notte  giorno,  ma  tu  ne  verrai  meco,  e  acciò  che 
la  lunghezza  del  camino  siati  meno  a  noia,  seguirò 
de  lo  asino  la  miracolosa  dottrina. 

Trip.  Anzi  ve  ne  volea  pregare,  quando  che  molto  lo 
vostro  favoleggiare  m'  addolcisca  il  core,  avendo  voi 
parlamenti  di  vita. 


FULICA. 


v< 


oglio  che  sappiati,  diceva  quello,  che  gli  asini  e 
gli  bovi  ancora  hanno  l'ontelletto,  nonché  lo  pos- 
sono avere.  Di  che  ve  ne  può  far  chiari  Esaia 
quando  dice:  conobbe  il  bove  il  suo  possessore,  e 
l'asino  lo  presepio  del  suo  signore.  E  Davit:  non 
vogliate,  dice,  divenire  cavalli  e  muli,  e  soggiongevi 
la  ragione:  perchè  sono,  dice,  senza  senno,  e  senza 
alcuno  advedimento.  Perchè  Cristo  umile  e  mansue- 
tissimo   figliuolo   al   suo   padi-e  non    volse  montare 


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146  II  caos  —  Selva  seconda 


suopra  gli  cavalli,  né  suopra  gli  muli,  superbissimi 
animali,  e  oltre  a  modo  ostinati,  ma  sì  voluntieri  si 
degnò  ascendere  suopra  il  mansueto  asinelio  ?  O  beati 
gli  asini,  e  viepiii  eh'  ogni  altro  animale  felici  !  0 
beati  quelli,  che  asini  divengono,  e  sono  degni  di 
portare  il  re  della  gloria  in  Gienisalem  città  de  li 
angioli  e  de  tutti  i  santi,  li  quali  sempre  veggono 
il  sole  de  la  giustizia,  che  rasserena  le  nostre  menti 
piene  d' eiTori  oscuri  e  folti,  e  sempre  mirano  la 
divina  e  vera  bellezza,  la  quale  gli  fa  in  eterno 
beati  e  giulivi.  Non  posso  io  qui  tacere  la  soperbia, 
e  '1  fasto  di  coloro,  che  servi  di  Cristo,  e  suoi  disce- 

:  '   poli  si  fanno    chiamare,    e    tanto   forte,  che  siano  a 

guisa  di  quelli  servitori,  dalli  quali  è  lontano  il  loro 
signore.  Ma  se  pur  di  così  sacro  nome  si  vogliono 
gloriare,  perchè  essi  con  più  pompa,  e  con  maggiore 
fasto  cavalcano  più  ricchi  cavalli  e  pi  fi  belli  muli, 
che  Cristo  mai  non  fece  ?  E  perchè  non  cavalcano 
essi  gli  asini,  come  loro  maestro  e  signore,  come 
dicono,  gli  ha  dato  esempio  ?  Ma  in  ciò  prudente- 
mente hanno  fatto  e  fanno  ancora  cavalcando  quelli 
animali,  gli  quali  loro  più  assomigliano. 

Deh  !  guarda  bene ,  disse  allora  Liberato  a 
l'asino,  e  considera  quello,  che  tu  pai'li,  che  se  per 
mala  sciagura  mai  si  saprà,  tu  ne  sarai  molto  male 
trattato,  ed  io  ti  so  bene  accertare,  che  tutte  Tossa 
con  uno  grosso  bastone  rotte  ti  saranno  in  dosso, 
così  fatta  guisa,  che  mai  più  non  porterai  soma,  ma 
miseramente  di  questa  vita  passarai,  ne  ti  gioverà 
mercè  per  Dio  chiedere;  per  te  morta  sarà  pietà, 
né  potrai  alcuno  aiuto,  o  conforto  ritrovare.  Deh! 
_  non  sai  tu  quello  che  dice  Iddio  per  bocca  del  pro- 

-I  feta,  che  dobbiamo  lasciare  stare  i  Cristi  suoi?  perchè 

\  dùnque  tu  gli  tocchi,  perchè  gli  mordi,    perchè  non 

f  dissigli  :  lasci  stare  ? 

Rispose  r  asino  con  un  mal  vi^o  :  E  se,  se  te- 
messi io  il  bastone,  e  le  busse  più  che  Iddio  io  mi 
tacerei,  né  sarei  mai  oso  di  dire  la  verità.  Ma  per- 
ciochè  io  sono  disposto  dove  a  Dio  non  dispiaccia, 
morire,  se  mi  sia  di  bisogno,  non  ho  paura  di  con 


É 


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1 


Il  caos  —  Selva  seconda  149 


fessare,  e  dire  il  vero.  Né  perchè  io  dica  la  verità, 
si  debbono  essi  reputare  essere  offesi  da  me,  se  ve- 
ramente discepoli  sono  e  servi  o  amici  di  Cristo,  il 
quale,  come  egli  di  se  medesimo  fa  vera  testimo- 
nianza, è  essa  prima  verità  e  cagione  d'ogni  nostra 
verità.  Io  non  mordo  loro.  Io  non  gli  tocco,  né 
pungo  ;  io  lascio  stare,  anzi  riverisco  e  temo  i  veri 
cristi,  e  sacerdoti,  e  regi.  Io  favello  di  quelli,  che 
vogliono  essere  creduti  buoni  pastori,  e  vogliono 
essere  commendati  e  riveriti,  li  quali  nel  vero  sono 
naercenai'i  e  prezzolati,  che  a  prezzo  temporale  e 
vilissimo  pascono  le  pecore  di  Cristo,  e  sono  per 
adventm-a  affamati  lupi,  che  alli  buoni  e  veraci  pa- 
stori e  santi  prelati  della  Chiesa,  convenevole  cosa 
è  anzi  necessaria,  a  fargli  ogni  onore,  il  più  che 
noi  gli  possiamo.  Sì  che  giusto  sdegno  mi  sospinge 
a  biasimare  la  lorda  e  malvagia  vita  delli  mali  che- 
rici  e.  rettori  della  Chiesa.  Né  può  T  animo  mio  sof- 
ferire di  vedere  quelli  cavalcai-e  con  tanta  pompa  e 
compagnia,  quanta  mai  non  si  vede  in  Campidoglio 
ne  gli  vittoriosi  trionfi  delli  romani,  nel  tempo  che 
avevano  in  mano  il  freno,  e  '1  governo  de  tutte  le 
Provincie  e  delle  genti  barbare,  le  quali  di  dì  in  dì 
soggiogano  i  nostri  dolci  paesi,  togliendoci  oggi  una 
città  e  domani  Y  altra,  ed  or  questo  castello,  ed  or 
quell'  alti'o,  e  temo  che  in  breve  non  ci  togliano  le 
persone.  Cristo  cavalcò  una  sol  volta  sopra  T  asino, 
ma  gli  soi  disce])()li  trionfalmente  alle  più  volte  si 
fanno  portare  dove  a  pie  andai'e  dovrebbono. 

Non  hai  tu,  disse  Liberato,  di  ciò  troppo  da  ram- 
maricarti e  da  dolerti,  che  dove  una  fiata  portasti 
sopra  gli  omeri  tuoi  il  nosti'o  Signore  legerissimo  e 
soave  peso  nella  santa  città  di  lerusalem,  ora  ti 
converebbe  portare  i  suoi  vicari  e  suoi  discepoli  per 
oscuri  boschi  e  })er  le  frondute  selve,  discoiTcndo 
or  in  qua  or  in  là  alle  maggiori  fatiche  del  mondo, 
senza  che  oltre  al  convenevole  saresti  carico  d'  una 
gi'avissima  soma,  in  maniera  che  saresti  male,  perchè 
ti  dei  assai  bene  contentare  del  tuo  quieto  stato,  né 
vogli  procurare  scabbia  al  tuo  corpo,  che  santissimo 


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15G  II  caos  —  Selva  seconda 


r 


esser  veggio  ;  e  merevigliomi  io  forte  di  cosi  fatte 
parole,  quali  sono  state  le  tue,  clie  io  fermissima- 
mente creduto  avrei,  ed  ancor  credo,  che  voi  asini 
sempre  fugito  avereste  cotali  pompe  là  dove  ora  mi 

».  pare  che  procacciate  voi  d'averle.  Io  sempre  ho 
udito  dire,  che  a  gli  asini  non  dilettino  molto  Tor- 
nate e  nobili  selle,  né  gli  am*ati  freni,  nò  le  fregiate 
vestimenta,  e  quelle  che  d'  oro  sono,  o  d'  aliente  di- 
pinte. Né  vidi  io  mai  alcuno  di  voi  essere  troppo 
vago  del  sono  delle  corna  o  d'  altri  dilettevoli  istro- 
menti,  onde  sogliono  e'  greci  dire  d'  alcuno^  che  sia 
d'  alcuna  cosa  rozzo  e  grosso,  imo  cotale  proverbio, 
egli  é  a  guisa  d'  un  asino  alla  lira.  Dell'  uccellare  e 
de  andare  a  cazza  non  mi  é  ora  di  bisogno,  che  io 
ne  parli,  perciò  che  dilettare  non  vi  possono  quelle 
cose,  le  quali  contrastano  alla  nostra  natura,  la  quale, 
non  vi  diede  V  ali  a  volare,  né  veloci  piedi  e  leg- 
•   gieri  a  potere  forte  correre.  Per   le   quali  tutte  cose 

0       io  brevemejnte   conchiudo,    che    ingiustamente   voi  e 

•  .      senza  ragione  facciate  alcuna  querela,  o  romore  dello 
vostro  sbandeggiamento,  recandovi  a  vergogna  Y  es- 
sere scacciati  da  coloro,  il  cui  maestro,   se  pur  suoi 
ii  veraci  discepoli  sono,    vi    elesse    per    suo  portatore, 
quasi  come  più  vi  caglia  il  gindicio    de  gli  uomini, 

'tt      che  quello  di  Dio.    Perché  vi  dovete    voi  dare  pace 

-  di  tutto  ciò,  che  a  colui  piace,  alla  cui  direttissima 
volontà,  ed  eterna  disposizione  e  legge  immutabile 
ogni  cosa  si  crede  per  certo  essere  sogetta.  Or  du- 
bitate forse  voi  della  divina  ordinazione  ed  infali- 
bile  providenza  ?  Credete  voi  clic  alcuna  cosa  senza 
ordine  e  senza  alcun  regimento  qua  giù  sempre  er- 

,.  rando  vada  ?  Il  che  se  voi  credete,  perchè  incolpate 
voi  gli  uomini,  e  non  la  instabile  fortuna?  Non 
avete  dunque  voi  giusta  cagione  da  dolervi,  né  da 
riprendere  i  chierici,  e  prelati  della  madi-e  chiesa. 
alli  quali,  benché  di  scelerata  e  cattiva  vita  siano 
alquanti  e  avenga  che  facciano  le  sconcie  cose,  non- 
dimeno dovete  voi  fargli  ogni  onore  ed  ogni  rive- 
renza  come    a    vostri    maggiori,  e  come  a  queUi,  11 

:,.       quali  sono  da  Dio  ordinati  e  mandati    a  nostra  uti- 


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Il  caos  —  Selva  seconda  151 


litìi,  abiando  riguardo  al  divinissimo  precetto  di 
Cristo,  che  ne  comanda  e  dice  :  facete  voi  quelle 
cose  le  quali  essi  vi  dicono  e  predicano,  che  fare 
dobbiate,  ma  le  malvagie  opero  loro,  le  quali  essi 
sovente  fanno,  non  vogliate  voi  fare. 

Non  più,  rispose  V  ^sino,  non  più  parlare.  Io 
non  niego,  che  non  debbiano  essere  ascoltate  ed 
ubidite  loro  leggi  oneste  e  pie,  ne  vittupero  io  in 
tutto  loro  decreti,  e  canoni,  o  regole  del  ben  vivere. 
Non  sono  io  di  coloro,  che  forse  v'  immaginate,  ma 
di  Cristo  e  vivo,  e  morto,  a  quale  io  servo,  e  ser- 
vire voglio  nel  suo  dolce  e  grazioso  evangelio,  né 
di  servirgK  sarò  mai  sazio.  Al  quale  così  piangendo 
son  astretto  di  dire.  0  benignissimo  padre,  riguarda, 
riguarda  o  bon  pastore  con  l'occhio  de  la  pietà  le 
tue  povere  e  deboli  pecorelle,  le  quali  tra  crudelis- 
simi lupi  sono  poste  drento  a  cardi,  vepri  spine,  e 
altre  viziose  erbe  a  pascere.  Ecco,  ohimè  !  di  quelli 
uno  più  de  gli  altri  affamato  e  fiero  Liccaone  a 
a  passo,  passo,  senza  alcuno  rispiarmo  tutte  le  caccia, 
le  svena,  le  straccia,  le  divora.  Defendile  potentissimo 
signore,  defendile  da  gli  soi  crudi  artigli.  Che 


TRIPERUNO. 


E 


ra  per  seguir  anco  il  vecchio  bono, 

G  ik  su  r  entrar  d'  un  poggio,  il  qual  si  monta 

N  on  senza  gran  sudore,  quando  un  grido      ' 

A  1  tergo  viemmi  rotto  di  dolore. 

T  orsi  la  fronte,  ed  ecco  for  d'  un  bosco 

I  o  vidi  una  dongiella  scapigliata 

V  enir  fuggendo,  ed  a  chi  Y  urta  ed  auge 
S  empre  battendo  lei  con  aspra  fune. 

S  tetti  prima  qual  sasso,  ma  dapoi 

Q  uando  comprendo  il  viso  di  Galanta, 

V  olgo  le  spalle  più  d'  un  strale  in  fretta 
A  Fulica  per  trarla  for  d'  affanni. 
Rompeva  la  meschina  Y  aere  intorno 

C  on  alte  strida  e  son  di  petto  e  mani. 


.V' 


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152  11  CAOS  —  Selva  seconda 


r 


I  ntendo  V  occhio  a  chi  la  fea  gridare, 

A  hi  !  eh'  io  la  riconobbi,  ahi  !  cruda  ed  empia 

L  aura  maligna,  incantatrice,  e  maga, 

V  enefica  non  men  di  t'irce  fiera, 

P  utta  sfacciata,  vecchia,  il  cui  fetore 

V  olgea  gli  uomini  in  bestie  augelli  e  sei-pi, 
8  tringendo  ai  canni  soi  V  altrui  costumi. 

F  ulica  su  pel  monte  ansando  scampa, 

L  o  qual  non  più  vedere  i  puoti  mai. 

0  vunque  una  sen  fugge  e  V  altra  segue, 
R  atto  m'  avente  al  fondo  d' un  vallone, 
E  eco  vidi  Galanta  in  un  instante 

N  on  esser  più  Galanta,  ma  curvarsi 

T  utta  ritratta,  e  capo,  e  braccia,  e  gambe 

1  n  una  picciol  forma  di  Mustella. 
N  on  puoti  far  allora,  che  non  ratto 

V  olto  in  gran  fuga  e  lagi'imando  forte, 
S  campassi  per  nascondermi  da  Laura. 

D  i  passo  in  passo  mi  volgeva  a  drieto, 
E  rrando  e  qua  e  là  come  stordito. 
S  tettesi  la  malvaggia  su  duo  piedi 
T  utta  minace  in  vista  e  neghitosa. 
R  esto  ancor  io  nel  folto  d'  una  macchia 

V  edendo  lei  ma  non  da  lei  veduto. 
C  esso  dunque  la  vecchia  scelerata 

T  ener  più  via  d' avermi  allora  nel  griffe, 

0  nde  quindi  partita  io  mi  discopro 
R  itomando  a  veder  ov'  è  Galanta. 

K  amparsi  lungo  al  fusto  d'  un  sambuco 

E  eco  la  veggio,  o  quanto  vaga,  e  snella, 
L  eggiadra,  pronta,  sedula,  sagace, 

1  o  la  ricchiamo  come  far  solca: 

G  alanta  mia,  perchè  mi  fuggi  ingrata? 
I  o  son  il  tuo  fidele  Triperuno, 

0  ve  serpendo  vai  ?  vieni  a  me,  vieni, 
N  on  ti  levai'  da  me,  che  bona  cura 

1  o  sempre  avi-ò  di  te,  finché  col  tempo 
S  i  trovi  chi  ti  renda  al  esser  vero. 

D  issi  queste  parole  e  passo  passo 
I  m'avicino  losingando  a  lei. 


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Il  caos  —  Selva  seconda  153 


V  enne  dunqu'  ella  dolce  mormorando, 
I  ntratamì  nel  sino  ad  starvi  ad  agio. 

B  asci  soavi  quella  mi  porgeva, 

E  d  io  basciava  lei  non  men  insano, 
N  on  men  caldo  di  quel,  che  fui  davanti. 
E  ra  sul  picciol  dorso  tutta  d'  oro, 
D  i  latte  il  corpo  e  leggiadretti  piedi, 
I  ntorno  al  collo  un  circolo  di  perle 
C  into  r  adorna  e  fammi  esser  men  grave 
T  utta  la  doglia,  che  m'  assalse,  quando 
I  o  vidi  lei  cangiarsi  a  me  davante. 

L  o  giorno  mai  la  notte  mai  non  cesso 
A  ppagaiini  di  questo  sol  piacere, 

V  enni  a  Perissa  finalmente,  dove 

R  estar  non  volse  Fulica,  che  1  loco 
E  ra  d'  errori  e  soperstizia  pieno. 

S  tetti  qui  molti  giorni,  mesi  ed  anni 
I  n  una  grotta  sol  per  fiere  usata, 
B  evendo  acque  de  stagni  torbe  immonde 
I  onci,  e  palme  tessendo  e  molli  vinci. 

Non  mi  levai  dal  dosso  mai  la  gonna, 

0  nde  r  immondi  vermi  di  più  sorte 
M'  erano  sempre  intomo  vigilanti, 

E  d  un  setoso  manto  folto  e  aspro 
N  on  mai  giù  da  le  nude  carne  i  tolsi. 
V  arcar  un  uomo  in  ciel  non  io  credea, 
E  1  qual  fugisse  vivere  famato, 
N  udrirsi  d'  erbe,  more,  fi'aghe  e  giande, 
D  estarsi  a  mezzanotte,  e  macerarsi 

1  1  corpo  già  omicida  di  se  stesso. 

C  orcarsi  o  su  le  frondi,  o  in  terra  nuda, 
A  recarsi  a  gran  merto  il  girne  scalzo, 

V  ender  se  stesso  ad  altri,  non  avere 

I  1  proprio  arbitrio,  in  se,  che  Dio  concesse 

T  enacemente  al  spirto  di  ragione. 
A  1  fin,  essendo  sotto  V  altrui  voglia, 

T  olta  mi  fu  la  mia  dolce  Galanta. 
L  o  mio  solaccio,  il  mio  contento,  e  spasso, 

A  himè  !  da  me  fu  radicato  e  svelto. 


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f 

I 

[  164  Tl  caos  — .  Selva  seconda 


[  R  imasi  d'  alma  privo,  ma  nel  dolo 

'  V  ivendo  sempre  tanto  piansi  ed  arsi, 

[  A  rsi  d'  amore  piansi  di  dolore, 

I  M  orte  chiamando  ogn'  or,  che  alfin  privato 

I  Io  fui  de  gli  occhi  e  d'ogni  sentimento. 

i  L  am'a  qui  ottenne  il  seggio,  e  sol  de'  volpi, 

'  L  upi,  tigri,  pantere,  draghi  e  serpi 

'  V  euturosi  venni  empite  boschi,  e  selve, 

M  onti,  valli,  spelonche,  fiumi  e  stagni. 
r  A  ttonita  scampavaai  la  turba, 

'  P  er  le  fantasme,  sogni  e  negre  larve, 

,  ,         P  er  r  ombre  infauste  che  da  V  empia  Erinni 

E  rano  sparse  drente  al  laberinto. 
^  L  aberinto  d'  errori  colmo  e  pieno, 

L  aberinto,  che  già  di  Dio  fu  stanza» 
A  ugèllacci  notturni  d'  ogn'  intorno 
f  N  on  cessano  volar  con  alte  strida, 

'  D  el  sole  omai  non  più  v'  entran  le  fiamme, 

^  V  olti  de'  spirti  neri  sempre  in  gli  occhi 

,  N'  erano  fisi  digrignando  è  denti. 

E  la  Gàlanta  mia  fu  in  preda  d'  altri 

S  uso  al  bel  mondo  in  grembo  altrui  rimasa. 
'  S  uso  al  bel  mondo,  e  io  nel  piti  profondo 

E  ra  del  Caos,  centro  e  laberinto. 
C  olui,  che  r  ebbe  in  mano  fu  1'  egregio, 

E  gregio  mio  Grifalco,  il  qual  non  ebbe 
N  on  ha,  non  avrà  mai  di  se  più  fido. 
S  trinse  Galanta  mia  fra  Y  uscio  e  muro, 
E  Ha  morì  chiamando  Triperuno. 
M  a  '1  giovine  magnanimo  e  cortese 
V  olse  che  d'alabastro  un  fino  vaso 
S  epolcro  fusse  a  la  gentil  Mustella. 


G 


TUMULI   GATANTHIDIS   MUSTELLA. 

GRIFALCO. 

ogimur  exigaam  deflere  Galanthida,  vìrtus 
Quippe  sub  exiguo  *corpore  multa  fuit 


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Il  caos  —  Selva  seconda  155 


Hanc  neque  tum  poterai  Umen  collidere,  vixit 
Qu8e  pede  cervus,  aper  fulmine,  corde  leo. 

At  magìs  offensas  vita  est  Saturnia  priscas, 

Solvit  ubi,  invita  hac,  ventre  Galanthis  lieram. 

FULICA. 

Quse  Mustella  fili  tam.  brevis,  huc  rapuit. 

MERLINUS. 

1^  .  . 

JL  er  mutata,  fnit  Mulier  Mus  Stella,  Galantina 

Me  Mulier,  tumulum  Mus  pete,  •  Stella  polum. 
LIMERNUS. 

\^usB  Mulier  quondam  quae  nune  Mustella  fuisti 
Hic  medium  linquis  nomen  et  astra  tenes.  (1) 

PAULUS.  F. 


msus  eram,  nunc  luctus  Heri,  qui  fraude  peremptam 
Lucinse  officio  me  decorat  tumuli. 


MARCUS.   C. 

x\n  misera,  an  foelix  ?  dominum  damnem  ve,  probem  ve  ? 

Cum  dederit  mortem  qui  modo  fert  tumulum  ? 
Si  pius,  unde  mihi  mors  est?  si  non  pius,  unde 

Et  decus,  et  laudes,  et  lachrymse,  et  tumulus? 


(l)  È  un  bisticcio  sui  nome  Mustella;  vale  a  dire  il  Mus,  sorcio,  ò 
la  parte  che  resta  in  terra,  e  Stella  è  l'altra  che  sta  fra  gli  astri. 


r-- 


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156  II  caos  —  Selva  secjonda 


D 


IDEM. 


um  placeo  interij.  Occidit  dum  diligit,  ingens 
Struxit  Amor  tumulum,  sed  prius  ille  necem. 


M. 


0 


I 


IDEM. 

ole  brevi  brevis  ipsa  tegor  Mustella,  gementes 
Delitise  nuper  mine  lacrymse  domini. 

ISIDORUS.   C. 

lUNONIS     QUERELA. 

ego  quantum  egi,  extinxisse  Galanthida  dudum 
Credideram,  lethseisque  immersisse  sub  undis, 
Dum  terris  proibere  paro,  coelum  occupa t  audax 
Et  vatum  celebri  late  iam  carmino  vivet. 

IDEM. 


ndulges  lacrymis  inane  quiddam 

Deflens,  et  teneram  gemens  alumnam 

Grifalco,  at  nihil  buie  magis  salubre, 

Magis  nobile  prsestitisse  posses. 

Vivens  cognita  vix  tibi  latebat. 

Vitae  munere  functa  nunc  pereimi 

Vivet  iam  celebrata  laude,  per  te 

Haec  dum  mortem  obijt,  absoluta  morte  est. 

TRIPERUNUS  AD  DEUM.  CONF- 


>umme  opifex  rerum,  pater  instaurator  et  unus, 
Qui  Deus  existens  coelo  terraque  potenter 


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Tl  caos  —  Selva  secónda 


157 


Cuncta  regis,  certo  dum  lapsu  ssecula  torques. 
En  ego,  si  ante  tuum  debentur  vota  triljuna, 
Assistique  hominum  curse,  tiutinisque  movendse, 
Quid  facciam,  tanto  qui  absumpto  tempore  nocte, 
Produxi  vigiles  ea  per  fignienta,  volumen 
Mugarum  sedificans?  En  culpe  cognitor  omnis, 
En  qnibus  ingenium  quo  nos  decora  alta  subimus, 
Turpiter  implicui  fabellis,  quo  per  ineptos 
Consenuit  lusus  viridis  squalore  inventa. 
Pars  melior  consumpta  mei,  redituraque  nunquam 
Kapta  est,  unde  animi  ratio  me  conscia  torquet, 
He  !  heu  !  quid  voi  vi  misero  mihi  ?  sordibus  aurum 
Perditus,  et  gemnas  immissi  fecibus  indas. 


FINISCE  LA   SECONDA  SELVA 


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i 


I 


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IV. 


SELVA  TERZA 


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CAOS 

DEL 

TRIPERUNO 


SELVA  TERZA 


Unus  adest  triplici  uiilii  nomine  vultus  in  orbe. 

Tres  dixere  Cliaos,  numero  Deus  imf)ar6  gaudet. 


FR. 


GR. 


F  ortuna  con  soi  larghi  e  pronti 

R  otandosi  nel  volto  ad  altri 

A  d  altri  pur  par  sempre,  che  s'  add 

N  on  so,  Grifalco  mio,   che  me  ne 

C  ostai  veggio,  eli'  a  molti  spenna  le 

E  dal  ciel  tratti  in  terra  li  col 

S  ì  come  Borea  fa  de  le  ci 

C  he  temer  lei,  s'  un  Dio  nel  ciel  ad 

0  ver  s' in  terra  un  Mecenate  o 


G  iri 

R  ide, 

I  li. 

F  ide, 

A  le 

L  ide, 

C  ale. 

0  ro, 

N  oro? 

u 


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0. 


"r  sbuco  già  qual  Nottula  di  tomba, 
Ed  oltra  quella  spera,  onde  la  pioggia 
Descende,  e  per  augel  rado  si  poggia, 
Date  mi  son  le  penne  di  colomba. 

Tant'  alto  salirò,  che  mi  soccomba 

Chi  ha  1  giro  di  trent'  anni,  e  'n  Y  aurea  Loggia, 
Ove  'n  se  stesso  un  trino  sol  s'  appoggia, 
ria  tempo,  eh'  al  convito  suo  discomba. 

Quivi  non  sotto  enimma,  non  per  velo 

Ch'  abbia  su  gli  occhi  Mosè,  non  per  mano 
Posta  al  forame  di  Y  eburneo  ventre, 

Non  più  a  «le  spalle  nò,  ma  in  vista  piano 
L'  altissimo  vedrò  quanto  sia,  mentre 
Si  turba  entro  lo  'nferno  e  ride  in  cielo. 


MAGNANIMUS  TEMPLUM 
HOC  MUSIS  GRIFALCO  LOCAVIT. 


'^^ 


il 

i  , 


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PREFAZIONE 

DE     LA     SELVA     TERZIA 


Caos. 

Lo  animale  ragionevole,  lo  quale  per  vi- 
vere 0  soperstiziosa,  o  lascivamente,  overo 
che  per  falsa  dottrina  avezzato  e  abituato 
non  più  sente  lo  errore  suo,  ma  cieco  ed 
oblivioso  nel  grembo  de  la  regina  de'  pec- 
cati e  difetti,  che  è  la  ignoranzia,  sede  e 
dorme,  costui  non  pur  di  bestia  peggiore, 
ma  un'  ombra,  anzi  uno  niente  si  pò  chia- 
mare, come  quello  che  non  ode,  non  sente, 
non  vede,  non  tocca  più  di  se  stesso  lo  es- 
sere. Or  dunque  trovasi  egli  nel  Caos,  e  a 
lui  non  è  fatto  ancora  il  mondo,  dilchè  per 
divina  pietade  appar  egli  una  fiammella  d' in- 
telletto e  cosi  a  poco  a  poco  entra  egli  in 
cognizione  di  queste  cose  per  lui  da  Dio 
criate,   e  talmente  vi  affigge   il  core,  che 


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distinguendo  e  scegliendo  va  lo  smisurato 
beneficio  da  Dio  a  lui  dato  ;  ma  non  troppo 
egli  vien  poi  rassicurato  da  questa  nostra 
umana  e  corrotta  natura,  che  no  caschi  o 
poscia  egli  cadere  in  alterigia,  vedendosi 
essere  di  tante  belle  cose  tiranno.  Però  la 
anima,  d' ogni  macchia  purgata,  è  nello  stato, 
che  già  fu  Adam,  intendendosi  questo  allo- 
goricamente,  avanti  lo  gustato  j)omo,  la  na- 
tura gli  è  ancora  incorrotta,  non  vi  è  lo 
tempo,  non  vi  è  la  morte.  Vero  è  che  noi 
paradiso  terrestre  de  la  purgata  conscicnzia 
potrebbe  ella  facilmente  con  lo  arbore  del 
libero  arbitrio  fallire,  o  sia  nel  (ornare  a  la 
soperstiziosa  vita  lasciando  lo  Aangelo  se- 
condo Livia;  o  sia  per  lo  tribuire  a  sol 
istessi  meriti  la  acquistata  grazia,  secondo 
Corona;  o  sia  nel  voler  comprendere  e  dif- 

^  finire  la  incomprensibil  ed   infinita  potenzia 

di  Dio  dando  opera  al  studio  de  li  nostri 
moderni  teologi  infruttuosamente  per  noi  af- 

\  faticati,  secondo  Paola. 


r 


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À 


IlL  CAOS 


SELVA  TERZA 


TEIPEHUNO. 


Q 


nel  spaventevol  mar,  che  a  naviganti  ij 

Promette  Y  Epicm-o  sì  soave, 
Solcai  gran  temj^o  in  foste,  gioie  e  canti, 
Finché  la  gola,  il  sonno  e  V  ozio  m'  ave 
Travolto  in  bande,  ove  d'  acerbi  pianti 
Nel  scoglio  si  fiaccò  mia  debol  nave. 
Che  aperse  a  V  acque  il  fondo  ed  ogni  sponda, 
E  'n  preda  mi  lasciò  de  pesci  a  Y  onda. 

E  r  ignoranza  d'  ogni  ben  nemica, 

Tosto  che  'n  grembo  a  morte  andar  mi  vide  ; 

Corsevi  come  donna,  eh'  impudica 

Con  vista  t'  ama  e  col  pensier  t'  ancide  ; 

Quindi  svelto  mi  trasse,  ove  s' intrica 

Nostr  intelletto  in  quel  sogno,  eh'  asside 

Fra  le  sirene,  e  dormevi  egli  in  guisa. 

Che  sua  spezie  da  se  resta  divisa.  ♦ 

Vago  mi  parve  sì  Y  aspetto  loro, 

Che  froda  in  tal  sembianza  non  pensai  ; 
Ma  ciò  che  splende  poi  non  esser  oro 


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166  Tl  caos  —  Selva  terza 


Tardo  conobbi  e  subito  provai. 
Un  d'  angeliche  voci  eletto  coro 
Enti'ato  esser  mi  parve,  e  poi  mirai 
Cangiarsi  e'  bianchi  volti  in  sozze  larve, 
E  il  lor  concento  in  stridi  e  urli  sparve. 

Ed  una  nebbia  orribile,  che  addombra 

La  ragion,  lo  'ntelletto  e  Y  altro  lume, 
M'  avea  offoscato  sì,  eh'  inutil  ombra, 

10  mi  trovai  for  d'  ogni  uman  costume, 

E  in  stato  di  color,  cui  sempre  ingombra 
La  dolce  sete  a  Y  oblioso  fiume, 
Che  come  egli  son  vani  e  fatti  nulla 
Tal  vien,  eh'  in  ignoranzia  si  trastulla. 

D' onde  s'  ardisco  dire,  che  *  'n  niente 
M'  avea  travolto  la  regina  cieca. 
Taccia  chi  'n  Y  altrui  fama  sempre  ha  '1  dente, 
Né  dica  il  mio  cantar  favola  greca. 
Ma  Dio  com'  ora  fece  a  me,  sua  mente 
Svella  dal  stesso  nuvol,  che  Y  accieca, 
E  scotalo  dal  sonno,  ah  !  troppo  interno  ! 
Che  puoco  fummi  ad  esser  pianto  etemo. 

Però  ti  rendo  mille  grazie,  e  lodo, 

Lodar  quanto  può  mai  potestà  umana, 
Te  dolce  mio  lesù,  te  fermo  chiodo 
De  r  alta  fede,  eh'  ogni  dubbio  spiana. 
Te  dico,  che  disciolto  m'  hai  quel  nodo, 

11  qual  ci  lega  e  fanne  cosa  vana. 
Te  sommo  autor  di  tal  e  tante  cose. 
Che  'ì  suo  tesor  per  noi  la  suso  ascose. 

Né  lingua,  voci  né  'ntelletto,  sensi 

Muova  giamai  senza  '1  tuo  nome  sacro, 
Nome,  che  sempre,  o  canti,  o  scriva,  e  pensi 
Spero  pietoso,  e  temo  giusto  ed  acro, 
lesti  te  dunque  invoco  per  Y  immensi 
Chiodi  amorosi,  eh'  alto  simulacro 
T'  han  fatto  in  terra  al  popol  cristiano. 
Or  mentr'io  scrivo  scorgimi  la  mano. 


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Il  caos  —  Selva  terza  167 


Scorgi  la  man  non  più  cnida,  rapace, 

Non  piti  del  mondo  posta  in  servitute. 
La  man,  che  particella,  se  '1  ti  piace, 
Scriver  desia  de  V  alta  tua  vertute. 
La  quale  d'  ogni  senso  uman  capace 
Mi  ricondusse  al  poggio  di  salute, 
E  nel  tuo  nome  pareggiar  vorìa 
Mio  basso  stile  un  altra  fantasia. 


I 


TRIPERUNO. 

1  grave  sonno,  in  cui  m'  era  sepolto 
Quanto  di  bono  vien  dal  primo  cielo, 
Ruppemi  orrendo  grido,  qual  in  molto 
Scoppio  far  sole  il  fulgurante  celo, 
Apro  le  ciglia,  e  quando  ebbi  distolto 
Da  sensi  im  puoco  l' importuno  velo. 
Dritto  m' inalzo,  guato,  e  nulla  veggio, 
Perch'  era  il  mondo  ancora  d'  ombre  un  seggio. 

Anzi  né  ciel,  né  teiTa,  né  '1  mar  era. 
Né  averli  mai  veduto  mi  sovenne  ; 
Non  verno,  estate,  autunno,  primavera. 
Non  animai  de'  peli,  squamme  o  penne  ; 
Non  selve,  monti,  fiumi,  non  minerà 
D'  alcun  metallo,  non  veli  né  antenne. 
Mercé  eh'  era  del  Caos  in  la  massa 
D'  ogni  ombra  piena  e  d'  ogni  lume  cassa. 

Né  piti  sapea  di  me  stesso  né  manco 

Di  chi  vaneggia  in  forza  di  gran  febre  ; 

Star  o  insensibil  pietra,  o  trar  del  fianco, 

Aver  maschile,  o  sesso  muliebre  ; 

Esser,  o  verde,  o  secco,  o  negro,  o  bianco, 

Si  m'  eran  folte  intorno  le  tenebre. 

Pur  sempre  non  vi  stetti,  ma  ecco  d'  alto 

Un  sol  m'  apparve,  onde  ne  godo  e  salto. 

Perché,  sì  come  il  pullo  dentro  '1  uovo 
Bramando  indi  migrar  si  fk  fenestra 


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168  II  caos  —  Selva  terza 


Col  becco,  donde  v'  entra  il  raggio  nuovo 
E  poscia  da  le  spoglie  si  sequestra  ; 
Tal  io,  mentre  me  stesso  in  V  ombre  covo, 
Luce  spontar  mi  vidi  a  la  man  destra, 
Gh'  empì  la  notte,  onde  ratto  m'  avento 
Lk  col  desio,  che  '1  corso  far  sol  lento. 

Inusitato  e  subito  conforto 

Ardir  m'  offerse  al  cuor  e  ale  al  piede. 
Lungo  un  sentier  de  gli  altri  men  distorto 
Affretto  i  passi  ovunque  V  occliio  il  vede. 
Oh  aventurosa  fuga,  che  a  buon  porto 
Giunger  mi  fece  d'  un  tal  pregio  erede  ! 
Ben  duolmi,  che  narrarvi  ciò  volendo 
Mentre  son  carne  in  van  mie  rime  spendo. 

Di  luce  un  gioven  cinto,  anzi  un'  aurora. 

Oh'  appare  spesso  al  alma  cieca  e  frale, 
Ecco  si  mi  presenta,  e  mi  'ncolora 
Col  viso  piii  che  '1  sol  di  luce  eguale, 
Onesto  e  lieto  sguardo,  che  'n amora 
Ogni  aspro  e  rozzo  core,  onde  immortale 
So  ben  che  a  tal  beltà,  Y  avrei  pensato. 
Se  allor  io  fussi,  quel  eli'  oggi  son  stato. 

Que'  soi  begli  occhi,  eh'  abbcllar  il  bello. 
Quanto  sh  ne  risplende  e  giuso  nasce, 
Raccolsi  a  la  mia  vista,  e  fui  da  quello 
Non  men  depinto,  che  quando  rinasce 
Proserpina  in  obietto  del  fratello, 
E  de'  soi  rai,  benché  luntan,  si  pasce  ; 
Né  il  lume  pur,  ma  un  amoroso  ardore 
Sentiva  entrarmi  dolcemente  al  cuore. 

Pur  come  avenne  a  Piero,  in  sua  presenzia 
La  vista  persi,  il  senno,  e  le  ginocchia. 
Chi  sopra  uman  valor  si  fìi  violenzia 
Portar  tal  peso  vinto  s' inginocchia, 
Veggendomi  egli  a  terra  di  clemenzia 
Pingesi  '1  volto,  e  con  pianto  m'  addocclùa, 


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Il  caos  —  Selva  terza  169 


Poi,  sollevando  i  lumi  al  ciel,  tal  voce 
Muosse,  eh'  anco  m'  abbruggia  e  mai  non  cuoce. 


FIGLIO  AL  PADRE. 


0 


tu,  che  'ntendi  te,  te,  qual  son  io, 

Quant'  alto  sei,  quanf  eccellente  e  saggio. 

Lo  qual  in  nulla  cosa  mai  non  manchi, 

Sublime  sì,  che  sotto  e  sopra  quello 

Che  sei  pensar  non  puossi,  e  queat'  è  '1  mio 

Nò  mai  dal  lume  tuo  smembrato  raggio, 

Io  non  di  te,  né  tu  di  me  ti  stanchi 

Mirar  quanto  ti  sia  e  mi  sii  bello, 

Né  quel  spirito  snello 

E  fuogo,  che  fra  noi  sempre  s'  avampa, 

Ed  or  in  dolce  lampa 

Or  in  colomba  formasi,  minore 

Di  noi  giamai  procede  né  magiore. 

Padre,  figliuol,  e  V  almo  spirto  un  Dio 
Eterno  siamo  fuor  d'  ogni  vantaggio. 
Tre  siam  un,  ed  un  tre  securi  e  franchi. 
Che  1'  un  vegna  de  V  altro  mai  rubello  ; 
Non  cape  in  noi  speranza  né  desio. 
Non  spazio  tra  '1  comun  voler,  né  oltraggio. 
Io  del  tuo  lume  e  tu  del  mio  t' imbianchi  ; 
Né  del  nodo  che  tlen  Y  alto  sugello, 
Unqua  padre  mi  svello, 
Però  d'  ogni  bontà  nostra  é  la  stampa, 
Che  r  amorosa  vampa 
Del  Paracleto  imprime,  onde  '1  motore 
Del  tutto  siamo  detti,  e  creatore. 

Or  di  quel  nostro  incomprensibil  rio, 
Così  soave  al  umile  coraggio. 
S'  umile  mai  verrà  né  spirti  bianchi 
Conoscitor  di  noi,  V  uomo  novello 
Nasce  d'  animo  e  sangue,  santo  e  pio, 
Ch'  avrà  del  mondo  in  man  tutto  '1  rivaggio, 
Né  voi  verrete  in  suo  servigio  stanchi 
Stellati  cieli  e  tu  nostro  scabello. 


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170  II  caos  —  Selva  terza 


Rìtonda  terra,  ma  elio 

S' indura  contra  noi  l' iingiuta  ciampa, 

E  già  si  finge  e  stampa 

Di  feiTO  e  pietica  statue,  queir  onore 

Lor  dando,  che  a  Dio  vien  del  tutto  autore. 

Nascon  insieme  V  uomo  e  V  alto  oblio 
Del  dritto  e  anteposto  a  lui  viaggio, 
Dico  1  sentier,  che  al  fin  porge  doi  branchi, 
L'  un  stretto  dolce,  1'  altro  pieno  fello. 
Quinci  al  gioioso,  quindi  al  stato  rio 
S'  arriva,  onde  giustizia  in  lor  dannaggio 
A  tristi  vegna,  e  tengali  ne'  fianchi 
Tema  per  sprono,  e  morte  per  flagello. 
Morte,  che  'n  un  fardello 
Cogliendo  tutti  ovunque  voi  si  rampa. 
Nullo  da  lei  mai  scampa  ; 
Sia  pur  bel  volto,  sia  pur  verde  il"  fiore 
Far  non  può  mai,  che  morte  no  '1  scolore. 

Ma  guai,  chi  'n  mal  far  sempre  ha  del  restio, 
Ch'  ogni  sempre  di  là  trova  1  paraggio  ; 
Que'  dì  che  mai  di  colpa  non  fur  manchi 
Men  fian  di  pena  ove  gli  rei  flagello. 
In  fin  al  ore  estreme,  quando  '1  fio 
Pagar  verammi  inante  ogni  linguaggio 
Dal  ciel  i  destri  e  dal  inferno  i  manchi. 
Pur  stando  in  carne  lor  spesso  i-appello. 
Non  son  tigre  m'  agnello  ; 
Chi  '1  perso  ben  per  racquistar  s'  accampa, 
Chi  '1  viver  suo  ristampa. 
Intenda  realmente,  che  '1  signore 
Del  ciel  in  ciel  non  sdegna  il  peccatore. 

Dunque,  padre,  mi  'nvio  dar  suffraggio 

A  loro,  che  non  san  chi  sia  pur  quello, 
Ch'  altri  da  morte  scampa  e  esso  muore. 


A 


TBIPERUNO. 


li  alti  accenti  d*  un  tal  sono  eroico, 
Del  quale  ne  tremai  coni'  uom  frenetico, 


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Il  caos  —  Selva  terza  171 


Vennemi  voce  altronde.  A  che  esser  stoico 
Miser  ti  giova  né  peripatetico  ? 
Che  ti  vai  fra  V  un  mar  e  V  altro  euboico 
.    Pigliar  oracli  e  ber  fiume  poetico  ? 
A  che  spiar  la  verità  da  gli  uomini, 
Che  di  menzogna  furon  mastri,  e  domini? 

Io,  che  sculpito  in  cuor  le  note  aveami 

D'  un  sì  bel  viso  d'  un  parlar  sì  altiloquo, 
A  poco  a  poco  gli  occhi  aprh'  vedeami, 
Al  sono  di  colui  tanto  veriloquo  ; 
Pur  tal'  era  V  error,  eh'  anco  teneami, 
Ch'  appena  svelto  fui,  perchè  '1  dottiloquo 
Gioven  mi  sciolse,  onde  ciò  anti  nubilo 
Mi  parve  intender,  ed  intendendo  giubilo. 

Giubilo  perchè  intendo,  intenda  e  Plinio, 

Ch'  or  vive  morto,  viver  sempre  Y  anima  ; 
Non  sì  però,  eh'  i  stia  sotto  1  dominio 
Di  chi  '1  legume  d'  uman  spirto  innanima. 
Stetti  gran  tempo  in  tale  sterquilinio, 
Nel  qual  concedo  ben,  che  Y  alma  exanima 
La  troppo  vaga  e  addolcita  letera, 
E  molti  uccide  il  canto  d'  està  cetera. 

Qual  è,  chi  '1  creda,  eh'  oggi  tanta  insania 
La  nostra  verità  si  prema  e  vapoli  ? 
S' io  mi  diparto  al  umile  Betania 
Per  alto  mar  da  Eoma  o  sia  da  Napoli, 
Ecco  a  man  manca  dal  Parnasso  Urania 
Scopremi  Y  Elicona,  ove  mi  attrapoli. 
Ben  sk  che  a  lei  m'  avento,  benché  1  Tevere 
Lasciassi  per  Giordan,  queir  acque  a  bevere. 

Acque  sì  dolci,  quanto  più  bevemone. 

Più  a  la  tantalea  sete  si  rinfrescano  ; 

Quivi  l'argute  ninfe  lacedemone 

A  gli  ami  occulti  nostre  voglie  addescano  ; 

Così  non  mai  dal  bianco  il  negro  demone  1 

Sceglier  mi  so,  non  mai  Y  onde  si  pescano, 

i 


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172  11  caos  —  Selva  terza 


Cui  trasser  a  la  destra  del  navigio 
Piero  e  Gioan  de  pesci  il  gran  prodigio. 

Però  dal  mio  lesù  se  detto  fiami 

Giamai:  di  poco  fede  or  perchè  dubiti? 
Scusarmi  non  saprò,  quando  che  slami 
Concesso  por  le  dita  fin  ai  cubiti 
Nel  suo  costato  e  trarvi  '1  ben,  che  diami 
Fidi  pensieri  e  al  ver  creder  subiti, 
Non  lece  dunque  più  d'  Egitto  in  gremio 
Starsi,  ma  gir  con  Mosè  al  certo  premio. 

Assai  d'  oro  forniti  e  gemme  carichi 

Di  Fai'aon  scampiam'  omai  la  furia, 
Né  sì  men  gravi  paran  e  rammariclii, 
E  pene,  che  ci  dava  V  empia  curia, 
Che  nel  deserto  alcun  de  noi  prevarichi, 
Dicendo  in  faccia  a  Mosè  questa  ingiiuia  : 
Mancaron  entro  Egitto  forse  i  tumuli 
Che  morir  noi  per  queste  valli  accumuli  ? 

Ma  non  così  V  alma  gentil  improvere 

A  chi  oltra  '1  mar  asciutto  mena  un  popok^  ; 
Che  nel  primo  sentier  quantunque  povere 
Sian  le  contrate,  ove  sol  gi*inde  accopolo 
Per  cibo,  al  fin  vedrassi  manna  piovere, 
Sorger  un  largo  rio  di  nudo  scopolo, 
Che  cominciando  a  ber  nostri  cristigeni 
San  quanto  noccia  usar  co  li  alienigeni. 

Deh  !  non  ci  chiuda  il  passo  ai  rivi,  eh'  ondano 
Di  latte  e  mele  nostra  ingratitudine  : 
Rivi  che  noi  di  lepra  e  scabbia  mondano 
Contratta  dianzi  ne  la  solitudine. 
0  di  qual  meV  e'  nostri  petti  abandono, 
Ch'  assaggian  pria  di  fell'  amaritudine  ? 
Ma  ciò  non  prima  seppi,  che  'n  cuor  fissemi 
lesù  questi  si  dolci  accenti  e  dissemi  : 


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Il  caos  —  Selva  terza  178 


DIALOGO. 


CRISTO  E  TRIPERUNO. 


X   ace  ti-a  noi,  eh'  amor  ciò  voi,  (1)  o  privo 
D'  amor  e  pace  miser  animale. 
Sì  bello  dianzi,  e  or  sì  lordo  e  schivo. 

Amor  sia,  prego,  e  pace  teco,  che  ale 

Né  augel  mai  vola  senza,  né  alma,  cui 
Amor  e  pace  manchi,  ad  alto  sale. 

Ma  no  m' intendi,  si  contende  i  tui 

Sensi  la  folta  nebbia,  ne  Y  aurea  face 
Del  cuor  spenf  hai,  ne  vedi  te  ne  altrui. 

Ahi  !  misero,  che  speri  ?  ove  fugace 

Te  sottraendo  a  V  ira  vai,  che  altrove 
Ben  giiigne  al  varco  Y  empio  contumace  ? 

Le  tue,  non  solle  ?  mal  pensate  prove 

T'  han  scolorato  '1  viso  e  spento  a'  piedi 
La  scorta  luce  ;  dove  vai  ?  dì,  dove  ? 

Or  vegno  liberarti,  spera  e  credi,  . 

Porge  la  man,  nò  aver  uomo  di  tema 
E  '1  spirto  sol,  d'  amor  anco  1  possedi. 

Ma  un  dono  qui  ti  cheggio,  cui  Y  estrema 

Vertù  del  ciel,  eh'  or  tu  non  sai,  si  pasce, 
Né  in  lui  divina  fame  unqua  yien  scema. 


TRIPERUNO. 


I 


1  vago  vostro  aspetto,  onde  mi  nasce 
Un  trepido  sperar,  qual  che  voi  siate. 
Signor,  deh  !  in  questo  errore  non  mi  lasce  : 
0  dolce  man  e  occhi  di  pietate, 

Ch'  or  man  i'  stringo,  eh'  or  begli  occhi  veggio, 
Mon-ò,  s'  el  venir  vosco  mi  negate. 

(1)  Ambedue  le  edizioni  hanno  nel,  che  io  credo  errato  e  vada  vol^ 
vuole. 


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174  II  caos  —  Selva,  terza 


Mentre  vi  guardo  e  'nsierae  favoleggio, 
Si  rasserena  e  sfassi  quella  scabbia 
Nel  cor  già  fatta  un  smalto  e  duro  seggio. 

Qual  sì  fort'  ira,  qual  schiumosa  rabbia 
Non  ratto  cade  al  viso  vostro  onesto  ? 
E  pace  mi  chiedete  in  questa  gabbia? 

In  questa  d'  en-or  gabbia  chiuso  e  mesto. 
Privo  d'  ogni,  se  non  si  1  vostro,  aiuto. 
Dunque  eh'  i  v'  ami  e  doni  son  richiesto  ? 

Amarvi,  anzi  adorarvi,  non  refuto, 

Che,  quanto  parmi  al  bel  sembiante  altero, 
Amarvi,  anzi,  adorarvi  son  tenuto. 


0 


CRISTO. 

Il  se  co  r  occhio  avessi  '1  cor  sincero, 
Più  che  di  forme  'ntenderessi  dentro. 
Però  di  me  non  hai  giudiccio  intero. 

TRIPERUNO. 


Ne 


I  on  pur  voi,  ma  me  stesso,  e  'n  questo  centro 
Come  'ntrassi  non  so  ;  ben  or  vi  dico, 
S'  uscirne  poscio  mai  non  mai  più  v'  entro. 

Non  trovo  in  lui  né  porta  né  postico 

Per  cercar,  chi  mi  faccia,  e  brancolando, 
In  guisa  d'  orbo,  più  miei  passi  intrico. 

Oggi  omai  tempo  è  trarsi  d'  ombra,  quando 
La  luce  de  vostr'  occhi  essermi  scorta 
Non  sdegni  al  uscio  per  voi  fatto  entrando. 


CRISTO. 


Q 


uesta  prigion  da  tutte  parti  porta 
Non  ha,  for  eh'  al  entrare,  ma  ritorno 
Far  indi  e  sovra  girsen  via  più  importa. 


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Il  caos  —  Selva  terza  175  ; 

Questo  è  quel  lungo  nel  malfar  soggiorno,  \ 

Non  speri  uman  valor,  chi  uscir  ci  vole,  ^ 

Ed  io  la  guida  son,  eh'  altrui  distomo.  J 

Di  che  se  ben  sentissi  o  ingrata  prole  J 

Quanto  ti  diedi  e  darti  anco  apparecchio  4 

Di  questa  cieca  e  inornata  mole  ; 
Non  fora  mai,  che  per  alcuno  specchio  [ 

Di  verità  lasciassi  '1  vero  lume,  f 

Avendo  al  falso  pronto  sì  1'  orecchio.  i; 

Son  io  la  verità,  son  io  Y  acume  i 

Del  raggio,  che  volendo,  sempre  avrai,  1 

Persona  i  son  del  inscrutabil  nume.  l 

Io  son  r  amor  divin,  che  ti  criai  \ 

Uomo  simile  mio,  del  ciel  consorte  : 

Se  '1  cor  porgi,  che  pria  t'  addimandai. 
A  te  il  mio  regno,  a  me  il  tuo  cor  per  sorte  : 

Convien.  Stolto  sarai  se  darmi  '1  nieghi, 

Che  no  '1  facendo  ti  verrà  la  morte.  [ 

Morte  fera  crudele  ai  lunghi  prieghi 

Che  le  fian  fatti,  acciò  non  ti  divore, 

Immobil  sta  non  che  punto  si  pieghi. 
Ma  se  remmetti  nelle  man  mie  '1  core, 

E  per  altrove  porlo  indi  no  1  svelli, 

Non  fia  perchè  abbi  tu  di  lei  timore. 
Soi  tumuli,  sepolcri,  roghi,  avelli, 

E  quant'  urne  s'  affretta  empire  d'  ossa 

Non  temer,  nò  di  forza  eh'  aggian  elli. 
Lei,  di  catene  vinta  in  scura  fossa 

Rinchiusa,  freno,  che  sciorse  volendo 

Talora  si  dimena  con  tal  possa, 
Ch'  ella,  te  il  cor  rittolto  avenni,  udendo. 

Subito  rotte  lasciar  alle  a  dietro  (1), 

E  quant'  or  ti  son  bello  e  ti  risplendo. 
Questi  più  lorda  e  d'  aspro  viso  e  tetro 

Ti  assalirà  co  '1  insaziabil  feiTO 

Di  nervo  tal,  eli'  ogni  altro  li  è  qual  vetro. 
E  'n  peggior  stato,  di  cui  ora  ti  sferro. 


(1)  Questo  che  tale  si  le^ge  nelFuna  e  nell'altra  edizione  che  in- 
vece si  abbia  a  leggere  così  :  Suòiio  rotte  lascia  V  ale  a  drieto. 


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176  II  caos  —  Selva  terza 


Respinto  ancideratti  e  parangone 

Farai  del  gran  destin,  che  altrove  serro. 

A  te  sol  d'intelletto  e  di  ragione 

Beli'  alma  poi,  eh'  uciso  morte  f  aggia, 
In  Dio  del  opre  tue  sta  '1  guidardone. 

Pur  speme  né  timor  da  te  ti  caggia, 

Ma  r  una  e  Y  altro  insieme  là  che  libri  ; 
Che  chi  spera  temendo  al  fin  assaggia 

Di  me  quale  dolcezza  là  si  vibri, 

Ove  sfrenato  amor  ragion  non  stempre, 
Ma  sian  le  due  virtù  del  senso  i  cribri. 


TRIPERUNO. 

Oe  per  cosa,  signor,  di  basse  tempre 

Da  voi  si  largo  pregio  me  n'  acquisto, 
Ecco  vi  dono  il  cuor,  abbiate  '1  sempre. 

Ma,  dirlo  vaglia,  non  più  bello  acquisto 

Farsi  potria  di  quel,  eh'  or  faccio,  averne 
0  d'  ogni  ben  bellezza  in  fronte  visto. 

In  quella  fronte,  onde  tal  foco  ferve 

In  r  alma  mia,  che  ardendo  s'  addolcisce, 
Mentre  che  1  suo  del  vostr'  occhio  si  serve. 

Non  ho  eh'  io  temi  morte  se  perisce 

Ogni  sua  forza,  pur  che  sempre  v'  ami  ; 
E  il  sempre  amarvi  troppo  m'  aggradisce. 


TRIPERUNO   (1). 


Ne 


lon  mancheranno  tesi  lacci  e  ami 
D'  un  adversario  tuo,  che  'nvidioso 
Al  don,  eh'  or  ti  darò,  sotto  velami 
Di  verità  cerchi  farti  ritroso 

A  la  mistade  nostra,  ma  più  bassi 

Che  puoi  gli  occhi  terrai  col  piede  ombroso. 


(1)  Questo  capitolo  è  in  ambedue  le  edizioni  intestato  a  Triperuno, 
ma  invece  dovrebbe  esserlo  a  Cristo,  poiché  è  lui  che  paria. 


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Jh  CAOS  —  Sklva  terza  177 


Muovi  tu  dunque  accortamente  i  passi 

Per  questo  calle,  che  a  man  destra  miri, 
Onde  al  terrestre  paradiso  vassi. 

Cosa  non  è  vi  (1)  per  cui  unqua  sospiri, 
Anzi  gioisci  di  quel  dolce,  eh'  io 
T  apporto,  acciò  che  m'  ami,  e  toi  desiri 

Commetta  a  me,  che  t'  ho  svelto  d' oblio. 


TKIPERUNO. 


c< 


4om'  esser  può,  eh'  un  arbore,  eh'  un  fiume 
L'  un  stia  verde  giamai  senza  radice, 
U  altro  più  scorra  se  acqua  non  s'  elice 
Di  fonte,  o  neve  al  austro  si  consume  ? 

Com'  esser  può,  che  'ncendasi  le  piume. 
Mancando  il  sole,  Y  unica  fenice, 
O  eh'  ardi  al  spento  foco  cera  o  pice 
Di  naturai  e  non  divin  costume  ? 

Com'  esser  può,  dal  cor  un  alma  sgiunta 
Che  'n  corpo  viva,  come  allor  vid'  io 
Che  1  cor  al  cor  mio  dolce  lesti  diedi  ? 

Ma  'n  ciò  tu  sol,  amor,  natura  eccedi, 

Ch'  un  corpo  viver  fai,  benché  '1  desio 
Sen  porti  altrove  il  cor  sul  aurea  punta. 

TALIA.   . 


JL  iù  di  noi  fortunati  sotto  '1  sole 

Fra  quantunque  animai  non  muove  spirto, 
Ch'  al  fin  d'  està  mortai  incerta  nebbia 
Migrar  ci  è  dato  sovra  1'  alte  stelle  ; 
Bontà  di  lui,  che  a  man  destra  del  padre 
Regnando  ftu-si  degna  nostra  guida. 

Nostra  per  cieco  labirinto  guida. 

Ove  smarì  de  lo  'ntelletto  il  sole, 


(1)  Cosa  non  è  vi che  ò  nelle  due  edizioni  suppongo  che  sia 

invece  di  ;  Cosa  non  vi  è 

12 


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178  11  caos  :—  Selva  terza 


Nostro  fermo  dottor,  che  sé  col  padre 
Esser  e'  insegna  un  Dio  col  almo  spirto, 
Un  Dio,  che  stabil  muove  il  mar  lo  stelle, 
Augelli,  belve,  frpndi,  vento  e  nebbia. 

Ma  dal  Egeo  mar  un'  atra  nebbia. 

Che  tanti  perder  fa  la  dolce  guida, 
Levata  in  alto  fin  sotto  le  stelle, 
Ai  saggi  erranti  cela  il  vero  sole  : 
Che  più  credon  salir  di  Plato  il  spirto, 
Che  Paolo  e  Mosè,  che  d'Isacco  '1  padre, 

Né  Archesilao,  né  de  stoici  il  padre 

Sin  qui  gli  han  tolto  via  del  cuor  la  nebbia, 
Che  penetrar  non  lascia,  ove  sia  '1  spirto 
Muover  di  ciò,  che  muove,  mastro  e  guida. 
Però  van  ciechi  e  bassi,  e  solo  al  sole 
Molti  dricciar  altari  e  a  le  stelle. 

0  voi  dunque, .  mortali,  de  le  stelle. 

De  r  anime  e  di  noi  cercate  il  sole, 
E  non  del  dubbio  Socrate  la  nebbia. 
Meglio  é  morendo  aver  lesù  per  guida. 
Che  ad  Esculapi  offi-ir  d'un  gallo  il  spirto, 

1  veggio  trasformato  il  negro  spirto 

In  angelo  di  luce,  per  le  stelle 
Volando  a  noi  mosti-arsi  esser  _lor  guida, 
Se  leggo  Averois,  d'  errori  padre. 
Ma  l'Aquila  Gioanni  in  bianca  nebbia 
Sublime  affise  gli  occhi  al  sol  del  sole  ; 
AI  sol  del  sole,  onde  '1  figlino!,  dal  padre 
Mandato  in  questa  nebbia  su  a  le  stelle. 
Si  é  fatto  nostra  guida  amor  e  spirto. 


DISSOLUZIONE    DEL    CAOS. 

TRIPERUNO. 


F 


inito  che  fu  dunque  1'  alto  verbo, 
Benché  infinito  sempre  lo  servai. 
Disparve  '1  mio  signor  in  un  soperbo 
Triunfo  tolto  a  mille  e  mille  rai  : 


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Il  caos  —  Sklva  terza  179 


Ma  nel  fuggir  un  sono  così  acerbo 
Tonò  dal  negro  ciel,  eh'  io  ne  cascai 
Come  frassino,  o  pino,  il  qual  per  rabbia 
Di  vento  stride,  e  stendesi  a  la  sabbia. 

Vidi  la  cieca  massa  in  queir  istante, 

Che  '1  capo  m' intronò  Y  orribil  scopio, 
Smembrarsi  in  quatro  parti  a  me  davante, 
Ed  elle  sgiunte  aver  già  loco  propio  ; 
Due  parti  in  capo  e  due  sotto  le  piante  : 
Sonuninistarmi  sento  effetto  dopio, 
Qual  puro  e  caldo,  qual  sottil  e  leve, 
Qual  molle  e  fredo,  qual  densato  e  grave. 

Vidi  anco  le  incurvate  spere  intorno 
De  la  terrestre  balla  farsi  cerchio. 
Che  rotan  sempre  e  mai  non  fan  ritomo, 
SoV  una  è  fatta  a  noi  stabil  coperchio. 
Ma  1  ciel  d' innumerabil  lumi  adorno. 
Un  solo  non  mi  parve  di  soverchio, 
M'  offerse  al  fin  girando  un  sì  bel  occhio, 
Che  lui  per  adorar  fissi  '1  ginocchio. 

Egli,  se  alzando,  tal  mi  apparse,  eh'  io 
Lasciai  pur  anco  '1  fren  in  abandono, 
Drieto  al  error  del  credulo  desio. 
Che  'n  tal  sentier  non  sferzo  mai  ne  sprono. 
Ma  strana  voce,  onde  quell'  occhio  uscio. 
Mentre,  eh'  assorto  in  lui  sto  fiso  e  prono, 
Scridommi  come  Paolo  ai  Listri  fece. 
Che  di  Mercurio  V  adorar  invece. 


SOLE. 


Lima  felice,  eh'  hai  sola  quel  vanto 
Aver  di  1'  alta  mente  simiglianza, 
Onde  guardar  mi  puoi  frontoso  altero, 
Qual'  or  ti  fai,  che  'n  me  codarda  tanto 
Più  estimi  questo  raggio,  che  l' orranza 


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18Q  II  caos  —  Selva  terza 


Del  dato  a  te  sovra  ogni  stella  impero? 
Non  Dio,  ma  un  messaggero 
Di  lui  ti  vegno,  da  queir  una  luce, 
Ove  ben  sette  volte  intorno  avrai 
^  Di  me  più  bianchi  rai 

Da  quel,  senza  cui  nulla  fiamma  luce, 
Ma  come  in  vetro  egli  per  noi  traluce. 

Or  dunque  più  alto  e  non  si  basso  adora, 
Che  r  esser  mio  fu  solo  in  tuo  servigio, 
Mira,  come  ascéndendo  passo  passo 
Senza  mai  far  in  lunga  via  dimora, 
Di  miei  cavalH  tempro  sì  '1  vestigio^ 
Che  r  ampia  rota,  ove  tornando  passo, 
Non  unqua  vario  e  lasso, 
Finir  a  la  prescritta  meta  deggio. 
Vedi  come  V  estreme  parti  abbraccio, 
E  quanto  puosso  faccio 
Sol  per  accommodarti  V  uman  seggio. 
Ove  di  quanto  sai  voler  pi-oveggio. 

Mira  quell'empia  zona  come  obliqua 

Mi  volge  a  driéto,  onde  ne  vado  e  riedo 
Insieme,  ostando  al  mio  tornar  si  ratto. 
Né  di  che  tal  ripulsa  mi  sia  iniqua. 
Che  risospinto,  mentre  vi  procedo, 
L'  un  emisfero  aggiorno  Y  altro  annotto, 
Scorrendo  quattro  e  otto 
Segni  per  tanti  mesi,  e  passegiando 
Causo  molta  bellezza  di  Natura, 
-     "^  ^  Ch'  ha  variando  cura 

Farti  più  vago  e  lieto  il  mondo,  quando 
D'  ambi  solsticij  al  e([uinozio  scando. 

Quinci  r  arista  e  '1  ghiaccio,  quindi  apporto 
La  fior  e  '1  frutto  a  più  tua  dolce  gioia, 
Ma  non  usar  del  ben  concesso  in  male, 
Che  sentiressi  quanto  è  ratto  e  corto 
Il  mio  gir  lento,  e  ti  dai-ei  gran  noia 
Solcando  il  cerchio  estivo  e  glaziale. 
Poi  '1  tempo,  eh'  ha  cent'  ale 
A  gli  omeri  a  le  mani  al  capo  ai  piedi, 
Ch'  ora  sotterra  giace  in  le  catene. 


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^f^f^r" 


Il  caos  —  Selva  terza  Ì8l 


Veria  storti  dal  bene, 

Ch'  oggi  sì  lieto  godi,  e  te  1  possedi, 

E  ne  faria  soi  giorni  e  mesi  eredi. 

Ben  tempo  fu,  che  chi  sia  '1  tempo  e  morte 
Quello  provasti,  e  questa  dir  sentisti; 
E  r  uomo  dio,  che  d'  uomo  a  tempo  nacque, 
Ma  sempre  di  Dio  nasce,  e  or  le  porte 
Del  ciel  entrar  hai  visto,  già  servisti; 
Quando  per  V  uomo  farsi  uomo  li  piacque  ; 
Che  nel  presepio  giacque 
Nudo  fra  V  asinelio  e  bue  nasciuto. 
Ma  d' ignoranzia  in  grembo  V  hai  scordato, 
Però  da  Dio  novato 
Col  mondo  sei,  che  dianzi  eri  perduto, 
E  novo  Adamo  fatto  sei  di  luto. 

Luto  non  sei  più  no,  ma  novo  Adamo, 

Per  cui  ruppe  oggi  Dio  la  massa,  ed  ella 

Novellamente  noi  per  tuo  "ben  scelse; 

Noi  dico  stelle,  eh'  anzi  ti  eravamo 

Co  r  altre  cose  nulla,  o  quel  si  appella  ' 

Caos,  donde  '1  bel  sceclo  Dio  ti  svelse. 

Ma  sovra  le  più  excelse 

Corna  de'  monti,  onde  ti  portò  il  -giorno. 

Piantato  t'  è  un  terrestre  paradiso. 

Che  di  solacelo  e  riso 

Onestamente  sendo  sempre  adorno, 

lesù  spesso  vi  fa  teco  soggiorno. 

Adora  lui,  se  forse  quanto  sia, 

Dandogli  1  cor  sì  come  hai  fatto,  gusti. 
Quel  non  son  io,  perchè  da  te  adorato 
Ne  vegna,  come  al  mondo  errore  fia 
Di  Manicheo  (1)  e  soi  sequaci  ingiusti. 
Cristo  non  son,  perdi'  egli  sempre  a  lato 
Del  padre  sia  chiamato 
Sol  di  giustizia,  dond'  ei  dir  si  puote 
Cristo  esser  sole,  e  '1  sol  non  esser  Cristo. 


(1)  Manicheo  fu  i[  capo  di  una  setta  eresiarca  cristiana  del  primo 
secolo  della  chiesa.  Egli  ammetteva  la  luce  e  le  tenebre  quali  enti  su- 
premi del  mondo. 


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182  II  caos  —  Selva  terza 


Sol  son  io  'l  sole,  visto 
D'  occhio  mortai,  ma  Y  altro  sol  percuote 
Di  cieco  error,  chi  voi  mirar  sue  rote. 
Ora  più  non  m'  attempo, 

Che  senza  me  vedi  ogni  errante  stella, 
Per  trarne  frutto,  chi  testé,  chi  a  tempo. 
Volersi  unir  indarno  a  mia  sorella, 
Che  adultera  s'  appella 
D'  ogni  pianeta,  e  pur  senza  noi  dna 
Con  puoco  effetto  va  la  vertù  sua  (1). 

TRIPERUNO. 


/\  r  increpar  imnile  del  mio  Apollo, 

Come  uom,  che  cade  e  su  vergogna  Y  erge, 

Mi  rilevai  mirando  quanto  annoilo 

Di  sua  potenzia  Dio,  che  ovunque  asperge 

Li  aurati  raggi  il  mondo  fa  satollo 

Di  caldo  lume,  e  ratto  che  s'immerge 

A  r  altro  uscito  già  d'  un  emispero, 

Imbianca  quello,  e  questo  lascia  nero. 

Ma  non  sì  tosto  il  giorno  fu  dal.  lume 
Solar  causato,  e  nauti  mi  rifulse. 
Che  là  una  fonte,  qua  bagnar  un  fiume 
Vidi  le  ripe  sue  da  Y  onde  inipulse  : 
Parte  stagnarsi  e  mitigar  lor  schiume, 
Parte  volgersi  al  mar,  e  Y  acque  insulse 
Far  salse,  ove  Y  orribii  Oceano 
Distende  Y  ampie  braccia  di  luntano. 

In  mille  parti  ruppesi  la  terra. 

Donde  montagne  alpestre  al  ciel  ne  uscirò. 
Quinci  una  valle,  quindi  un  lago  serra 
De  colli  e  piagge  qualche  aprico  giro. 
L'alto  profundo  mar  già  non  pur  erra 

(1)  In  questo  capitolo  conferma,  il  Folengo,  il  princìpio  della  sfera- 
cità  della  terra,  ammesso  già  nella  Selva  2*,  pag.  40  e  torna  ribadirlo  nella 
terza  stanza  del  Capitolo  seguente.  Le  restanti  nozioni  astronomiche  si 
a^irrano  tutte  intorno  air  ipotesi  del  moto  del  sole  attorno  alla  terra. 


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Il  caos  —  Selva  terza  183 


La  sua  consorte,  che  rotonda  miro,  , 

Anzi  fatta  la  via  per  calle  stretto, 

In  grembo  a  lei  si  fece  agiato  letto. 
Già  d'  erbe,  fiori,  piante  e  de'  virgulti 

La  terra  d'  ognintorno  si  verdeggia, 

Quai  poggi  erbosi,  e  quai  lor  gioghi  occulti 

Han  di  frondose  cime,  e  quai  pai-eggia 

Monte  le  nebbie.  Ma  de'  boschi  adulti 

Ecco  già  sbuca  Y  infinita  greggia 

Degli  animali,  chi  presto,  chi  pegro, 

Chi  fier,  chi  mansueto,  o  bianco  o  negro.  i 

Anco  d' augelli  un'  alta  copia  vidi  '  j 

Sciolti  vagar  per  Y  aere,  e  altri  tanti  I 

Su  per  le  frondi  e  macchie  tesser  nidi,  , 

O  rassettar  col  becco  li  aurei  manti.  i 

Non  è  poggietto  e  riva,  che  non  gridi 

Lor  vari  e  ben  proporzionati  canti. 

Altri  lasciar  il  volo  e  al  nuoto  darsi,  j 

E  in  acque  scesi  d'  augei  pesci  farsi. 
Stavami  affiso,  e  nel  mirar  un  dolce 

Pensier  alto  diletto  m'  apportava,  j 

Gran  cosa  il  mondo,  e  più  chi  '1  guida  e  molce 

Troppo  mi  parve  allor,  e,  eh'  ei  non  grava 

Né  r  un  né  1'  altro  polo,  che  lo  folce, 

E  eh'  un  sì  magno  artefice  Y  inchiava. 

Né  fu  mirabil  men  che  de  la  mente. 

Pender  lo  vidi  ad  alto  incontanente. 
Tra  nulla  e  tutto  '1  mondo  alcun  indugio. 

Quantunque  pargoletto,  in  Dio  non  cape  ; 

Or  stracco  di  stupir  non  più  m' indugio. 

Ma  volto  il  passo  ad  un  pratel,  che  d'  ape 

Tutto  risona,  dando  a  lor  riffugio 

Sì  r  aura  dolce,  come  i  fior  le  dape, 

Mi  si  presenta  ratto  in  bella  gonna, 

Ch'  escie  d'  un  bosco,  sola  e  grave  donna. 
Presta  ne'  gesti,  e  di  sguardo  matura. 

Ma  più  d'  augello  nel  andar  spedita. 

Ha  vesta  bianca,  gialla,  e  di  verdura, 

E  ciò  eh'  encontra  tocca  e  dàlie  vita. 

Che  nulla,  a  drieto  lasciasi  procura, 


/ 


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184 


Il  caos  —  Selva  terza 


E  sopra  giunta  ov'  era  Y  infinita 
Mandra  dell'  ape,  tutte  le  ragguna, 
E  fece  lor,  non  so  che,  ad  un  ad  una. 
Vago  di  lei  saper,  non  che  la  causa 

Perchè  sì  or  questa,  or  quella  cosa  tocchi, 
Vadole  contro,  e  poi  di  farle  nausa 
Temendo,  mi  ritrago,  e  basso  gli  occhi. 
Ella  che  accorto  m'  ebbe  fece  pausa 
Con  le  man  giunte  al  ciel,  e  li  ginocchi 
Piegati  in  terra,  e  tal  parole  sciolse. 
Che  poi  finite  a  me  lieta  si  volse. 

NATURA. 

V^uel  inclito  animale  d'  alto  pregio, 

Ch'  ogni  altro  avanza  e  tiensil  basso  e  domo, 

Ecco  celeste  padre  santo  il  nomo. 

Se  da  voi  porre  i  nomi  ho  privilegio  ; 

Ma  già  ti'ovai  nel  nostro  sortilegio, 

Che  nominar  il  d(ibba  fragil  uomo. 
Per  quel  sì  dolce  e  pestilenzie  pomo 
Cui  si  nascose  il  primo  sacrilegio. 

Ben  vedo,  che  per  me,  Natura  detta, 

L'  eterno  oprar,  che  destemi,  si  perde, 

E  nasce  ognor,  che  mi  persegua  il  tempo. 

Onde  per  eh'  ora  sia  sempre  sul  verde 

Altre  staggion  veranno  assai  per  tempo, 
Che  al  fine  mi  trasportai!  qual  saetta. 

DIALOGO. 

NATURA  E  TRIPERUNO. 

NATURA. 

Opirto  immortale,  a  cui  sol  alza  Dio 
La  fronte  in  cielo  e  fattene  capace, 
Fk  che  a  me  torni  udendo  Y  esser  mio. 


\ 


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Il  caos  —  Selva  terza  Ì85 


TRIPERUNO. 


I 


NATURA. 


TRIPERUNO. 


D. 


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f 


o  sospicai  di  troppo  esser  audace, 

Volendo  e  te  sapere  e  \  opre  tue,  ii% 

Però  mi  volsi  adrieto  per  mia  pace.  ^l^ 


m 


i.nzi  dal  padre  destinato  fue^ 

Che  sol  da  T  uomo  T  esser  mio  s' intenda 

Fin  a  la  meta  de  le  fiamme  sue  ; 
Ma  che  T  ottavo  cerchio  non  trascenda, 

Se  non  quando  abbia  seco  parte  in  cielo  .  . 

E  l'alto  pegno,  donde  '1  tolse,  renda.  || 

Ch'i  sia  la  tua  Natura  non  ti  celo. 

Da  lui  fatta  del  mondo  servatrice 

Sempre,  se  sempre  dura  T  uman  velo.  \  \ 


■1 


'unque  sei  quella  mastra,  queir  altrice,  *! 

Queir  onoranda  madre,  quella  grande  ^; 

Di  Dio  ministra,  e  del  mio  ben  radice  ?  .  *  !" 

Ecco  se  lunge  tua  beltà  si  spande,  \ 

0  causa,  se  non  prima  almen  seconda, 

Ecco  se  chiara  sei  da  tutte  bande. 
Verd'  è  la  teri'a,  gialla,  rossa,  e  bionda  ; 

Che  '1  tuo  pennello  intorno  mi  la  pinse, 

E  mi  la  rese  agli  occhi  sì  gioconda. 

E  '1  ciel  ne  lodo,  e  lui  che  '1  mondo  avinse 

Di  quel  forse  non  mai  solubll  groppo,  \ 

Ne  men  eh'  ha  \  opra  nobile  t' acinse.  ; 

NATURA.  \ 

Oaggio  animai  !  pur  son  colei,  eh'  engroppo 

Le  fila,  eh'  altri  lìi  dissopi'a  ordisee,  \ 


?  1 


1 


n 


Ì86  Ili  CAOS  —  Selva  terza 


Lieta  ne  vò,  ma  non  sicura  troppo. 

Anzi  '\  vivo  pensier,  che  m'  addolcisce 

Pensando  al  tuo  non  pur  al  mio  decoro, 
Sento  che  passo  passo  in  me  languisce. 

Deh  !  non  falir,  alma  gentil,  amore, 

Che  ad  esser  ti  degnò  suo  dolce  obietto, 
Dandoli  tu,  de  -cui  si  pasce,  il  cuore. 


TRIPERUNO. 


I 


1  cuor  a  lui  gik  diedi,  e  ogni  affetto 
Ho  di  seguir  e  non  lasciarlo  imquanco. 
Per  non  privaimi  del  suo  bello  aspetto. 

Non  sazio  mai,  non  mai  vedrommi  stanco 
Mentre  mi  volgo  a  contemplar  ogn'  ora 
L'  amor  per  cui  di  gioia  mai  non  manco. 

E  pur  se  dubbia  sei,  madre,  ne  ancora 
Ben  stabile  considri  esser  il  chiodo, 
Battil  così,  -che  mai  non  esca  fora. 


NATURA. 


Fi 


igliuol,  gik  strinsi  a  V  altre  cose  un  nodo. 
Donde  sferrarsi  quelle  non  potranno. 
Se  Dio  non  le  ritorna  al  primo  sodo 

A  te  con  li  altri,  clie  saputi  vanno, 

Diede  V  alto  motor  un  Hber  giovo, 

Che,  o  lor  in  pregio  vegna,  o  lor  in  danno. 

Però  mistier  non  è,  eh'  io  batta  '1  chiovo, 
Altro  braccio  del  mio  sovente  il   preme, 
Tu  stesso  il  sai  che  '1  fatto  non  f  è  novo. 

Raggion,  memoria,  e  Y  ontelletto  (1)  insieme 


(l)  Il  Folengo  usa  ripetutamente  V  onteletlo  in  ambedue  le  etliziotii 
per  iìitelelio,  ma  forse  potrebbe  essere  anclie  un  errore  tipografico,  invece       1 
di  lo  *ntelel(o^  e  non  è  improbal)ile  che  sia  così,   sia  perchè  più  basso  è       | 
usato  intelelto,  sia  perchè  la  seconda  edizione  l'ipete,  con  mirabile  fedeltà 
tutti  gli  errori  della  prima.  I 


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Il  caos  —  Selva  terza  187 


Scescer  in  te  da  le  soperne  idee, 

Ch'  han  di  tua  libertìi  le  parti  estreme. 

Se  mai  ven-à  che  centra  '1  ben  si  cree 

Pensier  in  te,  non  temer,  che  non  senta 
Le  voglie  entrate  se  sian  bone  o  ree. 

Perchè  la  scorta  tua  sta  sempre  intenta 

Del  cor  al  varco  e  sa  chi  vk  chi  viene, 
Né  in  darti  aviso  mai  fia  pegra  e  lenta. 

Però  eh'  io  sol  la  rabbia  in  te  raffrene. 
Forse  tempo  verrà  che  da  me  impetri 
De  le  stagion  di  foco  e  ghiaccio  piene. 

Che  quando  sia  eh'  ei  di  brumali  e  tetri 
Volgerti  il  chiaro  ciel  sosopra  miri, 
E  i  monti  neve,  e  i  stagni  farse  vetri  : 

Nostra  in  balia  sarà,  che  '1  mondo  giri. 
Lo  qual  il  tempo  adomo  riconduca, 
E  r  erbe  e  fior  novellamente  aspiri. 

Ma  non  sia  eh'  alcun  serpe  mai  t' induca 
Del  arbore  vietato  accor  il  frutto, 
C  ancide  altrui  se  il  morde,  o  se  '1  manuca. 

TRIPERUNO. 


Jl   iù  tosto  il  sol  feniiarsi,  e  '1  mar  asciutto 
Forse  vedrò,  che  mai  contra  la  voglia 
Cosa  mi  faccia  di  che  move  '1  tutto. 

Ma  scoprimi  tu  già,  quando  che  foglia 

Mai  senza  tuo  vigor  non  penda  in  ramo. 
Quanto  sii  vaga  e  bella  sotto  spoglia. 

NATURA. 

\  /ual  pianta,  qual  augel,  qual  fiera  piii  amo 
Di  te  saggio  animai  ?  Però  mie  cose 
Io  più  mostrarti,  che  tu  veder,  bramo. 

Voi  dunque  freschi  rivi,  piagge  erbose. 
Opachi  colli,  cavernosi  monti, 
Campi  de  gigli  de  ligustri  e  rose» 


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I8è  II  caos  -^  Selva  terza 


Voi  rilevate  ripe,  laghi  e  fonti, 

Riposte  valli,  ruscelletti  e  fiami, 

Ch'  anco  miei  segni  non  gli  avete  conti. 

Anzi  del  ciel  voi  fiammeggianti  lumi, 

Quella  verta  spandete  al  uomo  nostro, 
Ch'ornai  l'assenni,  e  del  mio  beh  l'allumi. 

Nel  cui  servigio  mosse  1'  esser  nostro 

Un  Dio,  però  eh'  ei  sol  v'  intenda  lece, 
Al  qual  taceste  un  altro  piii  bel  chiosti'o. 

Chiostro  di  tante  stelle  ornato  invece 

jy  un  bel  trapunto,  ove  specchi  e  gioisca 
Le  quattro  e  sette  là,  qual  l' otto  e  diece. 

E  quanto  su  contempla  e  giù,  sortisca 
In  grazia  tal,  che  l'ontelletto  pigli 
Non  mcn  del  occhio,  e  par  a  lui  salisca. 

Orsi,  tigri,  leon,  lepre,  conigli, 

Pantere,  volpi,  orche,  cete,  delfini, 
Aquile,  struci,  nottole,  smerigli. 

Non  sia  de  voi  eh'  umile  non  s' inchini 
A  r  assennata  fonna,  ovunque  scoitc 
Tra  voi  platani,  abeti,  faggi  e  pini. 

Di  tutte  vostre  cause  in  lui  concoire 
Una  dal  sommo  ai'tefice  criata, 
Che  al  uomo  suo  voi  tutti  ebbe  •a  comporre. 

Ma  sento  già  V  error  :  Ahi  !  scelerata 

Soperbia,  che  pur  1'  uscio  trovi  aperto, 
Ben  cara  costaratti  quell'entrata, 

Ch'  io  vengo  il  premio  compensarti  al  merto. 

TRIPERUNO   SOLO. 


^e  dir  volessi  a  mille  e  mille  lingue. 
Se  por  in  cai-te  mille  e  mille  penne, 
Col  senno,  eh'  ogni  groppo  ci  distingue, 
Dramma  del  sommo  ben,  eh'  allor  mi  venne, 
Dapoi  che  Y  alta  donna  con  le  pingue 
Di  sdegno  gote  al  ciel  spiegò  le  penne. 
Direi  che  tra  mortali  V  esser  mio 
Saiia  non  d'  uomo  anzi  terresti-e  Dio. 


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Il  caos  —  Selva  terza  189 


Giamai  sì  bel  secreto  fu  di  lei 

Ne  in  erbe^  fonti,  pietre,  stelle  occulto. 
Ch'ai  subito  girar  de  gli  occhi  miei 
Non  mi  restasse  in  Talta  mente  sculto. 
So  ben  che  mille  Atlanti,  e  Tolomeì 
De  r  intelletto,  eh'  oggi  m'  è  sepolto, 
Non  sen  trarebber  una  particella, 
Perchè  saliscon  d' una'^  in  altra  stella. 

Ma,  lasso  !  il  chiaro  vetro  in  eh'  io  solca 

Specchiar  da  fronte  i  sedi,  e  poi  le  spalle. 
Per  eli'  io  '1  trovai  sì  fosco  ?  perchè  Astrea 
Pia  star  non  volse  meco  in  questa  valle? 
Perchè  ridir  non  so  quant'  io  scorgea 
Per  un  angosto  ma  soave  calle  ? 
Lassando  duncjue,  anzi  alle  cose  parve 
Scendiamo  poscia,  che  1'  altezza  sparve. 

Spai-ve  Natura  molto  neghitosa, 

Mercè  che  volse  a  Dio  V  orgoglio  eguai*sp, 
I  mi  fermai  sott'  una  macchia  ombrosa. 
Mirando  1'  ape  quinci  e  quindi  sparse, 
A  sacco  porre  una  campagna  erbosa 
Ed  a  vicenda  in  loco  poi  ritrarse, 
Ove  locar  di  cera  e  mele  vidi 
Per  cave,  querze,  i  tetti  lor  e  nidi. 

Se  fu  ne  grandi  corpi  molto  industre 
Natura,  ove  mirabil  officina 
Corcò,  quanto  più  panni  saggia  e  illustre 
Fingendo  Y  apa  in  forma  sì  picina. 
Né  r  apa  sol  ;  (1)  ma  ciò  eh'  umor  palustre 
Nudrisce,  dico,  o-  riscaldata  brina, 
Donde  sbucarse  veggio  tarli  e  culci. 
Vespe,  cicade,  mosche,  ragni,  e  pulci. 

Dimmi,  tu  senso  altier,  che  a  tutta  puossa 
Intender  cerchi  Dio,  né  mai  lo  aggiugni, 
Perchè  s'  han  elli  sangue,  nervi,  e  ossa. 
Sol  per  sapere  noxi  te  stesso  impugni  ? 
Perchè  sottrarsi  da  qualche  percossa 


(1)  Come  più  sopra  usa  ape  al  plurale,  qui  per  due  volte  usa  aj>a 
al  singolare. 


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190  II  caos  —  Sklva  terza 


i 


r 


Lor  presti  miro,  che  morte  no  i  giugni  ?  1 

Segno  evidente  eh'  in  tal  corpitello 

Non  men  la  madre  oprò  eh'  in  un  ganibello. 
Ch'  instrusse  mai  quella  solerte  vespa 

Svenar  il  ragno,'  e  trasferirlo  al  speco, 

Dove  co  piedi  e  rostro  pria  \  increspa, 

Vj  tienlo,  poi  qual  ubvo,  in  grembo  seco. 

In  fin  eh'  un  figlio  in  quella  tana  crespa 

Gli  nasca  d'  ale  privo,  ignudo,  e  cieco, 

Ma  di  troncate  mosche  tanto  '1  pasce, 

Ch'  egli  già  vespa  salta  fuor  di  fasce  ? 
Qual  mastro  dito  al  errabondo  fuso 

Volve  di  quel  del  ragno  il  più  bel  stame  ? 

Ch'  or  suso  va  così  veloce,  or  giuso, 

Nodando  per  far  preda  Y  alte  trame  ? 

Poi,  nella  stanza  pendula  rinchiuso, 

Attende,  al  varco  per  scemar  la  fame, 

Qual  animai  vi  caschi  nelle  stuppe, 

Che  con  prolisse  gambe  raviluppe  ? 
Ne  la  formica  men  sagace  parmi, 

Ch'  ognor  s'  affanna  per  schivar  il  stento. 

Di  quanta  forza  veggio  che  co  T  armi 

E  schiene  va  burlando  il  gran  frumento, 

Così  nel  far  teatri  grevi  marmi 

Solsi  condur  per  li  uomini  al  cimento, 

Poi  r  incaverna,  e  fiedelo  col  rostro, 

Che  non  s' imboschi  dentro  T  ampio  chiostro. 
Ecco  sen  passa  d'  una  in  altra  forma 

Quel  vermo  onde  la  seta,  for  s'  elice, 

O  bel  instinto  naturai  e  norma. 

Che  sanza  la  sua  fila  né  testrice 

Né  aurefice  ben  soi  trapunti  forma. 

Taccio  r  ovra  del  candido  Bombice 

Che  dal  svelto  per  pioggia  fior  di  querza 

Nasce  cangiato  in  fin  la  volta  terza. 
Mille  altre  spezie  de  la  picciol  greggia 

Pospongo  agevolmente  or  in  disparte; 

Segue  eh'  io  solamente  T  ampia  reggia 

Del  ape  contemplando  chiuda  in  carte, 

Che  '1  magistrato  lor  forse  pareggia, 


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Il    caos   SkLVA    ThRZA  191 


Se  non  in  tutto  il  nostro  almen  in  parte, 
Sì  come  •  quelle  eh'  han  statuti,  e  legge, 
Ne  manca  il  duca  lor,  che  le  con^egge. 

Anzi  de  la  più  parte  da  sufFraggi 

Lo  elletto  imperator  sostien  la  verga. 
Satelliti,  littori,  servi,  e  paggi 
Vannogli  sempre  appresso  ovunque  perga. 
Esso  le  pene  simil  ha  li  oltraggi 
Librando  va,  però  non  è  chi  s'  erga 
Soperbamente  contra  lui,  eh'  amando 
Temesi  un  rege  più,  che  minacciando. 

Non  come  Y  altre  1'  umido  mucrone  (1), 
Annoilo  assai  sua  maiestade,  cura. 
Mentre  la  plebe  strenua  compone 
Senza  Vetruvio  tanta  archietettura. 
Egli  sta  sopra,  e  lor  case  dispone 
Servando,  ove  convien,  modo  e  misura. 
Non  escie  mai  di  corte  se  non  quando, 
Del  popol  manda  una  gran  parte  in  bando. 

E  se  tardarla  fusse  allor  men  tosta 

Qualche  araionia  di  ferro,  o  d'  altro  sono, 

L' impulsa  torma  irebbe  assai  discosta. 

Così  dal  rege  suo  guidate  sono. 

Però  Natura  voi,  che  senza  sosta 

Lor  di  concento  annesti  qualche  tono, 

E  'nsieme  le  ragguni  a  nova  tomba. 

In  guisa  de  soldati  al  son  di  tromba  (2). 

Ma  s' io  non  voglio  che  '1  mio  popol  n'  esca  *^ 

•Di  sue  contrade  pcir  migrar  altrove. 
Un'  ala  tronco  al  capo  de  la  tresca, 
La  qual  non  senza  lui  mai  fuga  move. 
S'  ei  langue  infermo,  dangli  bere  ed  esca. 
Chi  '1  porta,  chi  '1  sostien,  eh'  in  grembo  il  fove, 
S'  anche  smarrito  errando  va  per  caso, 
Vien  conto,  qual  patron,  da  cani  a  naso. 


(1)  In  ambedue  le  edizioni  trovasi  dato  ai  mucrone  T  aggettivo  di 
timido, 

(2)  Allude,  il  Folengo,  air  uso  invalso  nelle  nostre  campagne  anche 
di  presente,  di  richiamare  una  qualche  famiglia  di  api,  che  sia  lugita  dal- 
l'alveare,  mediante  il  suono  dei  ferri  battuti. 


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192  II  caos  —  Selva  terza 


E  se  di  quk  di  là  trovar  no  '1  sanno 
Atlorà  per  consiglio  si  delibra 
Condursi  ad  altro  duca,  e  fuor  sen  vanno 
A  la  cittade  altrui,  ne  alcun  si  vibra 
De  cittadini  contra,  e  fa  lor  danno. 
Anzi  nel  tetto  si  compensa  e  libra 
Di  quanta  plebe  sia  capace,  dopo 
Né  piil,  né  men  li  accettan  che  li  è  uopo. 

Tal  volta  eh'  egli  morto  caschi  occorre, 

Pensi  chi  ama  il  suo  rege  qual  supplisìo! 
Di  tutte  bande  al  corpo  si  concorre, 
Gittato  a  terra  1'  util  esercizio, 
Con  lagrime  non  san  elle  già  sporre 
Lor  gran  cordoglio  al  funeral  uffizio. 
Dirò  ben  veramente  aver  udito 
Strepito  d'ale  con  vocal  ruggito. 

Se  à!  ordinato,  e  regolar  costume 

Giamai  V  uso  mortai  restasse  privo, 
Puoterlo  aver  da  V  api  si  presume. 
Ne  r  uomo  forse  1'  averebbe  a  schivo, 
Che  stando  elle  di  notte  ne  lor  piume 
Se  '1  stato  per  servar,  si  1  rege  vivo. 
La  vigil  guarda  sempre  a  l'uscio  ascolta, 
Cascando  a  queste  e  quelle  la  sua  volta. 

Ma  de  1'  augel  cristato  non  sì  presto 

S'  annunzia  già  spuntarse  nova  luce. 
Ecco  di  tromba  un  suono  manifesto 
Fa  dar  per  le  contrate  il  pronto  duce. 
.  S'  ode  di  par  il  suono  :  è  il  volgo  desto,     . 
Al  solito  lavor  che  si  riduce, 
O  lieto  eh'  iq  cospetto  al  rege  primo 
Va  fuora  e  riede  carco  sol  di  timo. 

La  verde  giovinezza  è  che  se  'n  fugge 

A  la  riccolta  in  bande  assai  longinque. 
Chi  qua  la  rosa,  chi  Jà  il  giglio  sugge. 
Chi  assale  questo  fior,  e  chi  '1  relinque. 
Fassi  gran  preda,  e  Ibla  si  distrugge 
Co  r  altre  terre  che  vi  son  propinque, 
La  turba  d'  ogn'  intorno  succia  e  lambe. 
Ne  cessan  riportar  1'  enfiate  gambe. 


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Il  caos  —  Selva  terza  193 


Ma  de  le  più  attempate  un  stomo  arguto 

Col  suo  signor  in  rocca  stassi  a  V  ombra, 

Cui  per  ufficio  vien  locar  in  tuto 

La  robba,  che  portata  il  tetto  ingombra: 

Depor  i  fasci  a  parte  dan  aiuto, 

Parte  già  leve  a  la  campagna  sgombra. 

Tanto  al  divin  servigio,  a  Y  uman  gusto 

Di  piacer  brama  im  vermo  si  robusto. 

Tar  ora  un  vento  subito,  quantunque 

Del  tempo  sian  presaghe,  di  tranquillo 
Così  molesto  vien,  che  scossa  ovunque 
Si  pascon  elle  in  fin  l'umil  serpillo. 
Ecco  la  madre  le  ha  proviste  dunque, 
Che  toltosi  ne'  piedi  alcun  lapillo, 
Van'  elle  poco  del  gran  vento  in  forza. 
Librando  qual  nochier  il  volo  ad  orza. 

Ed  anco  se  la  notte  per  la  loro 

Molta  ingordigia  d'  acquistar  le  assale. 
Raccolte  insieme  quasi  in  concistoro 
Le  gambe  al  ciel,  e  'n  teri'a  posan  Y  ale. 
Che  de  le  stelle  il  rugiadoso  coro 
Le  avinge  sì,  che  poco  il  volo  vale. 
Se  non  s' indrustran  starsene  sopine 
Tutta  la  iiotte  ad  aspettar  il  fine. 

Taccio  le  nitrici  guerre,  eh'  a  le  volte 
Tra  r  un  vicino  rege  e  Y  altro  fansi. 
Tu  vedi  tante  squadre  intorno  accolte. 
Che  poscia  a  tor  la  vita  irate  vansi, 
E  se  ritornan  parte  in  fuga  volte, 
Ritrandosi  lor  duci  fiacchi  e  ansi. 
Parte  seguendo  vittoriosa  gode, 
Ne  altro  che  plausi,  e  voci  liete  s'  ode. 

Indi  iattura  tal,  se  non  dissolve 
L'  agricola  prudente  lor  litigi 
Col  importuno  fumo,  e  secco  polve. 
Vi  nasce,  che  la  morte  ai  campi  stigi 
Là  parte  vinta  e  la  vittrice  involve. 
Oh  grandi  spesso  al  stato  uman  prodigi, 
Che  de  lor  code  mandon  Y  alte  spine. 
Cui  per  grand'  ira  seguon  l' intestine. 


13 


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194  II  caos  —  Selva  terza 


La  vile  mandra  de'  pannosi  fuchi 

Trovan  sovente  starsen  al  presepe, 

Ove  cosa  non  è  che  non  manuchi, 

Ma  poi  nel  laticarse  pegra  tepe. 

Tu  vedi  lor  scacciati  esser  da  buchi, 

E  morti  far  in  cerco  folta  sepe, 

E  il  simel  fan  de  Y  apa  tarda  e  pigra, 

Glie  uccisa  vien  s'  occulta  non  sen  migra. 

Tra  gli  diversi  lor  nemici  e  morbi 

Come,  vespe,  carboni,  e  rondinelle. 
Ragni,  lacerte,  acqua  de  stagni  torbi, 
Puzzo  de  cancri,  culici,  mustelle. 
Par  che  la  rana  più  le  affanni  e  storbi, 
Perch'  ella  coltra  i  brandi  lor  lia  pelle 
Non  men  sicura,  e  di  maggior  fiduccia 
Del  ferro  al  colpo  d'  una  fral  canuccia. 

Ecco  mirabil  vermo,  che  disopre 
.      Li  altri  animali,  non  pur  dico  insetti, 
Ma  quanti  piuma,  squame  e  lana  copre, 
Esser  fatto,  mirai,  per  santi  effetti, 
Tra  quai  conobbi  le  lodevol  opre 
Di  cera,  drento  ai  cristiani  tetti. 
Ove  non  ben  di  notte  Dio  si  cole, 
Se  mancavi  di  cere  acceso  il  sole. 

D'altri  animali,  dicovi,  seguendo 

Tenni  le  cause  d'infalibil  prova, 

Ma  quante  rimembrar  in  me  contendo 

E  porle  inanzi  a  voi  nulla  mi  giova. 

Così  vols'  il  mio  fallo,  che  s' io  spendo 

Per  risaper  ciò,  eh'  in  Natura  cova 

Il  tempo  invan,  ne  pianga  giustamente, 

E  faccia  come  quel,  che  tardo  pente. 

Di  poggio  in  piano,  di  campagna  in  selva, 
(xiravami  qua!  spirto,  che  di  gioia 
I*ascendosi  Ut  su  per  V  ampio  ciel  va, 
Né  mai  cosa  v'  incontra  che  lo  annoia. 
Qual  orso,  qual  leon,  qual  altra  belva 
Restò  venirmi,  non  che  desse  noia. 
Scherzar  intorno,  e  dentro  le  lor  saune, 
Prendermi  leggiermente  ambo  le  spanne  ? 


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Il  caos  —  Selva  terza  195  < 

Palpava  11  dorso  al  tigro,  come  solsi 

Far  d'  un  cagnolo,  o  d'  altro  picciol  pollo. 

Cornai  le  sete  a  li  apri,  e  mi  ravolsi  jì 

Le  vipere  a  le  braccia,  al  capo,  al  collo,  J 

Li  augel  al  pugno  e  pesci  al  lido  accolsi,  .  :>i 

Ne  de  mirar  li  venni  unqua  satollo, 

Poscia  mi  volsi  a  la  man  dritta  come 

Sopra  mi  disse  quel  dal  dolce  nome. 


PARADISO    TERRESTRE. 

TRIPERUNO. 


i 


iJopoi  che  sopra  e  sotto  '1  ciel  uscirò  J 

L'  opre  del  summo  artefice  sì  belle, 

Né  molto  spazio  andò,  che  V  empio  e  diro  ^ 

Popol  de  li  demon  fu  da  le  stelle 

Bandito  al  centro  basso,  ove  perirò. 

Con  r  ombre  eternamente  al  ciel  rubelle, 

Su  r  uomo  Dio  fondò  stabil  disegno,  ^ 

Ch'  empir  di  novo  avesse  il  vodo  regno. 
Nò  più  son  pesci  in  acque,  né  piti  foglie  ^ 

In  selve,  come  in  ciel  private  stanze. 

Però  Michel,  poi  eh'  ebbe  Y  atre  spoglie 

Di  Pluto  trionfando  su  le  lanze 

Sospese  a  i  tetti,  ove  V  onor  s'  accoglie. 

Discinto  il  brando  e  tolte  le  bilanze. 

Venne  qui  giù  per  farvi,  non  più  guerra. 

Ma  sol  un  paradiso  a  V  uomo  in  terra. 
Qui,  di  soperba  fatta  invidiosa 

La  greggia  de  cornuti  negri,  quando  V 

Questo  antivede,  cruda  e  neghittosa. 

Ripiglia  contra  noi  Y  occulto  brando, 

I  dico  brando  occulto  a  più  dannosa 

Nostra  ruina,  e  sempre  va  celando  j 

Quinci  quel  vischio,  quindi  quella  pania,  ' 

Tanto  che  la  più  parte  avinge  e  lania. 
Piantato  dunque  in  terra  un  paradiso 

Da  r  angiol  fu  di  Dio,  detto  Fortezza, 


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É' 


196  II  caos  —  Selva  terza 


r 


Luoco  non  privo  mai  d'  onesto  riso, 
De  suoni,  canti,  giochi  a  gran  dolcezza. 
Quivi  trovai  pur  anco  V  aureo  viso 
Di  quel  lesù,  che  T  amorosa  frezza 
Nel  cor  m' immerse  prima,  e  seco  poscia 
PortoUo,  me  lasciando  in  dolce  angoscia. 

Su  ne  le  pii\  levate  cime,  donde 

Febo  riporta  il  matutino  giorno, 
Un  monte,  eh'  ha  inaccessibil  sponde 
E  cento  millia  passi  volge  intorno. 
Vidi,  che  al  ciel  lunar  il  capo  ascende, 
E  par  che  tocchi  e'  piedi  a  Capricorno, 
Là  fui  chiamato  d'  una  nebbia  scura  : 
Vieni  oggimai,  o  santa  creatura. 

Suso  mi  portò,  ed  ecco  alte  muraglie 
Vidi  luntano  con  quadrata  cinta 
Serrar  de  poggi,  e  campi  e  di  boscaglie 
Una  provincia  in  più  parti  distinta. 
Ma  quello  muro  quasi  mi  abbarbagUa 
La  vista,  dal  suo  lume  resospinta, 
Mercè  eh'  era  cristallo  e  oro,  intorno 
Di  perle  e  tutte  T  altre  gemme  adomo. 

Or  su  per  quel  parete  schietto  e  fino 
Vidi  eh'  avean  Michel,  e  Rafaele 
Non  r  urbinato,  dico,  o  '1  fiorentino, 
Ch'  or  lascian  dopo  sé  gran  loda  in  tele, 
Depinto  per  mio  specchio  il  fier  destino 
Di  Lucibello,  a  sé  stesso  crudele, 
Che  bello  ti'oppo  a  sé  medemo,  d'  alto 
Prese  co  gli  altri  un  smisurato  salto. 


u 


LA  PORTA. 

omo!  che  vedi  a  quanto  onor  ti  degna 
L'  altissimo  fattore, 

Or  entra  ad  obedirlo,  acciocché  '1  cuore 
Da  te  giìi  dato  in  giazia  ti  '1  mantegna. 
Ma  ne  la  gioia  tua,  eh'  avrai  sì  lieta, 


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.^4ÌSlÀ 


Il  caos  —  Selva  terza  197 


Fa,  che  Y  afireni  accortamente,  cui 
Non  repugnando  proverai  co  1  male 
Quant'  era  il  ben  anzi  che  1'  un  di  lui 
Pomi  gustassi.  Che  se  Dio  ti  1  vieta. 
Toccar  non  dèi,  per  non  venir  mortale. 
Dal  serpe  il  piede  e  dal  legno  fatale 
Se  non  vieti  la  mano. 
Ecco  d'  un  legno  more  il  ceppo  umano, 
E  un  legno  per  sua  croce  Dio  non  sdegna. 

TRIPERUNO. 

\iueste  parole  trapuntate  in  oro 

Sopra  la  porta,  in  un  bel  smalto  lessi  ; 
Ma  i  fregi,  e  gli  archi,  e  ornamenti  loro 
Sono  di  fine  gemme  carchi  e  spessi. 
Entrovi  lieto  per  sì  bel  tesoro, 
E  in  cerchio  con  le  mani  esser  rannessi, 
D'  angioli  pargoletti  e  nudi  un  stolo 
Vidi  scherzando  volteggiarsi  a  volo. 

E  su  per  merli  e  for  de  gli  balconi. 

Quei  di  diamante  e  questi  di  cristallo 

Miir  altri  con  diversi  canti  e  suoni 

Muoveno  d'  altri  tanti  un  Hetg  ballo  : 

Arpe,  lauti,  citere,  lironi, 

Senza  mai  farvi  punto  d' intervallo, 

Addolciscon  le  orecchie  d'  uditori 

Al  nome,  eh'  hanno  impresso  dentro  i  cuori. 

Al  dolce  nome  sovra  ogni  altro  grato, 
Nome  amoroso,  nome  aureo  e  suave, 
Nome  del  mio  lesù  forte,  sacrato, 
Nome  di  grazie  ponderoso  e  grave. 
Non  è  macchia,  sì  lorda  di  peccato. 
Che  '1  dolce  nome  di  lesù  non  lave. 
Nome  che  chi  lo  noma  in  spirto,  sente 
Mordersi  '1  cuore  d'  un  pietoso  dente. 

Quivi  se  non  in  danze  e  giochi  stassi. 
Danze  pudiche,  giochi  allegri,  onesti. 


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198  11  caos  —  Selva  terza 


Chi  su  le  penne,  chi  su  lievi  passi 
Que'  leggiadretti  spirti  modesti 
Scorron  il  bel  giardino,  or  alti  or  bassi, 
Quelli  de'  boschi  per  le  cime,  questi 
Per  le  fiorite  piaggie,  e  verdi  prati 
Succinti,  o  in  bianche  stole,  o  nudi  alati. 

Altri  con  reti  d' oro  i  pesci  snelli 

Tranno  di  questo  rio,  di  quello  fonte; 

Altri  tendon  guazziarsi  ne'  ruscelli 

Chi  pie,  chi  man,  chi  V  ale,  clii  la  fronte. 

Altri  celan  archetti  ai  vaghi  augelli. 

Per  macchie  e  ripe,  o  sotto,  o  sopra  un  monte. 

Altri  scaccian  de'  boschi  e  folti  vepri 

Dame,  conigli,  cervi,  capre,  e  lepri. 

Vidine  molti  ancora,  con  bei  freni 
Di  seta  e  oro,  stringer  lioncorni; 
Chi  li  rallenta  il  morso  chi  '1  sostiene 
Con  lievi  sbalzi  e  volgimenti  adorni. 
Franguelli,  piche,  merli,  e  filomene, 
Con  papagalli,  rondinelle,  e  storni, 
Volan  di  ramo  in  ramo,  a  schiera  a  schiera, 
Cantando  la  sua  eterna  primavera. 

Eterna  primavera  qui  verdeggia, 

Che  'n  le  catene  il  tempo  giace  altrove. 
Aprile  quivi  e  marzo  signoreggia. 
Né  mai  da  1'  ombre  zefiro  si  move. 
Per  cui  soavemente  sempre  ondeggia 
L'  altezza  de  colline  e  poggi,  dove 
Pini,  cipressi,  querze,  faggi,  abeti, 
Addombrano  vallette  e  campi  lieti. 

Quivi  onoratamente  fui  raccolto 

Da  duo  barbati  e  candidi  vecchioni, 

U  uno  fu  Enocco,  e  1'  altro  che,  distolto 

Di  terra  ascese  in  ciel  fra  spirti  boni, 

Quando  Eliseo  videlo  nel  molto 

Foco  volar  a  1'  alte  regioni  ; 

Questi  con  lieto  volto  m'  abbraccialo. 

Mostrando  il  mio  advenir  quant'  ebber  caro. 

Vado  fra  loro  poscia,  lento,  lento, 

Favoleggiando  verso  il  gran  palaccio, 


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Il  caos  —  Selva  terza  199 


Ecco  quegli  angioletti,  a  ti'enta,  a  cento 
Lascian,  chi  Y  arpa,  chi  1  danzai-,  chi  '1  laccio, 
E  vengono  assaliiini  in  un  momento. 
Con  im  soave  intrico  e  dolce  impaccio. 
Perchè  mi  cercan  gli  omeri,  la  testa, 
Di  sua  leggera  salma  e  fanno  festa. 

Entrano  ne  Y  adoma  e  ampia  stanza. 

Non  men  di  quelle  del  signor  mio  bella, 
Bella  e  gioiosa  for  d'  umano  usanza, 
Qual  oggi  a  Marmirol  si  rinovella, 
E  qual  li  ombrosi  campi  sovravanza 
In  Piettoli  sul  chiaro  Minzio,  e  quella 
Ch'  enti-o  Y  antiqua  ten'a  di  Gonzaga 
Mostrarsi  al  viatore  tanto  vaga. 

Trovamo  un  spacio  quadro  d'  una  liscia 
Piazza  de  marmi  lustri  e  altre  pietre. 
Ove  nel  mezzo  la  fatale  biscia. 
Come  sotto  acqua  fanno  le  lampe  tre, 
Sdrucciola  quinci  e  quindi,  ma  non  fiscia. 
Che  '1  capo  ha  di  dongiella,  e  par  eh'  impetre, 
Col  vago  suo  sembiante,  che  chi  passa 
Subitamente  al  suo  voler  s'  abbassa. 

S'  abbassi  tostamente  a  la  sua  voglia 

Di  por  le  mani  a  quel  vietato  ramo. 
E  dispicarne  il  frutto,  onde  la  doglia 
Succede  poscia  al  vostro  interno  Adamo, 
Lo  qual  non  mai  si  vede  senza  spoglia. 
Se  non  dapoi  che  Y  esca  di  quel  amo 
U  attosca  sì,  che  morto  ne  rimane. 
Fin  che  T  rilevi  poi  lo  empireo  pane. 

Quel  pane  dolce  bianco  e  immortale 

Che  pasce  in  ciel  Y  angelica  famiglia. 

Non  è  morbo,  né  peste  sì  mortale, 

Che  questo  pan  salubre  a  chi  se  1  piglia, 

Con  salda  fede,  no  '1  risani,  quale 

Fu  de'  leprosi  già  la  meraviglia. 

Ma  guardesi  chiunque  indegnamente 

A  un  sì  soperbo  cibo  admove  il  dente. 

Soperbo  cibo,  che  d'  umilitade 

Profondissima  sorse  in  mia  salute; 


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""^J^ 


200  II  caos  —  Selva  terza 


Soperbo  cibo,  ove  V  alta  bontade 
Corcò  d'  erger  e  morti  la  virtiite,  (1) 
Soperbo  cibo,  il  qual  con  veritade 
Convien  che  'n  corpo  e  sangue  si  trasmute, 
In  corpo  e  sangue  del  umano  Dio, 
Che  disse:  or  mannucate  il  corpo  mio. 
Ma  come  egli  togliesse  il  grave  assonto 
In  sé  d'  ogni  mia  colpa  su  la  croce, 
Avrovi  a  dir  col  tempo  s'  io  m'  affronto 
A  un  stil  piti  grave,  e  non  pii\  che  veloce, 
Che,  se  d'  altri  concetti  al  giogo  monto 
[•  Col  senso,  non  sussegue  poi  la  voce 

1^'  Se  non  debil  inferma,  come  chiaro 

Si  vede  ch'io  non  so,  ma  tardo  imparo. 
Vedrò,  se  1  debil  filo  non  si  taglia, 

Nel  mezzo  del  camin  di  nostra  vita, 
Quel  raggio,  eh'  ora  il  senso  m'  abbarbaglia 
I  Con  \^sta  piti  vivace,  e  pih  spedita. 

[  De'  bianchi  e  negri  spirti  la  scrimaglia 

Ben  tengo  de  le  muse  al  monte  ordita^, 
Ma  eh'  abbia  se  non  tutto  almen  in  parte 
1  Di  Lodovico  attendo  il  stile,  e  1'  arte.  (2) 

t  Non  piti  Merlino,  Fulica  e  Limerno 

\  Oltra  sarovvi,  ma  sol  Triperuno. 

!  Tratto  son  oggi  mai  di  quel  niferno 

I  '  Ove  chi  faccia  ben  non  vi  è  sol  uno, 

I  Per  te  lesù,  per  te  vedo  e  discerno 

'  Esser  del  cibo  tuo  sempre   dcgiuno, 

i  .  Ed  ingannato  al  fine  si  ritrova 

'^  Chi  lascia  la  via  vecchia  per  la  nova. 

;  FINISCE    LO    CAOS 

:  DEL  TRIPERUNO 

t 

(1)  In  ambedue  le  edizioni  si  legge  questo  verso,  ma  che  eredo  sba- 
;                                            gliato,  non  dandoci  alcun  senso.  Credo  invece  sia  da  leggersi  cosi:  Cerctì 

adergere  a*  moi^fi  la  virtude. 

(2)  In  queste  stanze  ripete  il  proposito  già  espresso  pid  addietro,  a 
■^                                         pag.  167,  stanza  —  Scorgi  la  man di  scrivere  intorno   a   Cristo,  una 

difatti  scrisse  poi  il  poemetto:  Della  wnanilà  di  Cristo, 


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DE  AUREA  VRNA 

QUA   INCLUDITUR  EuCHARISTU. 


U. 


Irnula,  quam  gemmis  auroque  nitere  videmiis, 
Quseritur  angusto  quid  ferat  illa  sinù? 

Haud,  ea  pestifero  Pandorse  infecta  veterno 
Intulit  omnivagas  orbe  adaperta  febres? 

At  pretium,  quo  non  aliud  pretìosius,  ìpsa  baec 
Quod  rerum  amplexus  non  capit,  ui'na  capit. 


MIRA  PUORUM 
AMICITIA. 


F 


ortius  an  posset  domus  A  rdua  calce  tener  I, 

R  oboraque  an  piceum  fii*  M  a  ratis  oblita  glute  N, 
A  rtius,  amborum,  ut  vide    0,  se  vestra  catheni  S 

N  ectere  amicitise  tum  R  arse  pectora?  et  alt        O 

C  olle  fidem  vestram  stabile  E  rrexisse  tribuna  L  ? 

I  nstat  enim  quercum  dum   T  aurus  veliere  corn  V, 

S  axaque  spumosis  in  F  luctibus  ardua  dum  su   B 

C  autibus  unda  quatit,  magis  I  ma  e  sede  mover  I 

O  mnia  tunc  possent,  quam  D  ivum  haec  unio,  qua  ni  L 
R  ectius  humanis  viget,  E  t  ferit  aethera  land  E, 
UM  braque  post  cineres  con  S  tat  per  secula  grandi      S. 


DE  GEORGIO  ANSELMO. 


G 


randi  vectus  equo  ruit  E  cce  Georgius,  hast  A 

E  rrecta  in  colubri  le  T  hum,  cui  guttur  et  ingue  N 

0  ra  per  abrumpit  tam  in  D  ignos  virginis  artu  S 
R  egalis  bibitura,  quod  E  t  tibi  nomen  honosqu  E 
G  loriaque  obtingit,  iacu       L  is  cum  Phoebe  nigrum  fé  L 

1  ngentes  per  agros  furis  I  n  pytona  vomente  M 
V  atem  ergo  ad  tantum  facit  U  num  id  nomen,  ut  act  V 
S  it  prò  eodem  phsebus  ver  S  u,  tituloque  Georgiu        S 


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202 

TUMULUS.  M.  C.  C. 


F 


elicem  ingenio,  Un  G  iia,  patria,  patre,Mai-cuM 

I  mmatura  seccat  mors  E  cce,  tuumque  sub  are  A 

L  umen  obijsse  gemis  stirps,  O  Cornelia,  nec  cu  R 

1  ngratsB  possis  te  R  orna?  credere  post  ha  C 

V  ideris  :  ipse  quidem  dum  G  rato  ad  maxima  vult  V 

S  ceptra  galeratus  volat,  I  tur S(l) 

A  l'  integerrimo  signor  Alberto  da  Carpo. 

Signore  mio  !  F  altissima  cui  fama 

Sin  oltra  1  ciel  ottavo  s'  alza  e  gira, 
Amor  mi  sprona  e  la  ragion  mi  tira 
Dir  quanto  in  terra  ognun  v'  onora  e  ama  ; 

E  mentre  son  per  addempir  mia  brama, 
Giungendo  rime  al  son  di  bassa  lira, 
Mi  resto  e  dico:  Ahi!  mente  mia  delira, 
Che  gir  ti  credi  ove  '1  desio  ti  chiama. 

Chi  salirà  tant'  alto  ?  ne  la  lingua 

Di  Tullio,  e  di  Vergilio  l'aurea  tromba 
Potria  montar  di  sua  vertude  al  giogo. 

E  pur,  come  che  '1  stile  mio  soccomba 
A  queir  altezza  tanta,  non  si  estingua 
Di  lui  cantar  un  desioso  fuogo. 

Ad  un  altro  Alberto  da  Carpo 
di  tal  nome  indegno. 


LIMERNO. 


G 


4aro  Geraiano.  Potriati  facilmente  pervegnire  a  le 
orecchie,  che   favoleggiando  noi   Fulica   e    Triperuno  in- 


(1)  In  ambedue  le  edizioni  vi  ha  questa  lacuna  nel  finale  deirultimo 
verso,  che  io  non  saprei  come  riempire. 


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203 


sieme  ed  io  con  loro  de  la  miracolosa  dottrina  de  uno 
asino,  mi  occurse  adducerti  in  testimonio  o  sia  essempio 
di  coloro,  li  quali  non  sapendo  parlare,  si  intromettono 
temerariamente  fra  gli  saputi  e  savii  uomini  a  ragionare 
de  li  altrui  fatti  e  costumi,  volendosi  elli,  con  lo  biasmar 
altri,  mostrarsi  di  qualche  onore  e  reputazione  degni.  E 
perchè  tu  da  me  ti  chiamerai  forse  oltraggiato  essere  e 
vituperato,  ti  rispondo  nauti  tratto,  che  con  Y  altre  tue 
bone  condizioni,  matto  ancora  ti  mostrerai,  quando  in  te 
non  voglia  patire,  quello  che  in  altro  giamai  non  cessi 
adoperare,  io  dico  ne  l'altrui  fama  e  onore.  Dimmi,  uomo 
dapocagine,  che  tu  ti  sei,  con  che  ragione,  con  che  giu- 
stizia, con  qual  caritade  tu  con  queir  altro,  che  fiorentino 
si  fa,  Sebastiano  puzzabocca,  e  con  altri  toi  simili  fur- 
fanti, a  li  quali  ben  sta  quella  sentenzia  del  mio  barbato 
Girolamo,  possideiit  opes  sub  paupere  Ckristo,  quas  sub 
locuplete  diabolo  non  habuerint^  per  qual,  dico,  necessaria 
cagione  non  mai  vi  straccate  di  cercare  far  danno  ne  la 
fama  ed  onore  del  giovene  innocente  Triperuno  ?  In  che 
cosa  egli  vi  offende,  diavoli  che  voi  siete  ?  Ah  maledetta 
rabbia  di  questa  invidia!  come  se  indraca  più,  come  se 
invipera  nel  sangue  innocente,  perchè  sa,  perchè  vede  (1) 
lui  aver  posseduto  di  libertade  lo  paradiso  terrestre,  de 
lo  evangelio  la  luce  anti  smamta,  d'un  orso  mansuetis- 
simo la  grazia.  Roditi  dunque  da  te  istessa,  o  conscienzia 
diabolica,  la  quale  per  tua  soperbia,  lo  perduto  seggio  a 
l'uomo  esser  donato  vedi.  Lasciatelo  stare  in  vostra  ma- 
lora, arrabiati  cani,  che  egli  non  pur  non  vi  offende,  ma 
si  sdegna  pensar  così  bassamente  de  voi,  malvagi  e  invi- 
diosi spirti,  non  tutti  dico,  non  tutti  appello,  anzi  lodo 
e  reverisco  li  uomini  quantunque  rari  conscienzienti.  Ma 
tu,  Alberto,  al  quale  un  tal  nome  di  quello  non  pur  ac- 
costumato e  saputo  signore,  ma  profondissimo  filosofo 
così  conviene,  come  ad  uno  asino  la  sella  d'  un  bel  de- 
striero, per  mio  consiglio   studiati   avanti   di   meglio  raf- 

(l)  Nella  prima  edizione  si  legge  nede,  nella  seconda  ne  de  che  io 
reputai  sbagliato  e  T  uno  e  V  altro,  e  che  fossero  invece  di  vede,  colla 
quale  parola  si  ha  il  senso  chiaro  e  netto. 


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204 


frenar  la  lingua,  che  non  facevi  lo  tuo  cavallo  gi'osso, 
al  temjK)  de  le  barde,  essendo  soldato  vecchio;  che  noi 
facendo,  mostrerotti  una  penna  di  oca  piti  eloquente  es- 
sere, che  la  lingua  d'  uno  baboino.  Guardati. 


Finito  di  stampare  nel  Marzo  del  1889. 


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INDICE 

DEL  TERZO  VOLUME  DELLE  OPERE  MACCHERONICHE 

DEL     FOLENGO 


DELL'ORLANDINO. 

I.  —  1.  La  pubblicazione  dell*  Orlandino  e  del 
Caos.  -  2.  Ragione  ed  importanza  della 
pubblicazione ,    •    .  P^m*       m 

IL  —  1.  Il  soggetto  del  poemetto.  -  2.  Quando  e 
perchè  il  Folengo  lo  compose.  -  3.  Dell'  in- 
venzione, dello  stile  e  della  lingua    ...»  v 

IH.  —  1.  Della  presente  edizione.  -  2.  L'Apologia 

dell'  Orlandino.  -  3.  Nota  bibliografica      ,    »    xxviii 

DEL   CAOS. 

I.  —  L  Cosa  è  il  Caos.  -  2.  Il  frontespizio.  -  3.  ^' 

Quando  fu   scritto  e   stampato.  -  4.   delle 

due  edizioni »    xxxiv 

IL  —  1.  L'intento,  il  concetto  e  il  carattere  del 
libro  -  2.  I  personaggi.  -  3.  Dell'  interpre- 
tazione del  Ca^s.  -  4.  Dello  stile  e  della 
lingua.  -  5.  Della  presente  edizione  ...»  xxxviii 

IH.  —  1.  Il  Dialogo  delle  Tre  Etadi »     xlvii 

IV.  —  1.  Della  Selva  prima -         liv 

V.  —  Della  Selva  seconda.  -  2.  Delle  tre  regioni 
allegoriche,  la  Matotta,  la  Carossa,  la  Pe- 
rissa.  -  3.  Del  centro  e  della  fine  del  Caos    »      Lviii 

VI.  —  1.  Della  Selva  terza »  lxxviii 

VII.  —  L  II  costrutto  del  Caos »  LXXXiil 

VIII.  —  L  Degli   Studi    sul  Folengo'  e  sulla   mia 

Edizione >  cu 

IX.  —  1.  La  Cipadense »     cxvii 


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) 


L'ORLANDINO 

Capitolo    ] pag.    3 

Id.       2 »  20 

Id.       3 »  39 

Id.       4 >  61 

Id.       5 ,        .        .  »  80 

Id.       6 »  101 

Id.       7 '       .        .        .        .  »  116 

Id.       8 »  134 

Note .  »  159 

IL   CAOS 

Il  Dialogo  delle  Tre  Etadi       .        .        .        ,  »  3 

La  Selva  Prima »  17 

La  Selva  Seconda »  i9 

La  Selva  Terza »  KU 

Epigrammi »  201 

Lettera  ad  uu  altro  Alberto  da  Carpi    ...  >  202 


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